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Il G7 esplode

Il G7 non esiste più. I funerali per ora non hanno una data, ma il cadavere è lì davanti a noi. E solo l’inesauribile ironia della Storia poteva far avvenire il decesso in un maniero (nella foto) che sembra proprio quello di Shining…

Le notizie che arrivano, stilate in fretta da cronisti assuefatti all’aplomb dei vertici internazionali, parlano quasi soltanto di un Trump “imprevedibile”, irrazionale, furioso e vendicativo verso partner che considera nanerottoli fastidiosi e truffaldini. Al punto da twittare, dall’aereo ormai in volo verso Singapore, un ordine che cancella mesi di trattative: «Sulla base delle false dichiarazioni di Justin alla conferenza stampa e del fatto che il Canada impone enormi barriere ai nostri agricoltori, lavoratori e aziende, ho istruito i nostri rappresentanti statunitensi di non sottoscrivere il Comunicato mentre guardiamo a dazi sulle auto che invadono il mercato statunitense!»

Com’è ormai consuetudine, il comunicato finale di questi vertici è in genere un capolavoro di non detti, che devono lasciare spazio a ulteriori discussioni affidate agli sherpa (gli esperti sui vari temi su cui c’è conflitto), in una successione di rinvii senza strappi finalizzati a dare l’impressione che i “grandi del pianeta” siano uniti, sappiano cosa fare e come indirizzare le sorti dell’umanità.

Lo strappo di Trump mette fine a questa movenza da danza immobile e certifica che il mondo va allo sbando, nessuno sa cosa fare per governarlo e ognuno dei soggetti principali bada soprattutto al proprio interesse.

Detta con altre parole: è il certificato di morte della “globalizzazione”.

Il cuore dello scontro, da anni, sono i trattati commerciali, le ragioni di scambio tra aree continentali, gli squilibri che si traducono in crisi o “armonia” sociale, e quindi in/stabilità politica interna. Trump lo scrive e dice senza più giri di parole: «Non possiamo accettare che gli Stati Uniti siano usati come il salvadanaio a forma di porcellino dal quale tutti rubano».

L’idea – venduta al proprio elettorato statunitense – è che il deficit commerciale americano sia stato creato da un’eccessiva condiscendenza politico-commerciale delle amministrazioni precedenti (tutte, democratiche o repubblicane, facce diverse dello stesso establishment) e da partner furbetti, usi al “chiagn’e fotte”.

La realtà è ovviamente più brutale, meno legata a scelte politiche o errori soggettivi. Ed è la realtà del capitalismo senza più avversari, dalla Caduta del Muro ad oggi, che ha dato forma a un mondo ad immagine e somiglianza degli interessi immediati (fondati sulle “relazioni trimestrali”) del gradissimo capitale finanziario e multinazionale. Questo capitalismo “neoliberista” ha spostato filiere produttive gigantesche, storicamente radicate in territori precisi dell’Occidente, per re-impiantarle in paesi arretrati e poverissimi, dove il costo del lavoro era in pratica pari a zero.

Una pacchia per i profitti: produci là dove il costo è basso e vendi qua, dove i prezzi possono essere alti, a volte arbitrari.

Ogni bel gioco dura quel che dura, però. Questo modello, in quasi trenta anni, ha cambiato i pesi specifici delle varie aree del pianeta. La Cina è diventata la manifattura del mondo, insieme a pochi altri paesi (l’India, non a caso), mentre l’Occidente funzionava da mercato finale, mantenendo al massimo la produzione di armi sofisticate e (in parte) l’hi tech.

Il “modello tedesco” – export oriented, centralizzando la produzione dei subfornitori europei alle dipendenze delle filiere di Berlino – è stata una varante sul tema. Al prezzo però di semi-desertificare buona parte della capacità produttiva dei suoi partner continentali, creando altri squilibri che hanno generato risposte “populiste” e nazionaliste, ma anche di segno opposto, soprattutto in Francia e Spagna).

Alla fine i nodi sono arrivati al pettine. Gli Stati Uniti hanno di fatto 100 milioni di disoccupati effettivi (le statistiche chiamano “scoraggiati” quelli che il lavoro neanche lo cercano più), una marea di working poor e un ceto medio sempre più sottile. Il consenso politico al modello sociale Usa è quindi saltato. Trump è il risultato di questo processo, non la sua causa.

Le mosse “imprevedibili” del reazionario col ciuffo sono tali solo per chi ancora ragiona secondo gli schemi mentali neoliberisti, incentrati su un “interesse comune” che non esiste più; ma diventano quasi scontati per chi guarda alle ragioni strutturali di una crisi di sistema.

Gli Usa non sono più l’unica superpotenza. O almeno il differenziale tra la loro potenza e quella dei concorrenti (Cina innanzitutto) non è più tale da consentir loro di condurre il gioco in piena libertà. L’Unione Europea – fin qui costola servile sul piano militare – è un’area di forza economica anche superiore, ma non in grado di esercitare alcuna egemonia planetaria, in pesante crisi al proprio interno, alla perenne ricerca di una governance più rigida ma senza condivisione dei rischi (come avviene in qualsiasi paese, alla ricerca dell’equilibrio tra aree più o meno sviluppate). Per esercitare egemonia serve uno Stato, non un sistema di trattati commerciali immodificabili e fonte di squilibri.

Russia e Cina – e i paesi asiatici dell’ex Unione Sovietica – stanno rafforzando la loro cooperazione, grazie anche ad investimenti colossali nella “nuova via della seta”, che hanno nell’Europa uno dei terminali “naturali”, se non altro per continuità geografica.

Una volta si sarebbe detto che i poli imperialisti – quello storico e quelli in crescita – sono adesso più d’uno. E con criteri d’approccio molto differenti, oltre a possibilità operative altrettanto differenti (qui si dimostra che l’Unione Europea è una gabbia anche per se stessa, non una macchina da corsa).

L’”imprevedibilità” di Trump è insomma la manifestazione di una crisi di egemonia. Là dove Clinton, i Bush e Obama potevano chiamare i partner (Europa, Canada, Giappone) a tessere una tela in grado di mantenere la supremazia al capitalismo occidentale, oggi gli Usa sono finiti in mano a Trump per l’esigenza opposta: rompere tutti gli schemi globalisti per stabilire “rapporti bilaterali” – tra un paese e un altro – in cui far pesare maggiormente la residua superiorità statunitense.

Il resto sono chiacchiere da bar, ma scritte sui giornali.

Lo si vede ormai distintamente. I media nostrani, soprattutto, si soffermano sulla “debolezza” o la scarsa preparazione del neo-presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sperando con questo di rafforzare l’opposizione “UE-ista” a un governo ripiegato sul nazionalismo economico. Di provare a capire che anche per la Ue, in questo nuovo quadro, ora sono “cigni neri”, neanche per sbaglio.

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