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Prime riflessioni sull’accordo interconfederale del 28.6.2011

Come afferma la storiografia più avvertita “la storia è sempre storia del presente”. Il tratto più straordinario dell’oggi sono le analogie davvero impressionanti con il triennio 1991 – 1994. L’esplosione delle inchieste giudiziarie, il franare di un blocco di potere ventennale (allora il Caf oggi Berlusconi), l’invito a disertare il referendum per recarsi “al mare” rinviato al mittente ieri come oggi, la primavera elettorale dei comuni (ieri Bassolino oggi De Magistris), l’attacco speculativo al sistema economico paese e la finanziaria monstre (ieri 90.000 miliardi oggi 50 o più miliardi di euro), il Governatore di Bankitalia prestato alla salvezza della patria (ieri con Ciampi alla presidenza del Consiglio, oggi con Draghi alla presidenza della BCE), e sopra ogni cosa il ruolo del Presidente della Repubblica che – Napolitano come Scalfaro – utilizza tutta la propria credibilità e “moral suasion” per condurre il paese fuori dalle secche delle contrapposizioni invocando responsabilità nazionale e rigore. E, ovviamente, c’è l’architrave della nuova geografia sociale responsabile ovverosia un accordo interconfederale con cui lavoratori e aziende mettono al bando ogni conflitto e rivendicazione nel superiore interesse della produzione. La differenze dell’oggi è che tutto ciò è accaduto non in tre anni – come allora – ma in tre mesi. A quei tempi si dovette attendere il marzo 1994 (con la vittoria di B.) per scoprire con sgomento come la caduta di un sistema non producesse per germinazione naturale lo spazio per il cambiamento. Oggi il fatto è del tutto chiaro appena 15 giorni dopo il risultato dei referendum con l’adesione bipartisan alla finanziaria, l’avvio militarizzato dei lavori per la Tav in val di Susa, la prosecuzione dell’azione in Libia ed il generalizzato plauso per la ritrovata unità sindacale; il tutto sotto l’attento e attivo sguardo del Presidente della Repubblica. Tutto si poteva pensare tranne che il Governo tecnico si potesse fare con a capo B. e senza soluzione di continuità. Ma così è, ed allora partiamo proprio dal 1993, focalizzandoci – come è necessario – sulla democrazia sindacale

Ed infatti il protocollo del luglio 1993 prevedeva due significative contropartite alla moderazione salariale che esso imponeva:

  1. la previsione per la prima volta di rappresentanze sindacali sul posto di lavoro elettive (le RSU) con l’impegno a “un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, a una generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori” e qui va sottolineato l’aggettivo “legislativo” e il sostantivo “maggioranza”, in altre parole: l’attuazione sempre rinviata dell’art. 39 della Costituzione.

  2. la mancata limitazione del diritto di sciopero al di fuori dei servizi pubblici essenziali, in controtendenza rispetto ai maggiori paesi Europei (Germania in testa);

E questi punti davano l’avvio nel pubblico impiego all’ultima riforma di segno progressista (sia pure piena di ombre) dopo lo Statuto dei lavoratori, ovverosia le leggi sulla contrattualizzazione e sulla rappresentanza , e nel privato – ove il Governo veniva meno al suo impegno di intervenire “legislativamente” – l’avvio (sia pure a macchia di leopardo) di elezioni sul posto di lavoro in base al successivo accordo interconfederale del dicembre 1993.

Sono note le molte limitazioni attinenti alle RSU (quali l’obbligo di riserva delle Rsu del 33% a Cgil Cisl e Uil, la natura pattizia e quindi pressoché inesigibile da terzi dell’accordo, l’utilizzo distorto dell’unitarietà per sopire voci dissenzienti ecc.) ma il punto è che tale nocciolo duro di democrazia, e di potenziale conflitto, vi era e però era sopportato in quanto sufficientemente tenuto a bada dal tavolo nazionale della concertazione e quindi non disturbava significativamente le relazioni sindacali che guidavano il paese verso l’odierna bancarotta, con la spensieratezza della nascente net.economy e del vagheggiato ulivo mondiale.

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L’attuale fase la possiamo e dobbiamo spiegare però con la decisione, maturata per prima da confindustria e pezzi di rappresentanza politica del territorio sul finire degli anni 90 (primo caso di rilievo è il famoso patto per Milano del 2000), di non avere più bisogno della mediazione politico-sindacale del tavolo nazionale della concertazione. E questo ha condotto alla successiva fase iniziata con il secondo Berlusconi (quello del 2001) ed il suo famoso patto per l’Italia che conduceva alla prima clamorosa spaccatura tra Cisl e Uil da un lato e Cgil dall’altra..

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E però, con la successiva breve parentesi del Centrosinistra, le confederazioni ritrovavano l’accordo, e lo ritrovavano proprio sulla rappresentanza con la condivisione delle linee di riforma della struttura della contrattazione” del 7 maggio 2008 (il cui contenuto illustreremo a seguire) che la Cgil sottoscriveva nella davvero ingenua speranza di poter fare blocco rivendicativo con Cisl e Uil e Confindustria nei confronti del neonato governo Berlusconi IV.

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Ma l’obiettivo a cui ha poi dedicato ogni sforzo il Ministro Sacconi era tutt’altro. Al riguardo invito per brevità a leggere il programma che Sacconi al momento del suo insediamento si è subito pubblicamente dato (lo si può trovare in rete con l’interessante titolo “Liberare il lavoro, lavorare, guadagnare, crescere in una società attiva”), in esso è già delineato il percorso compiuto sino a qui (e quello che si intende ancora compiere). In tale programmino si afferma esplicitamente come il sistema di relazioni sindacali debba essere riformato “spostandone il baricentro nell’azienda e nel territorio”. La piramide quindi si rovescia ma si ripropone il problema: non potendo più controllare e reprimere democrazia e conflitto con la concertazione esse vanno direttamente eliminate. Ecco lo scarno ma efficace programma delle relazioni sindacali “complici”.

Abbiamo quindi trovato il nodo, la scommessa su cui il progetto di Sacconi (e di buona parte dell’attuale gruppo dirigente di Confinfustria nonché la Cisl e la Uil) tiene o salta: la democrazia sindacale, la modulazione dell’estensione e della derogabilità della contrattazione e la possibilità di resistenza ad essa e di conflitto collettivo ed individuale. Ciò a cui alacremente ha allora lavorato il Sacconi erano le trattative sboccate poi nell’accordo separato dello scorso gennaio 2009 sul sistema contrattuale (non firmato dalla CGIL). Relativamente ad esso a molti osservatori era parso scarsamente comprensibile il fatto che nel pieno di una crisi economica globale, universalmente definita strutturale e di lungo corso, il governo, invece che rispondere della insufficienza delle c.d. misure anticrisi adottate, promuovesse un accordo separato sul sistema contrattuale. E ciò anche per i modesti effetti concreti che esso si proponeva: in sostanza l’allungamento della vigenza economica del contratto da due a tre anni (e la contestuale identica riduzione della parte normativa da quattro a tre anni), l’abrogazione del meccanismo della cd “scala mobile carsica” e il piccolo sostegno alla contrattazione di secondo livello con un generico – ed inevitabilmente modesto – impegno a diminuire la pressione fiscale sul solo “premio di produttività” da concordarsi a livello aziendale o locale. Ed ugualmente incomprensibile si appalesava l’opposizione della Cgil dato che tali previsioni erano già tutte (ma proprio tutte) contenute nell’accordo da essa siglato nel maggio del 2008. Molti hanno infatti pensato ad un mero diversivo o all’ulteriore strategia di marginalizzazione della CGIL per far sponda con la sua parte più “riformista” impegnata nella battaglia per rientrare a pieno titolo nella grande famiglia della relazioni sindacali complici. Entrambe le notazioni contengono del vero ma la parte qualificante dell’accordo è nascosta nelle sue ultime righe, rispetto a cui poca o nessuna attenzione è stata allora prestata in quanto per essa l’accordo rinvia, non a caso, a future negoziazioni (tra cui, evidentemente, proprio l’accordo dello scorso 28 giugno che qui si commenta). Ed allora vediamole tali innovazioni: a)“la contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento di servizi integrativi del welfare” (punto 4); b) “i successivi accordi dovranno definire… nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva valutando le diverse ipotesi che possono essere adottate con accordo, ivi compresa la certificazione all’Inps dei dati di iscrizione sindacale(punto 17); c) “le nuove regole possono determinare, limitatamente alla contrattazione di secondo livello ,,,,,l’insieme dei sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono proclamare gli scioperi(punto18).

Ma l’altro aspetto chiave di tale accordo, come avremmo meglio compreso poi, è quanto previsto all’art. 16. laddove si afferma che “per consentire il raggiungimento di specifiche intese per governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, le specifiche intese potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria”.

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Ma (come l’accordo del 28 giugno 2011 ci pare dimostri) non erano i contenuti a scoraggiare la Cgil dalla firma, in quanto – come si è detto – in larga parte coincidenti con l’accordo da essa siglato nel 2008 anche per quanto attiene il rapporto tra primo e secondo livello ove addirittura si prevedeva di deferire alla contrattazione di secondo livello (“alternativamente”aziendale o territoriale) non solo il “salario per obiettivo” ma anche “l’organizzazione del lavoro, sulla condizione e prestazione lavorativa, sulla valorizzazione della professionalità –attraverso la formazione permanente -, sulle partite degli orari, su tutte le tematiche legate alla flessibilità contrattata”, con un effetto devolutivo pressoché integrale e addirittura più ampio di quello ricavabile dalla procedura di deroga fissato nel 2009 (quanto meno per la parte normativa). Ed infatti l’esistenza di B. era sufficiente argine al reiteratamente frustrato tentativo della Cgil di riproporre a CONFINDUSTRIA un “patto tra produttori”, in quanto quest’ultima per ottenere dal Governo riteneva di non aver bisogno della Confederazione di Corso Italia (che, controvoglia, evitava dunque di firmare l’accordo del 2009). E quindi l’opposizione a tale disegno esplicitamente neocorporativo – in assenza di opposizione politica – riposava sul malmostoso ma rilevante ostruzionismo della Cgil in attesa di tempi migliori.

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Ma su tutto ciò si abbatteva il ciclone Marchionne che da subito chiariva di non sapere cosa farne dell’accordo del 2009 nonostante lo stesso paresse apparecchiato per le sue esigenze. Il Marchionne infatti (uomo spiccio come lo sono i nordamericani), impiegava pochi minuti a capire l’inutilità – ed anzi la farraginosità – del sistema delle deroghe. Ed infatti i suoi valenti consulenti gli illustravano come la litania degli organi di stampa main stream – che da anni raccontano come sia necessaria una legge (o quanto meno un riforma di sistema contrattuale) per consentire ai contratti aziendali di derogare o addirittura sostituirsi ai contratti collettivi nazionali – fosse una straordinaria bufala.

Ed infatti è unanime sul punto (purtroppo) la più recente Giurisprudenza nel sostenere che anche i rapporti tra i vari livelli contrattuali vanno disciplinati, in base al principio temporale (Cass., 9784/2003; 1576/2000; 4839/2001; 13300/2000). Per cui il contratto nazionale posteriore può derogare in peius al contratto aziendale precedente (Cass., 4354/89), come il contratto aziendale può derogare a quello nazionale. Risultano così superate le impostazioni precedenti (Cass., 233/78) che affermavano la preminenza e l’inderogabilità della disciplina posta dal contratto collettivo nazionale, ritenuto gerarchicamente superiore, ritenendo che il mandato fosse conferito dal lavoratore al sindacato di categoria e da questo discendesse verso i livelli inferiori. La giurisprudenza attuale partendo dal presupposto che tutti i contratti collettivi, a prescindere dal loro ambito di applicazione hanno la stessa dignità e lo stesso valore e che non sussiste quindi alcuna gerarchia tra gli stessi (8296/2001), stabilisce che prevale la disciplina più recente sulla precedente ancorché peggiorativa, ovviamente – e ci mancherebbe altro – con salvezza dei diritti quesiti (Cass., 4839/2001; 13300/2000). Il contratto aziendale ha natura ed efficacia di contratto collettivo e pertanto è, quindi, idoneo ad incidere anche in senso sfavorevole sul contratto nazionale (Cass., 2363/98; 8296/2001, S.U., 4570/96).

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Il sistema delle deroghe costruito dall’accordo separato del 2009 veniva ad avere così il paradossale risultato di legare la contrattazione collettiva aziendale ad “apposite procedure, modalità e condizioni”. In altre parole ciò che la Confindustria tentò con l’aiuto di governo e sindacati complici fu il disperato tentativo del famoso salvataggio delle capre e dei cavoli. Ed infatti preso atto del dilagare della fuga dalla contrattazione di settore invece di provare a difenderla, si comportarono come quei genitori che – incapaci di farsi rispettare dai figli – gli impartiscono l’ordine “fai quel che vuoi” e poi si vantano con gli amici di essere stati ubbiditi. E il Marchionne per primo ne decretò il fallimento, facendosi un contratto in proprio. Ma il suo problema non era certo quello delle deroghe al contratto nazionale (come si è visto già integralmente possibile) quanto liberarsi di democrazia e conflitto. L’invenzione della new.co a cui “non si applica l’art. 2112 c.c.” nasceva proprio da tale esigenza: far firmare ai lavoratori un nuovo contratto individuale in cui si incorporava quello collettivo siglato con i sindacati complici (in modo da legarli disciplinarmente alla “clausola di responsabilità”) e soprattutto quello di liberarsi per sempre dalle RSU in modo che nessun proprio dipendente mai più potesse votare i propri rappresentanti, ed in modo che nessun sindacato dissenziente potesse avere mai più agibilità sindacale all’interno delle sue fabbriche. Per questo occorreva allora liberarsi dal protocollo del 93, obiettivo perseguito simulando che la Fabbrica Italia fosse sorta per acquisizione originaria (come se gli stabilimenti di Pomigliano e di Mirafiori fossero una res derelicta casualmente trovati sul proprio cammino) disapplicando così l’art. 2112 c.c. che avrebbe comportato l’obbligo di recepimento anche di tale accordo interconfederale (in quanto in caso di cessione d’azienda l’effetto sostitutivo della contrattazione opera solo tra pari livelli). Ma per fare ciò Fabbrica Italia doveva rimanere fuori da CONFINDUSTRIA, altrimenti il recepimento dell’accordo sulle Rsu sarebbe divenuto automatico, e così è avvenuto con la non affiliazione delle nuove società a Federmeccanica.

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Qui nasce e finisce l’urgenza di un nuovo accordo: senza i contributi Fiat Federmeccanica chiude, e senza Federmeccanica Confindustria diventa nulla più che uno dei tanti centri servizi (esattamente cioè la triste parabola di Cisl e Uil). Ed è per questo e solo per questo che il fido Angeletti, con lettera del 13 giugno 2011 ha disdettato l’accordo sulle Rsu che (decorso il preavviso pattiziamente previsto di 4 mesi) dal 13 ottobre 2011 non sarà più vigente.

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Ebbene in questo quadro va riconosciuto che la Cgil pareva seguire una propria inerziale coerenza. Con l’accordo del 93 aveva concordato la natura elettiva della rappresentanza (le RSU) con l’impegno a “un intervento legislativo”, addirittura prevedendosi allora la progressiva scomparsa pattizia delle Rsa (ovverosia la rappresentanza su designazione delle organizzazione sindacali riconosciute dal datore per il sol fatto di aver firmato un contratto). Con l’accordo del 2008 aveva ribadito l’impegno per una “generalizzazione” delle Rsu senza mai quindi fare alcun riferimento alle RSA, e con il documento dell’11 gennaio 2001 aveva previsto di “estendere e diffondere le RSU a tutti i settori…rendere fattivamente esigibile (sia da parte dei lavoratori che di ciascuna delle Organizzazioni Sindacali) la elezione delle RSU in tutti i luoghi di lavoro …..definire un meccanismo elettorale democratico che garantisca la libera competizione tra le liste elettorali nella costituzione delle RSU …sancire il suffragio universale dei lavoratori con elettorato attivo e passivo da parte di ciascun dipendente dell’impresa nell’elezione delle RSU, sancire il diritto di voto anche per i lavoratori temporanei….esplicitare diritti, doveri e responsabilità delle RSU come soggetto e luogo in cui i rappresentanti sindacali svolgono le loro funzioni” Ed ecco quindi come pareva delimitata la disponibilità al negoziato della Cgil: una parte indisponibile (ovverosia le RSU, e cioè il diritto di tutti ad eleggere liberamente i propri rappresentanti a prescindere dalla firma o meno di contratti di lavoro) ed una disponibilissima ovverosia ogni possibile flessibilità lavorativa e di livello contrattuale; come si vede una posizione assai “riformista” quanto meno nella curiosa accezione italiana del termine.

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Che la parte indisponibile – e cioè la democrazia – non fosse proprio così indisponibile in effetti lo si era però iniziato a sospettare già con il semiclandestino Avviso comune del 12.4.2011 (ebbene sì, quello del 28 giugno è il secondo avviso comune siglata dalla Cgil sulla rappresentanza quest’anno). Ed infatti ad aprile le parti sociali erano chiamate – per obblighi comunitari – a pronunciarsi sul recepimento da parte del Governo della Direttiva 2009/38/CE sui Comitati Aziendali Europei (CAE). Al riguardo tale Direttiva (all’art. 5.2) prevedeva come “i membri della delegazione speciale di negoziazione sono eletti o designati in proporzione al numero di lavoratori occupati in ciascuno Stato membro dall’impresa o dal gruppo di imprese di dimensioni comunitarie”. Ebbene, chiamati a recepire l’accordo, le parti sociali unitariamente il 12 aprile scorso innanzi all’alternativa “eletti o designati” sceglievano…. “designati” (si veda art. 7), con buona pace del diritto non negoziabile dei lavoratori a votare.

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Ma tale accordo pareva essere poco più di un cattivo presagio (riguardando i Cae una piccolissima frazione della forza lavoro italiana e non intaccando la disciplina delle RSU), non essendo certo immaginabile (quanto meno per gli ingenui, come chi scrive) che la CGIL lasciasse priva di RSU la sua più ampia categoria, i metalmeccanici, nel bel mezzo di uno scontro al calor bianco per la sopravvivenza, dando manforte a puntellare l’inquietante crepuscolo di un governo contro cui solo il precedente sei aprile aveva lanciato uno sciopero generale nel paese.

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Chiedendo scusa per tali fin troppo ampie premesse si può finalmente giungere ai contenuti qualificanti dell’accordo del 28 giugno 2011, firmato anche dalla Cgil dopo una trattativa durata due pomeriggi spalmati in quattro giorni e condotta dalla sola segretaria generale con la sua struttura.

 

Il primo dato che suscita stupore è che la Cgil, dopo 18 anni, per la prima volta torni a nominare le RSA. Certamente lo fa in quanto esse – nonostante il protocollo del 93 ne avesse prevista la progressiva sparizione – sono ben vive e vegete e l’accordo si occupa di parzialmente “democratizzarle” imponendo che gli accordi stipulati dalle stesse siano sottoposti al voto se ciò sia chiesto da una federazione di CGIL CISL o UIL o dal 30% della forza lavoro coinvolta dall’accordo. Ma il dato è comunque che le Rsa vengono messe sul medesimo piano delle Rsu in termini di alternatività avendo esse le medesime funzioni negoziali e ribaltando così integralmente sia il protocollo del 93, sia l’impegno alla “generalizzazione” delle Rsu del 2008, sia la investitura delle “RSU come soggetto e luogo in cui i rappresentanti sindacali svolgono le loro funzioni” decisa nel gennaio 2011.

 

Il secondo dato che suscita stupore è il combinato disposto di tali tre elementi

  • che in nessun luogo la Uil (o, più in generale, le parti) ribadiscono la validità dell’accordo sulle RSU del 1993 che quindi il 13 ottobre decadrà mancando da tale data un testo, ancorchè negoziale, che vincoli organizzazioni sindacali e datori a consentire le elezioni;

  • che anzi nella parte finale dell’accordo (Accordi di categoria) si afferma come “le categorie definiranno…regole e criteri per le elezioni delle Rsu”, a riprova di come “le regole e i criteri” attualmente vigenti non lo saranno più dopo il 13 ottobre (altrimenti non si comprenderebbe questo mandato dato che tutti i contratti collettivi già disciplinano le elezioni delle Rsu)

  • e però la vigenza erga omnes dei contratti aziendali stipulati dalle Rsu (cap. 4) è prevista solo quando le Rsu siano “elette secondo le regole interconfederali vigenti” (e quindi solo per quelle attualmente costituite o costituende entro il 13 ottobre 2011, essendo quelle ulteriori, future ed eventuali “elette” secondo gli accordi altrettanto futuri ed eventuali accordi di “categoria”, anche perché l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 al momento della sua stipula non era ancora “vigente” e comunque non prevede – al contrario di quello del dicembre 1993 – alcuna “regola”);

Ebbene ciò conduce ad un sistema ove da qui a tre mesi l’unica certezza per la contrattazione di secondo livello rimangono le sole Rsa essendo rimesse le eventuali elezioni delle Rsu a future quanto vaghe intese di categoria (chi potrà promuoverle, quale sarà il quorum, saranno aperte a tutti, saranno integralmente elettive? Non si sa!).

Ed allora è sufficiente che esse non giungano (o giungano in tempi e modalità tali da renderle inesigibili o innocue) ed oplà la Fiat può rientrare (anche se perde la causa) in CONFINDUSTRIA perché il risultato è raggiunto: i lavoratori non possono più eleggere i propri rappresentanti e tutto ciò che resta sono le Rsa ovverosia i sindacati firmatari, ovverosia gli unici soggetti legittimati da Marchionne all’agibilità sindacale. Ecco perché Fiat esprime “apprezzamento” per l’accordo ma chiede “ulteriori passi” (e cioè l’affossamento silenzioso nelle categorie delle Rsu) ed ecco perché CONFINDUSTRIA risponde “aspetta e vedi” (eloquente titolo dell’editoriale sulla prima pagina del Sole 24 ore del 1.7.2011).

In altre parole, l’ordine è stato “quasi” eseguito (e rimane addirittura il bonario sospetto che la Camusso non l’abbia nemmeno capito).

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Ma perché la disfatta della Fiom sia totale si è voluto aggiungere che “i contratti aziendali…..che definiscono clausole di tregua sindacale….hanno effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali …firmatarie del presente accordo”. E qui siamo al sublime. Si finge – infatti – di escludere i lavoratori da conseguenze pregiudizievoli per violazione della tregua sindacale (attenzione graziosa ma fortunatamente rischio già escluso dalla Costituzione e dal buon senso, il lavoratore non può fare da solo né tregue sindacali né guerre sindacali che, come dice la parola stessa, sono di esclusiva competenza….sindacale). Si afferma in realtà come la “tregua” valga non solo per il sindacato che firma l’accordo che la prevede (come è ovvio che sia) ma anche per chi non firma purché sia affiliato alla Cgil. Se poi poniamo mente al fatto che i sindacati sono associazioni non riconosciute di cui risponde il legale rappresentante, ciò significa che d’ora in poi di ogni sciopero della Fiom proclamato contro un accordo da essa non firmato il datore potrà chiedere l’integrale risarcimento del danno al buon Landini in persona, a cui chi scrive (da operatore del diritto) consiglia di intestare con sollecitudine la macchina alla moglie o di portare la Fiom fuori dalla Cgil, tertium non datur.

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Ma fuori dal perimetro di tale accordo non rimane solo Landini. Rimangono infatti – al cubo – tutti i sindacati non concertativi. Ed infatti ad essi non solo (come alla Fiom) viene negato il diritto alla certezza delle Rsu, ma pure alla rappresentanza nazionale che infatti si predica dover essere “certificata” (si veda art. 1) in base al voto alle elezioni delle Rsu (che non si sa se si terrà mai più) e sulle “deleghe relative ai contributi sindacali” che , come è noto, dopo il referendum del 1995 vengono raccolte solo per Cgil, Cisl e Uil, da cui l’irrilevanza di qualsivoglia effettiva rappresentanza (finanche fosse maggioritaria) dei sindacati non firmatari. E non è un caso che Bonanni si opponga alla legge: gli accordi non possono giungere davanti alla Corte Costituzionale la legge sì, e non è difficile immaginare che fine farebbe un testo con i medesimi contenuti dell’accordo del 28 giugno 2011.

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Ma fuori dal perimetro dell’accordo rimangono anche tutti i lavoratori precari che il protocollo del 1993 inopinatamente escludeva da ogni diritto di voto, e su cui l’accordo del 2011 ancora una volta nulla dice. Ed ugualmente fuori rimane oltre la metà della forza lavoro italiana occupata in aziende con meno di 15 dipendenti ove non vigono né Rsa né Rsu. E fuori saranno tutti quei lavoratori che pur lavorando in aziende medie o grandi non avranno la capacità, la forza, il coraggio di raccogliere il 30% delle firme per asseverare democraticamente gli accordi delle Rsa (per capire il dato: un numero di firme pari al 30% degli elettori per chiedere la consultazione sarebbe come dire che per promuovere un referendum invece che cinquecentomila firme come previsto dalla Carta Costituzionale ne servissero ……15 milioni!).

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Insomma l’accordo sarà “unitario” ma è davvero minoritario. Fuori siamo rimasti in tanti, non sarà la volta buona per organizzarci su un programma semplice: democrazia, conflitto, reddito?

Per l’intanto il Forum diritti lavoro ha depositato in Cassazione una proposta di legge polare per una reale democrazia ora nel lavoro e sta raccogliendo le firme con varie forze del sindacalismo di base, la Fiom l’ha già fatto, FdS, Sel e Idv si sono già dichiarati favorevoli ai contenuti generali delle due proposte, Magistratura democratica, Giuristi Democratici e l’Associazione per i diritti sociali e di cittadinanza presso il Crs hanno partecipato e sviluppato autonome iniziative e pregevoli elaborazioni, e così la scuola più avanzata del costituzionalismo italiano (insomma, per dirla a la Brunetta, la parte peggiore dell’Italia).

Vogliamo parlarne insieme tutti noi qui fuori? A me piacerebbe….

Carlo Guglielmi

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