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Tunisia. La rivolta che non si smobilita

Una settimana in giro per la Tunisia è una occasione unica per cercare di capire cosa sta accadendo da alcuni mesi a questa parte nelle società arabe. La Tunisia infatti non è solo il luogo geografico dove tutto ha avuto origine – qui nella seconda metà del mese di dicembre prese inizio la protesta contro il rais di turno – ma anche il Paese dove la partita è ancora interamente aperta e dove oggi si confrontano visioni spesso contrapposte di società. Qui si deciderà se le proteste che hanno riempito le piazze arabe nel mese di gennaio potranno avere una prospettiva rivoluzionaria o se alla fine si ridurranno ad un cambio di nomenclature che nulla modificherà sull’assetto socioeconomico del sistema Paese.

L’occasione è data da un viaggio-studio che l’Associazione della Pace organizza per conoscere la realtà tunisina. Una settimana intensa durante la quale abbiamo incontrato partiti politici, associazioni, singoli cittadini e il sindacato. Ne emerge un quadro complesso dove si confrontano, a volte anche duramente, diversi protagonisti, e lo fanno su diversi piani. Innanzitutto si avverte un livello di confronto tutto generazionale. Gli studenti, che con le loro mobilitazioni sono stati fra i maggiori protagonisti delle rivolte che hanno portato alla caduta di Ben Ali, non hanno nessuna intenzione di smobilitare e chiedono maggiore democrazia e soprattutto un ricambio di quadri politici che deve investire anche le forze che in questi anni sono state all’opposizione del regime, anche clandestinamente. Il loro modello sono le democrazie occidentali, o per meglio dire una visione idiliaca delle nostre democrazie che le fa sembrare il paradiso dei diritti della rivoluzione francese. Il peso di questi giovani è grande, la Tunisia è una nazione dove la natalità in questi anni è stata alta e quindi l’incidenza di questa generazione è enorme. Si somma a questo, il livello mediamente alto di istruzione. Tanti, tantissimi, sono i giovani che hanno una laurea, e la stragrande parte di questi è oggi disoccupata. Ma all’interno di questo universo ci sono anche potenzialità di cambiamento reale. Questi ragazzi si interrogano – per ora con risposte inadeguate – sul loro futuro e iniziano a legare uno sviluppo economico distorto alla mancanza della possibilità di programmare la loro vita. Un qualcosa di molto simile a quello che è accaduto nei mesi scorsi nelle nostre università.

Il secondo livello di confronto riguarda la composizione sociale del paese. La crisi degli ultimi anni ha annientato, riducendo al lastrico, la classe media e medio-bassa, e soprattutto gli impiegati pubblici e gli agricoltori. Fra questi infatti il malcontento verso il vecchio regime era altissimo. Non è un caso poi, che in diversi incontri i nostri interlocutori abbiano insistito per collegare le rivolte dello scorso dicembre con gli scioperi che un anno prima avevano riguardato i lavoratori delle miniere di Gafsa e gli agricoltori della provincia di Sidi Bouzi. All’interno di questa dialettica sociale è significativo il ruolo del sindacato. In Tunisia c’è da sempre un sindacato unico – oggi anche se formalmente sarebbe ammissibile un multi sindacalismo la situazione resta immutata – che è riuscito, a fatica, a conservare una certa credibilità anche dopo la caduta di Ben Ali. Ciò non era affatto scontato, visto che per decenni il sindacato Ugtt aveva svolto il ruolo di cinghia di trasmissione dei vari governi desturiani (il partito prima di Bourghiba e poi di Ben Ali). Il merito va soprattutto ai quadri intermedi che anticipando i tempi erano riusciti a rappresentare i malumori dei propri aderenti sia a Tunisi che nella periferia scendendo nelle piazze insieme ai giovani delle scuole. Questo ha permesso, una volta scoppiate le proteste, al sindacato di rappresentare un essenziale elemento catalizzatore che ha contribuito a dare la spallata finale al vecchio leader. Un ruolo riconosciuto abbastanza unanimemente. Sul dopo, quindi sui giorni attuali, il giudizio sul sindacato torna ad essere controverso, in molti, specie fra i giovani e nel mondo dei blogghisti, lo accusano di frenare le proteste e di cercare di normalizzare il Paese. A queste accuse i dirigenti del sindacato – abbiamo incontrato il responsabile del dipartimento esteri dell’Ugtt, Fathi Dbek – rispondono ricordando come il sindacato si sia assunto “una responsabilità storica fermando le possibili reazioni della polizia e chiamando lo sciopero generale”. Dbek sottolinea poi come oggi il ruolo dell’Ugtt è estremamente delicato perché si trova “a dover affrontare le forze controrivoluzionarie e contemporaneamente i movimenti e i partiti di ispirazione islamista”. Il leader sindacale non ha problemi ad ammettere che ci siano forze che vogliono riportare indietro il Paese, e che queste forze hanno un peso anche dentro il sindacato, ma ci ricorda che loro “potevano prendere il potere, ma non lo hanno fatto perché è prevalsa l’idea che il sindacato doveva assolvere al proprio ruolo: fare sindacato”.

Infine c’è un terzo livello, quello degli squilibri fra una capitale sviluppata e occidentale, una fascia costiera con eccellenti infrastrutture e ricchezze e una parte centrale depressa e assolutamente priva di ogni infrastruttura, anche se centrale per la produzione agricola, settore che ancora oggi copre circa il 50 per cento del Pil nazionale. In particolare la regione di Sidi Bouzi dove si concentra oltre il 40 per cento della produzione agricola nazionale (il 52 per cento del Pil). La periferie reclama riforme, a partire da una riforma agraria, e soprattutto investimenti e infrastrutture. Qui sono particolarmente attivi gli agricoltori e gli studenti universitari disoccupati, riuniti questi ultimi in una combattiva associazione. Il tema della riforma agraria è al centro del dibattito di questi giorni, in quanto come ci hanno mostrato gli agricoltori di Regueb, centro agricolo a trenta chilometri da Sidi Bouzi, i grandi latifondisti e gli investimenti stranieri godono di condizioni di gran lunga privilegiate rispetto a quelle dei piccoli agricoltori tunisini. Una situazione che ha portato alla fame centinaia di contadini costringendoli a restituire forzosamente allo stato terre avute in affitto dal demanio pubblico. Fra questi contadini c’è il livello rivoluzionario più alto, fra le loro rivendicazioni è presente la cancellazione del debito nazionale e il recupero degli ingenti capitali della famiglia Ben Ali. Sorprende anche l’alleanza in atto fra contadini e laureati disoccupati che produce una diffusa crescita fra le coscienze dell’intera comunità di quella regione.

Questi tre livelli di scontro e di confronto trovano sintesi nel dibattito nazionale per l’assemblea costituente, che se non ci saranno ulteriori rinvii dovrebbe essere eletta a suffragio universale nella seconda metà di ottobre. Eventuali rinvii potrebbero avere ripercussioni pesantissime, dai risvolti non programmabili oggi. A contendersi il ruolo di primo partito del paese sono, secondo i sondaggi, due forze politiche: il partita islamico Nahdah e il partito liberaldemocratico Pdp. Entrambi i partiti sono accreditati di circa il 30 per cento dei voti. Il Nahdah è lo spauracchio di tutte le forze politiche e sociali della Tunisia, l’accusa ricorrente è di avere due facce: una democratica oggi e una islamista-integralista per il futuro. Sono specialmente le associazioni di donne e giovani a temere una stretta integralista da parte di questo partito, dopo aver vinto le elezioni, sul tema dei diritti e in particolare sullo statuto della persona. Il rappresentante del Nahdah incontrandoci ha tenuto però a tranquillizzare la delegazione dell’Assocpace affermando “non abbiamo alcuna intenzione di mettere in discussione lo statuto sulla persona e con noi la donna avrà maggiori diritti a partire da quello salariale”. Il modello politico internazionale di questa forza, per loro stessa ammissione, è il partito islamico al potere in Turchia con Erdogan, anche se nell’incontro l’esponente del Nahdah ha ammesso intensi contatti con altri partiti islamici come i Fratelli mussulmani in Egitto. Ma gli elementi di contraddizione sono tanti, a partire da interviste rilasciate dai principali leaders nazionali sui giornali, fino ad arrivare alle reticenze sul programma politico per ricostruire la Tunisia. Ma sul programma politico in realtà sembra solo di assistere ad un gioco delle parti, tanti sono i punti di condivisioni con l’altra maggiore forza tunisina, il Pdp. Entrambe si rifanno infatti ad un modello di economia liberista e i veri punti di divergenza sembrano essere in concreto sulla laicità dello stato. La confermja di ciò l’abbiamo avuta durante l’incontro con la segretaria generale del Pdp, Maya Jeribi, che ha sottolineato insistentemente sul carattere modernizzatore che assolvere il suo Partito e sulla volontà di combattere la corruzione dilagante.

Fra le forze minori si evidenziano i vari partiti che provengono dall’esperienza comunista. Abbiamo avuto modo di incontrarne due: il Pcot e AEttajdid. Il primo ha fra i punti chiave del suo programma l’obiettivo di unire le forze progressiste in un fronte che ponga la richiesta della cancellazione del debito che ha detta del giovane dirigente, Mohammad Mzam, “rischia di essere un fardello per il futuro, sulle teste di tutti i tunisini” e i diritti delle classi operaie. Per il Pcot le elezioni per la Costituente sono solo un punto di passaggio per arrivare successivamente ad elezioni legislative, “le sole delegate a dare al Paese una reale rappresentanza politica”. Probabilmente dietro questa posizione c’è anche la consapevolezza di una sostanziale impreparazione, normale dopo decenni di durissima dittatura. Più pragmatica l’altra forza di ispirazione comunista. Per Ettaijdid oggi è prioritario dare risposte democratiche ai giovani ricacciando indietro chi vorrebbe riproporre con nuove facce gli stessi interessi che per decenni hanno governato il paese.

Di fronte a questa realtà è chiaro che il ruolo delle forze progressiste, di sinistra e comuniste italiane non può e non deve essere di una generica equidistanza, che si tradurrebbe in una sostanziale complicità con i poteri forti tunisini. Una scelta di campo è necessaria e deve essere dalla parte delle forze realmente riformatrici a partire da quei giovani e da quei contadini che nelle loro pratiche di lotta e di rivendicazioni hanno i germi necessari per costruire un Paese realmente nuovo. Nello stesso tempo non possiamo tacere di fronte ad una strategia di più ampio respiro che vede a livello internazionale avanzare una alleanza, definita “storica” da Khaled Hadadah, in un suo recente viaggio in Italia ospite della direzione nazionale del Pdci. Se in Egitto protagonisti di questa alleanza sono le forze liberali, pezzi di vecchio regime e Fratelli Musulmani, in Tunisia lo schema non si discosta di molto e sulle politiche economiche troviamo una sostanziale condivisione fra Nahdah, Pdp e pezzi di vecchia nomenclatura che cerca di rialzare la testa. Il tutto con la benedizione di Hillary Clinton e della Casa Bianca

Istruttiva anche la parte che l’Assopace ha voluto dedicare al tema dei rifugiati libici in Tunisia. Ma anche qui le ambiguità sono enormi. Fra le forze incontrate dalla delegazione dell’Assopace ad esempio risulta anche il Wafa relief, una ong anglo-libica, filo governo di Bengasi, con legami strettissimi con l’Islamic relief di Hany El Banna. Una organizzazione questa, capofila di molte comunità islamiche in Europa, nello stesso tempo insignita da onorificenze concesse dalla regina Elisabetta II e in odore da anni di collusione con apparati dei servizi segreti britannici. La conferma di come intorno al caso libico girino interessi enormi e di come le strumentalizzazioni da parte degli stessi stati protagonisti dei bombardamenti Nato siano all’ordine del giorno. Dal giro nel sud della Tunisia emerge come il fenomeno rifugiati riguardi circa 20mila libici, gran parte dei quali (oltre il 90 per cento) “ospitato” con contributi da parte del governo e di organizzazioni internazionali dalla popolazione tunisina. Poco meno di 4mila (nella realtà da un veloce sguardo dentro i campi sembrano essere decisamente meno) invece quelli che vivono nei campi che risultano essere tre: uno gestito dall’Unhcr, uno dagli Emirati arabi uniti e uno dal Qatar. All’interno dei campi le uniche bandiere che trovano ospitalità sono quelle del governo di Bengasi. Da segnalare comunque come sia elevata la presenza dei libici nei vari alberghi del paese. Sia a Tunisi che a Sfax, gli alberghi che abbiamo usato erano pieni di cittadini libici, chiaramente la parte più agiata.

(Fonte: Nena News)

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