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Storia e revisionismo: il caso della “guerra civile”

 

Guerra civile: parificazione e rovescismo, revisione e rimozione

Considerazioni in margine.* La storia non si fa con le ideologie, con i pregiudizi, con le recriminazioni, con i sentito dire e – a dirlo è un filosofo – nemmeno con i concetti, anche se è necessario che lo storico abbia confidenza con la storia delle idee. La storia la fanno gli storici. Ma devono essere le istituzioni a tutelarla. Un po’ come con l’esercizio della professione medica. Gli storici dilettanti dovrebbero essere tenuti sotto controllo, proprio come si fa con i “guaritori” e le “medicine alternative”. Per la salute pubblica. Tanto più, quanto più presentano con clamore e scandalo i loro ritrovati.
La storia non si fa con i concetti, ma con documenti pubblici e controllabili (tracciabili, come usano dire i giovani storici), e con il loro incrocio, con la carta geografica, anzi topografica, e pure con la calcolatrice, per contare i morti. Chi l’ha detto che i morti non si contano, e che quella di contarli è una macabra contabilità? Si contano eccome, perché è l’unico modo di avere l’ordine di grandezza degli eventi, una sorta di indice di produttività della guerra: 10, 100, 1000, c’è differenza.

Che i fascisti rovescino la storia non è una novità, ma la circostanza non rappresenta un tema teoricamente rilevante. Non si capisce cioè perché storici valorosi si applichino a rilevare le aporie del rovescismo.

Recentemente, anche tra gli storici, sono stati rivalutati i controfattuali, cioè la famosa “storia con i se” – cosa sarebbe successo se Napoleone avesse vinto a Waterloo o se Cesare fosse scampato alle Idi di marzo. Sono stati rivalutati come esperimento mentale, come gioco intellettuale. Anche il rovescismo è un gioco, ma un gioco da bambini: stupido tu, cattivo tu. Un gioco a cui può mettere fine solo la signora maestra.
Gli storici al gioco del rovescismo (con il corollario del vittimismo) non devono giocare. Punto e basta. D’altra parte, che senso avrebbe importare nella scienza la par condicio? Tolomeo dopo Copernico non può essere recuperato in alcun modo dall’astronomia, ma solo dalla filologia. Oppure, mi si passi la metafora, sarebbe come mischiare Brunello e Tavernello: non giova al Brunello, com’è ovvio, ma nemmeno al Tavernello.
È ridicolo che qualcuno cerchi di rovesciare e parificare, per esempio, la nozione di crimine di guerra – fattispecie di reato messa a punto nei confronti degli eserciti invasori contro le popolazioni civili inermi – e utilizzarla contro i partigiani, cioè la popolazione civile stessa il cui armamento non è paragonabile a quello di un esercito regolare. Talmente ridicolo che, appunto, non si deve replicare.
Come pure non si deve replicare a chi proietta su fascismo e antifascismo lo schema degli “opposti estremismi“, tanto caro alla destra benpensante ed equidistante. Feccia allora, feccia oggi. È forse il caso di ricordare che il disprezzo per costoro è un atto dovuto: le classi dominanti organiche al fascismo – e che la guerra l’avevano voluta – grazie anche agli oltre 40mila partigiani morti hanno potuto uscire dalla guerra accodati ai vincitori. Ebbene, subito dopo, con i corpi ancora caldi, hanno ripreso il loro gioco dell’equidistanza.

Opposti estremismi, recuperati mediante l’utilizzo della metafora sportiva: fascismo e antifascismo, come si trattasse un derby calcistico: “in fondo sono sportivi tutti e due”. Eh, no, combattevano con regole diverse. Sportivi forse, ma non giocavano lo stesso gioco. Il vincitore avrebbe scritto le nuove regole. Nel frattempo, la guerra civile, asimmetrica e senza regole. Da questo punto di vista, la Guerra Civile è tanto più tragica quanto meno coinvolge la totalità della popolazione. Con buona pace della destra benpensante, quella degli affari e delle istituzioni, che considera la Guerra Civile un incidente di percorso da cancellare al più presto; destra “benpensante” che, ben presto, come si diceva sopra, avrebbe ripreso la sua equidistanza.

Il problema vero, allora, è la rimozione e la distorsione. Da non confondersi con la revisione. In un libro da me edito – intitolato Guerra civile e Stato – ho rivendicato la liceità del revisionismo, sostenendo che la revisione è l’abito e il mestiere dello storico. Ci mancherebbe.
Sostenevo, più precisamente, che è stata proprio la mancata revisione degli statuti della Resistenza – si pensi a quanto male fu accolto il libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, perché si azzardava a dire che la Resistenza fu ANCHE guerra civile – a determinare l’appannamento, lo sfilacciamento, l’indebolimento di valori, di principi e pratiche.

È la storiografia di sinistra quella maggiormente colpevole. Ha negato per 50 anni la Resistenza come ANCHE guerra civile, ed eccoci ad attardarci perché uno qualunque porta l’attenzione su episodi trascurabili e marginali, ancorché fisiologici, di guerra civile. E se i fascisti vengono scotomizzati, e se qualcuno tende ad addossare le responsabilità solo ai nazisti, questo lo si deve anche alla riduzione della Resistenza SOLO all’aspetto della Liberazione nazionale… dai tedeschi.

Come si vede, la considerazione per i vinti non paga, storiograficamente, intendo. Ma nemmeno politicamente. Infatti, i fascisti sembrano dire, se abbiamo perso vuol dire che voi siete stati più cattivi di noi. Non si placheranno mai, recrimineranno sempre, inclini a riprodurre i tempi e i modi delle faide o quello della satira politica, tramutando, quando va bene, i conflitti in macchiette, à la Peppone e don Camillo.

Personalizzano la politica – sempre alla ricerca di Cavalieri –, e poi continuano personalizzando la ricerca. I vieni avanti cretino della storia agitano falsiscopi, attirano l’attenzione su mostri o eroi, veri o presunti, da innalzare o da abbattere, ma così facendo ottengono il loro vero scopo: sviare l’attenzione dal vero oggetto, che sono le formazioni, le classi, i rapporti tra le classi, i processi intercapitalistici,  in un contesto. A seguirli su questa strada ci si pone fuori di qualsiasi discorso storiografico, cioè scientifico.

Perché tutto questo? Perché “guerra civile” è stata considerata una espressione sconveniente, da accompagnare con scongiuri, da non doversi più pronunciare.
Franco Venturi, uno storico, un azionista, mica un bieco comunista, sosteneva che la guerra civile è l’unica guerra a cui è lecito prendere parte. Infatti, c’è stato un tempo in cui la guerra civile era l’unica guerra a cui era lecito, anzi doveroso, partecipare. Per esempio, la Guerra Civile Europea che insanguinò, con decine e decine di milioni di morti, il vecchio continente. La si metta come si vuole, da una parte quelli che volevano la sopraffazione da parte del più forte, dall’altra quelli che pretendevano l’uguaglianza formale – certo, con il suo corollario dello sfruttamento capitalistico, comunque diverso dalla schiavitù imposta da razze presuntamente superiori. Con, all’interno, le guerre civili in ciascuno degli Stati nazionali. In Italia, la Resistenza.

La Guerra Civile è la fase storica – che si credeva irripetibile – in cui un popolo si confronta, con violenza e senza regole, al fine di fissare un corpo di regole, una Costituzione.
Le costituzioni possono essere molto differenti tra loro, e comunque disporsi in un arco che vede, da una parte, il patto tra classi produttive – come in Francia – e dall’altra il patto tra le classi proprietarie – come negli Stati uniti d’America. In mezzo, una grande varietà di esiti diversi.

Ma quale che sia, una Costituzione garantisce l’uguaglianza formale di tutti, e per questo si è combattuto. Loro combattevano contro. Nessuna parificazione è logicamente possibile. Per loro, nessuna considerazione, nessun rispetto. Mai.
Claudio Del Bello

* Considerazioni in margine alla presentazione del libro La storia rovesciata: la guerra partigiana della brigata garibaldina “Antonio Gramsci” nella primavera del 1944 di R. Covino, A. Bitti, M. Venanzi, edizioni Crace 2010, venerdì 10 giugno 2011 alla Sala Laura della Siviera, a Terni, per la FESTA DELLA LIBERAZIONE della città.

 

post scriptum – Anche nell’intervento effettivamente tenuto a Terni il 10 giugno 2011 non ho mai fatto il nome del sedicente storico oggetto delle attenzioni critiche di Renato Covino, Angelo Bitti e Marco Venanzi nel loro libro.
Qui insisto nel rivendicare l’aurea, ancorché misconosciuta, massima del “Non l’ho letto e non mi piace”: in realtà, una piccola pratica di sopravvivenza, che tuttavia poco può nei confronti dell’invadenza pervasiva del senso comune, perché, in ogni caso, alla fine ne sai più di quanto non avessi voluto e immaginato.
Non l’ho nominato, anche per preservare gli apprezzati autori di “La storia rovesciata” da vicinanze e paragoni infamanti preferendo, per usare un’espressione untuosa e pretesca, occuparmi del peccato e non del peccatore.
Ebbene, ribadisco che i peccati più gravi per me rimangono la parificazione, la rimozione e la mancata revisione degli statuti della Resistenza, restando il “rovescismo” un effetto collaterale, ancorché ridicolo, di simili usi pubblici della storia.
cdb

 

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