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Il Burkini, Eva e la sua mela: emancipazione incompiuta, premessa inaccettabile

Tutte le volte che i media martellano su un argomento c’è da farsi 4 domande non tanto su quello che dicono quanto su quello che omettono di dire. Dei cugini francesi io avrei voluto si parlasse, ad esempio, in merito alla lotta al Loi Travail o allo Stato di eccezione che oggi trova eguali solo nella “democraticissima” Turchia. E niente, dobbiamo accontentarci del burkini. Banali principi di equità e proporzione imporrebbero ben altre aperture di TG e discussioni ma quando un argomento diventa virale significa che sono in gioco le menti manipolanti e dire la propria forse è uno dei modi per scompigliare i ragionamenti precostituiti e le opposte tifoserie. Accontentarci, si fa per dire, perché da che mondo è mondo i fenomeni di costume vanno a braccetto con le metamorfosi culturali. Parto da due premesse. La prima: a differenza di molti che parlano di velo e di Islam solo per sentito dire o, se va bene, solo in quanto studiosi, io ho esperienza diretta col mondo musulmano e il tema del velo l’ho affrontato decine di volte. La seconda: accontentarsi di dire “ognuno si vesta come vuole” è una mistificazione un po’ lava coscienza . Davvero le donne sono libere di non portare il velo? Davvero un insegnamento inculcato dall’infanzia è oggetto di scelta libera e consapevole? Davvero è bello avere qualcosa addosso con 40 gradi? Davvero uscire dall’acqua con la muta di un sub significa godersi il mare? Che poi il velo è solo la cartina al tornasole di un “ragionamento” più ampio che vede la donna come pericolosa istigatrice. Vai col check quotidiano sui vestiti, sui centimetri di corpo scoperti, sul rossetto troppo rosso. L’alibi per il velo è che “i tesori vanno protetti”. Protetti. Si insomma, questa donna ha sempre bisogno di essere protetta. Da chi? E soprattutto come? Non certo a colpi di ordinanze. Ordinanze che probabilmente otterranno solo il risultato di far stare a case quelle donne. Ordinanze che valgono solo in una spiaggia pubblica e mi piacerebbe sapere se cotanta solerzia vale anche per i sauditi nelle piscine degli alberghi a 6 stelle. In fondo i musulmani evitano a monte, ciò che quasi ( ci tengo al quasi e non al tutti) gli uomini pensano a valle: la deresponsabilizzazione sessuale di fronte a una provocazione. Il dio testosterone fa il suo mestiere senza bisogno di alcuna istigazione ma meglio accollarla alla provocatrice. Perché certo i musulmani che da un lato vogliono proteggere col velo, dall’altro non disdegnano poligamici e variegati giri di giostra con le scostumate velo- free . Per poi magari sputare subito dopo nel piatto in cui si è mangiato. E blablabla. Ma noi? Noi donne velo- free possiamo davvero dire di essere libere? Siamo libere quando si, possiamo vestirci come ci pare, ma tanto il giudizio rimane sempre quello dei tempi della mela e di Eva? Quando il denaro gira intorno ai nostri corpi e siamo quarti di bue da sbattere in faccia come consigli per gli acquisti? Quando le ragazzine si ammalano di anoressia e bulimia perché non reggono il confronto con un modello femminile innaturale, plastificato, ideato a uso e consumo di un piacere altrui? Nossignori, neanche noi siamo libere. Gli anni 70 e le femministe, a cui non sarò mai abbastanza grata, ci hanno consegnato la libertà di vestirci ma l’emancipazione è incompiuta e non abbiamo alcun diritto di farci modello coloniale, ancora una volta. La storia ci insegna che la libertà si conquista con le spinte. Le spinte di chi assume la consapevolezza delle proprie condizioni materiali e decide di cambiarle con la lotta partendo da se stesse. Rischiando. Anche con la sua famiglia e l’occhio sociale che le monitora. Ripartire da noi, da noi donne, prima di tutto. Rifiutare qualsiasi forma di protezione morale, uso strumentale o tritacarne mediatico. Far assaporare a chi è ancora meno libera di noi la bellezza di non doversi mai sentire impure o puttane. Non esiste un modo precostituito per farlo. Esiste la solidarietà, esiste il coraggio, esiste l'ascolto attivo, esiste l’internazionalismo delle lotte, esiste il racconto di un’altra prospettiva possibile. Raccontarla senza parole quella prospettiva: con la propria vita. Non ho l’arroganza culturale- coloniale di dire basta al velo, ma ho il coraggio di dire che la sua premessa ( la donna come portatrice di istigazione) non solo è inaccettabile ma rappresenta un pericolo anche per la mia condizione femminile e in quanto tale va contrastata. Lo rappresenta perché avalla un modello mela ed Eva da cui anche da questa parte del mondo non siamo uscite. Perché come diceva Stefania Noce “nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione.”

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1 Commento


  • Anna

    E ci si potrà vestire ognuno come gli va, mi domando perchè gli uomini non hanno il coraggio di farlo già.

     

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