Menu

La solitudine del keynesiano

Visti con questa avvertenza iniziale, però, alcuni di esse rappresentano bene lo smarrimento dei “teorico/pratici” di fronte alla situazione attuale.

L’intervento di Guido Rossi su “Il Sole 24 Ore” e quello di Nadia Urbinati su Repubblica ci sembrano tra questi.

*****


Una Bretton Woods per salvare il mondo

di Guido Rossi


Politica e mercati, in un intreccio perverso, hanno creato nel mondo contemporaneo una confusione di ruoli al punto da far credere ormai alla caduta della sovranità degli Stati, asserviti alle istituzioni finanziarie. Il capitale, nella totale opacità dei suoi protagonisti, delle sue strutture e dei suoi strumenti ha trovato lo sbocco finale nella speculazione che obbedisce a un’unica regola: l’avidità. Da San Paolo a Lutero l’avidità è stata considerata l’origine di tutti i mali e ora anche la causa del declino americano nella precisa ricostruzione fatta da Jeff Madrick (Age of Greed: The Triumph of Finance and the Decline of America, Knopf, 2011).

La speculazione continua ad aumentare la forbice tra ricchi e poveri a livelli sia statali sia individuali e tutte le recenti manovre di austerità per non far fallire gli Stati non paiono far altro che alimentare il drammatico incremento delle disuguaglianze, dove anche le classi medie, insieme a quelle più disagiate, sono le più colpite. Disuguaglianze che non sono dovute, tuttavia, all’operare “naturale” dei mercati bensì a quattro decadi di precise scelte politiche negli Stati Uniti e, in copia, nel resto dell’Occidente.

Politiche tese a smantellare l’impianto legale con il quale gli Stati Uniti erano usciti dalla Grande depressione, con un settore finanziario rigidamente regolamentato, con norme che per circa quarant’anni avevano caratterizzato un sistema bancario, forse noioso, ma sano e propulsivo delle crescite economiche. Ma dagli anni 70 e 80 del secolo scorso quelle strutture regolamentari sono state smantellate dovunque, lasciando libertà assoluta ai mercati, nell’invincibile presunzione che essi non facciano mai nulla di sbagliato.

La norma fondamentale posta allora dalla politica fu la deregolamentazione e ogni Paese ha al riguardo la sua storia. Da allora fino ad oggi gli Stati non hanno perso la loro sovranità, come è comodo sostenere, ma le classi politiche in generale, succube delle ideologie economiche professate dai sacerdoti del capitalismo finanziario, non hanno mai, anche perché spesso personalmente coinvolte, né esaminato, né governato il ruolo del denaro nella politica.

Quel ruolo che si è poi sovente trasformato in metastasi: anche qui ogni Paese ha la sua storia. La speculazione sul debito rende ora necessarie riforme di austerità non certo dirette a prevenire le disuguaglianze ormai strutturali al sistema. Quando negli anni 80 i prestiti ai Governi dell’America Latina non furono rimborsati, gli interventi vennero spacciati come aiuti ai Paesi debitori in difficoltà, mentre in realtà erano largamente diretti ad aiutare le banche americane ed europee che dovevano essere ripagate.

E gli aiuti arrivarono a quei Paesi con l’imposizione di rigorosi programmi di austerità che comportarono almeno un decennio di riduzione dei redditi e di lentissima e minima ripresa economica. Non è forse l’Europa e in particolare oggi stesso l’Italia nell’identica situazione? E non son queste comunque politiche sostanzialmente impotenti?

In verità le diseguaglianze, che l’abbandono della politica all’anarchia dei mercati ha incrementato, stanno seriamente minacciando anche le strutture delle democrazie, dei sultanati e dei vari totalitarismi, creando disordini, rivolte e rivoluzioni di varia natura. L’intero pianeta, abbandonata ogni giustizia sociale ed equità, pare ormai in preda agli “arrabbiati” di ogni legittimazione, connotazione e violenza.

Ebbene, la sola rivoluzione che potrebbe invece provenire dai poco autorevoli leader occidentali, come anche ha riconosciuto nell’articolo su questo giornale giovedì scorso l’insigne giurista americano Mark Roe, potrebbe essere a parer mio quella di abbandonare decenni di politiche stolte e convergere verso la creazione di una sorta di Rule of Law globale. Questo dovrebbe essere indirizzato soprattutto a eliminare le disuguaglianze, partendo per quel che ci riguarda da uno Stato di diritto europeo.

Una Bretton Woods non solo ex post, ma ex ante? Insomma, il diritto e la sovranità sono ancora nelle mani della politica, se non inetta, degli Stati e augurabilmente di un’autorità mondiale, come ha pure indicato nell’ultima enciclica Caritas in veritate persino Benedetto XVI.
Solo così avrà efficacia il quasi ossimoro di Mao Tse Tung: «Grande disordine sotto il cielo: la situazione è eccellente».

 

*****

La vittoria del neoliberismo

L´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi assegna al mercato, e al denaro, ogni forma di dominio

15/08/2011

Nadia Urbinati

La sudditanza della politica ai mercati: le opinioni sembrano convergere su questa diagnosi al di là degli schieramenti partitici in questi giorni di angoscia per temuti default e manovre finanziarie “lacrime e sangue”.
Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali.
Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato.
Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita.
La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. La lotta negli Stati Uniti tra due modelli di intervento statale sono il segno forse più esplicito che non è la politica in sé a soccombere ma una visione dello Stato e quindi dell´economica: o come scienza che si dovrebbe occupare del benessere della società o al contrario come una tecnica di rastrellamento delle fonti di rendita finanziaria.
Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo.
È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società.
E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il “fatto semplice” dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto.
La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi (anni) è più o meno la vittoria di questo paradigma, una vittoria che è andata insieme alla sconfitta di altri modelli di ordine sociale e che ha stravinto su tutti i potenziali rivali. È questa la fine della storia di cui ha scritto Francis Fukuyama.
È la fine, ovviamente, non della storia ma certo della storia della lotta contro un modello economico, quello per difendere il quale oggi le nostre società democratiche stanno soccombendo.
Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi.
Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private).
Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.
Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il Barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionate e arcigno e duro se necessario.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *