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Governance economica: serve un referendum su l’Unione europea

Il ragionamento che sembrano condividere i capi di Stato e di governo europeo, nonché la grande maggioranza del Parlamento europeo (con la parziale esclusione dei socialisti europei, dei verdi e della sinistra unita), è quello secondo il quale ciò che ha innescato le tensioni nell’area euro e che sta devastando gli assetti sociali europei, in particolare nel mondo giovanile, non è altro che l’entità dei debiti sovrani. E’ un’analisi assai semplice dalla quale deriva una ricetta curativa altrettanto semplice: basterebbe costringere i paesi con alto debito pubblico ad annullare tendenzialmente i propri deficit e conseguentemente ridurre l’entità dei debiti pubblici

Il “pacchetto”, una volta entrato in vigore con tutta probabilità alla fine del 2011 o inizio 2012, permetterà alla Commissione europea di segnalare per tempo i paesi con deficit eccessivi o eccessivi squilibri macroeconomici (deficit strutturali, disoccupazione, etc) ed eventualmente avviare una procedura che porti a punirli con multe pari allo 0,2 per cento del Pil. I paesi dell’area euro si impegnano dunque ad annullare il deficit e ridurre il debito del 5 per cento ogni tre anni fino a quando questo non abbia raggiunto il 60 per cento del Pil, altrimenti arriva la punizione praticamente automatica.
Mentre l’Unione europea controlla che questi meccanismi di austerità vengano effettivamente applicati essa prescrive anche per chi avesse bisogno di sostegno lungo la via del risanamento le condizioni di questo sostegno: condizioni ribadite in tutti i documenti ufficiali del Consiglio europeo e che abbiamo letto nella maniera più esplicita nella lettera della Bce del 5 agosto al Governo italiano: privatizzazioni dei servizi pubblici, licenziamenti e riduzioni salariali nel settore pubblico, cancellazione dei contratti collettivi nazionali e introduzione di contratti aziendali.
Questa la lezione che le classi dirigenti europee hanno tratto dalla crisi finanziaria: il problema è lo Stato troppo pesante in alcuni paesi e un lavoro troppo tutelato.
Occorre dire che queste classi dirigenti europee sono certamente alla bancarotta morale ma non stupide. Paesi “virtuosi” dell’area euro, come Germania e Olanda, hanno tutto da guadagnare da meccanismi automatici e punitivi che comunque a loro non si applicheranno; mentre paesi meno virtuosi, come Italia o Spagna, subiscono il duro ricatto di chi o mangia la minestra indigesta o vedrà venir meno il sostegno europeo sul debito pubblico. Così facendo, sebbene sottoposti pressioni di natura differente, entrambi i gruppi i paesi sottoscrivono un meccanismo che: delega a tecnocrazie scelte politiche fondamentali, consegna le aree meno floride dell’Europa ad una spirale di costante impoverimento e dismissione di servizi pubblici, genererà un risentimento feroce di carattere nazionalista e, alla lunga con un’economia europea sempre più asfittica, immiserirà le condizioni delle stesse economie che si ritengono vincitrici del gioco dell’euro.
Si profila un’uscita dall’era del Patto di stabilità e crescita con una dose ancor più massiccia della stessa medicina di austerità e liberalizzazioni che tanto hanno contribuito alla redistribuzione del reddito dai salari verso rendite e profitti negli ultimi venti anni e oltre. Se ne uscirà anche con meno speranze in un’Europa politica che possa intervenire per promuovere comuni standard lavorativi o sulla fiscalità, in un’Europa con un governo dell’economia in grado di prendere decisioni flessibili nei momenti del bisogni, o in un’Europa con un progetto da patrocinare nel resto del mondo e non affidato alle iniziative individuali e rapaci di alcuni suoi Stati membri.
In apparente contraddizione rispetto al “pacchetto” descritto sembrerebbe invece la proposta di direttiva della Commissione europea sulla Tassa sulle transazioni finanziarie (FTT). Si tratta in questo caso di una proposta immaginata dall’economista James Tobin negli anni Sessanta a livello internazionale per strumento per finanziare gli aiuti allo sviluppo. Oggi l’idea viene riproposta a livello europeo con notevole sostegno da parte di diversi gruppi di pressione nonché dal Parlamento europeo tutto. Con una tassa quale quella proposta dalla Commissione europea, pari allo 0,05 per cento del volume delle transazioni, si raccoglierebbero circa 57 miliardi di euro l’anno.
Sembrerebbe, ed in parte certamente lo è, una proposta in linea con l’idea che le banche e la speculazione abbiano parte della colpa della situazione corrente e che dovrebbero contribuire alle soluzioni. Il punto cruciale qui è come verrebbero utilizzate queste risorse. Se, come si propone, il ricavato verrà genericamente utilizzato per rimpinguare il bilancio dell’Unione europea, in modo da alleggerire le contribuzioni degli Stati, l’effetto non sarà tanto quello propulsivo e distributivo di aiutare una politica di sviluppo comune, quanto semplicemente quello di venire incontro ai più euroscettici che vogliono sborsare il meno possibile per le politiche comuni (già oggi il bilancio Ue è abbondantemente sotto la quota massima prevista dell’1,27 per cento del Pil europeo).
Europlus e pacchetti vari stanno ridefinendo sostanzialmente il patto costituente tra i cittadini europei e le istituzioni nazionali e internazionali che li governano. Ciò è tanto più evidente in quanto nel nuovo contesto si chiedono anche modifiche delle Costituzioni nazionali, per esempio nel senso di introdurre l’obbligatorietà del pareggio di bilancio. E’ impensabile che i cittadini vengano così facilmente espropriati della loro possibilità di decidere, così come è impensabile che alle istituzioni europee venga affidato un potere di arbitrio così rilevante senza che i cittadini italiani vengano chiamati ad esprimersi direttamente e senza modificare la Costituzioni italiana per tener conto di un’Europa che, mentre esplicitamente non viene mai menzionata nella nostra Carta, è diventata da tempo uno dei livelli di governo della nostra società.

* Storico, autore di Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord – Sud”

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