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“Ce la faremo”. Note sul governo Monti e la partita dei prossimi mesi

Come ogni buon allenatore ha galvanizzato con un po’ di rischio spettatori e giocatori, poi, per fugare ogni dubbio su chi riuscirà nella sfida, ha aggiunto: prenderemo “nel breve periodo, decisioni non facili, non gradevoli verso i nostri concittadini”.

Quali sarebbero queste decisioni Monti lo aveva chiarito il giorno prima al Senato, parlando di rigore, di sacrifici, di attuazione severa delle manovre, di riforma dei contratti e degli ammortizzatori sociali… Così, ecco apparire lampante la partita dei prossimi mesi e le squadre che si fronteggeranno: da un lato un governo espressione della frazione di capitale più grande e della parte della borghesia più “europea”, sostenuto da tutte o quasi le forze politiche; dall’altro la stragrande maggioranza della popolazione, studenti, lavoratori, disoccupati, subalterni e “ceti medi” impoveriti, a cui il nuovo Governo dice: per uscire da questa crisi vi estorceremo denaro e diritti ma sarà per il vostro bene. E ce la faremo!  
Ce la faranno? Be’, a sentire il plauso unanime della curva mediatica, soprattutto quella “sinistra”, a vedere l’assenza di qualsiasi opposizione, la stanchezza e la devastazione sociale che c’è intorno a noi, la mancanza di schemi e progetti credibili, la pochezza sia quantitativa che qualitativa della mobilitazione, ci sarebbe da pensare che sì, purtroppo ce la faranno anche stavolta. E quest’altro match se lo aggiudicheranno loro, a tavolino.
Ma forse – se capissimo bene la portata di quello che sta succedendo, se trovassimo il modo di svelare la loro tattica indicandone i punti deboli, se riuscissimo a diffondere alcuni elementi nella coscienza di chi sta pagando questa crisi, che sia studente, lavoratore o disoccupato – potremmo invertire il corso ineluttabile delle cose. Potremmo almeno iniziare a scendere in campo, a costruire quell’opposizione sociale e politica di cui si sente sempre più il bisogno. E pretendere addirittura, in un momento in cui si ridiscute tutto e in cui questo sistema mostra i suoi limiti, di riequilibrare i rapporti fra classi dominanti e subalterni, uscendocene almeno con un pareggio… Non ci credete? Facciamo un passo indietro e cerchiamo di leggere il quadro di insieme, invece di fissarci sui dettagli.

1. Il mondo “nuovo”: dal corporativismo al neocorporativismo. Sebbene la gran parte della popolazione stenti ancora ad accorgersene, perché fra azioni di governo e ripercussioni concrete c’è un po’ di delay, e di tutte le misure previste da luglio è entrato in vigore ben poco, siamo davvero nel pieno di una svolta epocale. La lunga transizione italiana, avviata con la rottura del ’90-’93, è arrivata al suo punto critico. Tutti i provvedimenti messi in cantiere a partire dalla fine della Prima Repubblica (introduzione della “precarietà”, smantellamento delle tutele e dei contratti, riforma delle pensioni, privatizzazioni, federalismo, svendita del pubblico in tutte le sue forme, tagli ai servizi sociali, a scuola e università, alla sanità etc…), vengono ora riproposti in forme ancora più esasperate, con l’obbiettivo di fare dell’Italia un paese “moderno”, ovvero ultra-capitalistico, in cui le uniche logiche che vigano siano quelle del profitto, della merce, del privato.
In pochi mesi ci si vuole liberare così di ogni residua forma di “tutela” che caratterizzava il vecchio sistema corporativo italiano, rimasto sostanzialmente inalterato dall’epoca fascista e intaccato solo dalla grande stagione di lotte 1968-80 che, conquistando spazi di agibilità dentro quella cornice, era riuscita a metterlo in crisi (si pensi come esempio allo Statuto dei lavoratori, alla contrattazione nazionale, alla scala mobile etc). Questo sistema si reggeva su un ampio ceto impiegatizio che garantiva stabilità e voti, un fitto sistema di clientele, grossi sindacati che “controllavano” la forza lavoro, contrattando (sempre più al ribasso) le sue condizioni di vita con Governo e padronato, su una rappresentanza politica più o meno stabile dei gruppi sociali, su una serie di mediazioni sociali che permettevano di redistribuire un minimo di risorse. Questo sistema, se nei decenni della crescita economica ha permesso di contenere anche forti spinte rivoluzionarie, non regge di fronte alle necessità del capitale, che si affermano sempre più imperiose dopo la sconfitta dei movimenti degli anni ’70 e del “socialismo reale”. Approfittando della Caduta del Muro, anche il padronato italiano lancia il suo affondo: in venti anni si verifica un enorme trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale. Ma questa strategia di “rilancio” capitalista è di corto respiro, perché cerca di recuperare competitività solo ipersfruttando i lavoratori (soprattutto i giovani e gli immigrati), senza fare ricerca, migliorare le infrastrutture, semplificare la macchina burocratica, amministrativa etc. Nel quadro della competizione internazionale, il sistema italiano resta per la maggior parte poco produttivo, sprecone, inefficiente, basato su ampio ricorso al nero ed all’evasione (usata come vero e proprio strumento di coesione sociale, che aggrava la questione del debito pubblico), e nel primo decennio del duemila l’Italia si conferma un paese stagnante, quasi immobile.
Questi limiti sono avvertiti soprattutto da un pezzo del padronato italiano, non tanto rappresentativo sul piano sociale e quindi elettorale, ma molto significativo dal punto dei vista dei flussi economici, fortemente internazionalizzato e proiettato verso l’Europa per costruire un polo imperialista che possa sostenere l’urto con gli USA, i BRICS etc. Con l’onda lunga della crisi del 2007, vengono alla luce tutti i limiti delle economie più “arretrate” ed anche in Italia si giunge ad una sorta di “resa dei conti”. Così, si pone la necessità di una nuova fase, in cui per rilanciare un ciclo di accumulazione bisogna distruggere capitali, concentrarli, mercificare nuovi ambiti sociali, aumentare l’estrazione di plusvalore, cioè intensificare lo sfruttamento del lavoro. L’affondo padronale si deve inasprire, riducendo al minimo l’intervento statale, levando di mezzo ogni forma di mediazione sociale, tutta quella selva di enti, di apparati istituzionali che in passato servivano a moderare e integrare le spinte dal basso, ogni inutile rivolo in cui si disperde il profitto. Per arrivare a questa meta, al neocorporativismo, ovvero alla compatibilità massima del lavoro al capitale, la frazione della borghesia imperialista ritiene che non ci sia più spazio per tutto ciò che costituisce inefficienza, per le sacche di “arretratezza” che hanno contraddistinto il sistema delle vecchie corporazioni italiane. Così possiamo leggere le iniziative di Marchionne, disposto a rompere con la sua stessa organizzazione di riferimento pur di portare avanti lo scontro, o quelle dei vari Montezemolo, Della Valle, Draghi, Passera etc, che – presentandosi come “tecnici” o membri della “società civile” – cercano di costruire un consenso di massa (necessario per attuare progetti di riforma così pesanti) non più passando attraverso complesse mediazioni con partiti politici che dovrebbero rappresentare gruppi sociali, ma distruggendo ogni forma organizzativa precedente, e ricomponendo le forze intorno alle proprie proposte, che il “politico” deve accettare perché ormai incapace di agire.   


2. Gli ultimi mesi: dalla crisi estiva al Governo Monti. Se era dalle prime avvisaglie della crisi che questa frazione della borghesia spingeva per far saltare il tappo del blocco sociale berlusconiano-leghista, fatto di piccoli speculatori, palazzinari, commercianti, imprenditori, evasori etc (si veda ad esempio le “Considerazioni finali” di Draghi del maggio scorso, che di fatto disegnavano già il programma delle riforme a venire (), la congiuntura estiva ha permesso definitivamente di scalzare un Governo che aveva sì voti e rappresentanza formale, grazie alla compravendita spudorata dei parlamentari, ma assoluta incapacità d’azione.  
Da luglio in poi, messa una pietra sull’affare greco con il default selettivo, l’attenzione dei fondi speculativi inizia a puntare sul nostro paese. Puntano su noi perché qui c’è molto da spolpare (molto più che negli altri PIGS), e perché non cresciamo, siamo un paese fermo da troppi punti di vista. E noi iniziamo a ripercorrere, come se il nastro fosse stato messo indietro e poi fatto ripartire, le stesse tappe della crisi greca, con l’aggravante che ora l’attacco speculativo è rivolto a tutta l’area euro, e si è fatto ben più pesante. Dopo i primi “sondaggi” che determinano subito, nei vari paesi dell’UE, delle risposte di austerity, inizia un continuo logorio, fino all’ultima offensiva, partita – a detta degli stessi economisti borghesi – dall’area anglosassone.
Il Governo Berlusconi all’inizio temporeggia, poi mette in campo una prima manovra, ma non basta: ad inizio agosto ci arriva così una bella lettera dalla BCE che ci dice cosa dobbiamo fare, si tenta una seconda manovra, ma si capisce subito che non sarebbe bastata, infine c’è una terza manovra, per una finanziaria complessiva che oscilla fra i 75 e i 90 miliardi… ma il problema è ancora tutto lì. E non basta affatto il contrappeso della BCE che inizia a comprare i nostri titoli di Stato per arginare le impennate dello spread.
Così a fine ottobre dall’UE ci arriva un vero e proprio ultimatum, e di lì in poi il destino del Governo Berlusconi è segnato. L’ultimo suo gesto sarà il maxi-emendamento, che analizzeremo fra poco, un provvedimento che riesce allo stesso tempo ad essere aggressivo ed inefficace. L’esito della crisi è noto, ed ancora una volta analogo a quello che è successo in Grecia con la nomina di Papademos, economista e vice-presidente della Banca Centrale Europea, messo a capo del Governo dalla troika. L’asse franco-tedesco (ma sarebbe meglio dire: quella componente del capitale francese e tedesca che ha ambizioni continentali, e che intorno a sé riesce a mobilitare strati analoghi della borghesia degli altri paesi dell’UE) impone un suo uomo. Il Presidente Napolitano chiama uno che non sta nemmeno in Parlamento per dirigere il paese insieme ad una squadra di gente sconosciuta e mai votata da nessuno, godendo però del consenso di tutte le forze politiche. È un commissariamento di fatto, per ricomporre velocemente il quadro del padronato intorno a nuovi equilibri. Insomma, senza nemmeno un passaggio “formale” come le elezioni, una frazione della borghesia italiana, con l’appoggio della borghesia europea e facendo leva sullo “stato di emergenza” che questa stessa borghesia ha proclamato, riesce a mettere lì un suo uomo, e si aggiudica pienamente uno degli ultimi round contro il blocco berlusconiano-leghista, che ormai punta solo a “tenere” più posizioni possibili ed a limitare i danni.  
Vale la pena di approfondire almeno un attimo questo discorso della “sovranità”, proprio per far capire quanto epocale sia questo passaggio, e con quanta forza quindi ci dobbiamo mobilitare per affrontarlo.


3. La “rivoluzione passiva” e la democrazia a fondo. La storia ci dimostra che ogni crisi, economica o politica, viene sbloccata con atti di decisione anche imperiosi, che “saltano” molti dei passaggi che i tempi normali consentono, e riconfigurano rapidamente il panorama politico e sociale, al punto che la forza che si afferma venga vista come l’unica soluzione possibile per evitare il peggio. In breve tempo la collegialità che contraddistingue le forme di governo liberali viene soppressa, e la sovranità, fino a nuovo ordine, viene accentrata nei luoghi e nei gruppi che sembrano avere più capacità di uscire dallo stallo. Le esigenze della crisi economica hanno, ad esempio, riconfigurato bruscamente i rapporti interni alla UE, cancellando anni e anni di confronti apparentemente egualitari fra i suoi paesi, gerarchizzando la catena del comando verso l’asse franco-tedesco.
Questa logica decisionista, improntata ad un “realismo politico” che non tollera i “tempi morti” del confronto parlamentare e delle altre forme, per quanto ridicole e insufficienti, della “democrazia”, procede spedita da almeno vent’anni. Attraverso la retorica “antiburocratica” e presidenzialista, usando come grimaldello la necessità di “essere veloci”, assistiamo ad un rafforzamento del potere esecutivo, con annesso rafforzamento delle strutture di controllo. Così sempre più spesso la norma viene sospesa a tempo indeterminato, e la sospensione stessa della norma, motivata dall’emergenza, diventa una nuova norma. Come ha scritto Alberto Burgio qualche giorno fa, “il governo delle società e delle economie si allinea agli standard del comando militare. Su quel terreno da sempre la democrazia è una finzione […] Oggi è così ormai anche per l’uso del denaro, per il governo della forza-lavoro, per la gestione della ricchezza sociale […] Stiamo assistendo – da anni, ma in questi giorni con un’accelerazione micidiale – alla regressione oligarchica delle nostre democrazie”.
D’altronde questa è la “logica di governo delle cose” più propria al capitalismo. Guardate come si era espresso Guy Debord già nell’88: “Una legge generale del funzionamento dello spettacolo integrato, almeno per coloro che ne gestiscono la direzione, è che, in questo ambito, tutto ciò che si può fare deve essere fatto. In altre parole ogni nuovo strumento deve essere utilizzato, a qualsiasi costo […] Questa legge si applica anche ai servizi che proteggono il dominio. Lo strumento messo a punto deve essere usato, e il suo uso rafforzerà le condizioni stesse che favorivano l’uso. I procedimenti d’emergenza diventano così procedure di sempre” (Commentari alla società dello spettacolo, tesi XXIX).
Ora, riconosciamo quello che sta accadendo in quanto è già accaduto, proprio in Italia, ed è stato ben studiato da Gramsci, che ci ha fornito una mirabile descrizione di questi processi. Riflettendo sulle fasi di crisi, Gramsci scrive: “classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere […] Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico […] rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta la sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale” (Quaderni del carcere, ed. Einaudi, quaderno 13, pp. 1603-4).
È evidente che Gramsci parla di noi, e potremmo impiegare la sua categoria di “rivoluzione passiva” per capire meglio quello che sta succedendo. “Rivoluzione passiva” indica un movimento delle classi dominanti che, per sbloccare una situazione di impasse che potrebbe portarle al tracollo, sono disposte a compiere delle “rotture” che hanno qualcosa di “rivoluzionario” – nella retorica, nelle forme, nello scarto con un passato anche recente – ma sono “passive”, volte cioè a scompaginare ogni tentativo davvero rivoluzionario, a passivizzare le masse, a privarle di ogni iniziativa indipendente. Gramsci pensa come esempio al Risorgimento, alla maniera in cui la storia italiana fu determinata dalle grandi potenze europee (mutatis mutandis quello che sta succedendo ora) e soprattutto al fatto che un “partito”, quello di Cavour, seppe compattare intorno a sé gran parte della destra e della sinistra (tagliando le ali “estreme”), per controllare esiti “sgraditi” del processo unitario, e lo fece anche appoggiandosi alle altre borghesie europee…
In modo un po’ forzato, potremmo dire che quello che sta accadendo ora è una specie di “rivoluzione senza rivoluzione”, resa necessaria sia dal bisogno di “uniformare” il comportamento italiano rispetto alle richieste dei capitalismi più “avanzati” che stanno ridefinendo gerarchicamente l’UE, sia dalla necessità di anticipare e sedare qualsiasi tipo di opposizione delle classi subalterne. Certo, si potrebbe dire che questa opposizione e questo conflitto non ci sono, ma si può altrettanto facilmente obbiettare che “noi”, ovvero l’altra squadra che dovrebbe disputare la partita, non li sappiamo vedere. Chi dirige in questa fase l’economia sa benissimo che la situazione non è affatto rosea: se la Merkel sostiene che ci vuole un decennio per uscire dalla crisi, e nessuno degli economisti borghesi scommette su meno di 4-5 anni, ci si può legittimamente attendere l’emergere di qualche movimento sociale… Fra l’altro un conflitto “dal basso” c’è già in diverse forme, da una prima “resistenza” sotterranea della classe, che si esprime in una sua sostanziale indifferenza rispetto ai meccanismi di comando, ad una fibrillazione che nel mondo del lavoro in Italia è altissima, se non altro perché gli operai, i lavoratori precari, i lavoratori immigrati sono stati portati davvero allo stremo, ed in molti casi hanno ben poco da perdere.
Ma la citazione di Gramsci ci serve anche per sottolineare un altro aspetto del problema. La peculiarità di questa fase, che ricalca molti passaggi della storia italiana (si pensi alla “rivoluzione” fascista, che si instaurò anche usando come leva il disgusto popolare per la democrazia liberale e la polemica contro i parlamentari; o alla già citata fase del ’91-’93, in cui la “rivoluzione” berlusconiana/leghista si affermò usando la retorica antipolitica che aveva infiammato le masse durante Tangentopoli),anche nel fatto che gli stessi apparati economici si facciano carico di accogliere, rilanciare e persino rappresentare una serie di “rivendicazioni ideologiche” che in modo confuso provengono dai subalterni. Basta pensare a come sia stato “usato” il discorso anti-casta in questi mesi, e come venga ripreso dallo stesso ceto tecnocratico; si pensi anche al dibattito intorno alla patrimoniale ed alla posizione assunta da Montezemolo, o ai discorsi contro la precarietà dei giovani, battaglia di cui si fanno alfieri Draghi, Della Valle etc.
Insomma, siamo di fronte, come sempre accade in tempo di crisi, ad una simultanea precipitazione di diversi ambiti di vita: economico, sociale, morale, politico. In questo senso è una democrazia, quella italiana, che ha toccato il fondo, o meglio, che ha rivelato il suo fondo: quello di una decisione sempre imposta da chi detiene le chiavi del potere e che, ogni volta che teme che le cose si possano mettere male per lui – per insubordinazione del popolo o per attacco esterno, o più probabilmente per una combinazione delle due cose –, è pronto a scavalcare persino le forme minime della democrazia procedurale.
In questo senso lo Stato si conferma “comitato d’affari della borghesia”, come diceva Marx: solo che ora la borghesia si prende direttamente il posto di Governo ed impone i suoi uomini e provvedimenti. Certo, l’ha sempre fatto: ma basta vedere la lista dei ministri scelti da Monti per capire che non siamo di fronte a “specialisti della politica”, a soggetti semplicemente provenienti dalla classe borghese e quindi partecipi dei suoi interessi e della sua ideologia, meri esecutori di chi nel Paese mira a fare soldi, ma quando leggiamo la biografia di un Passera o di un Profumo, capiamo che sono “intellettuali organici” (cioè pienamente interni e consapevoli della propria provenienza di classe e del proprio ruolo, gente che pensa e progetta come far avanzare gli obbiettivi della propria parte) e veri e propri “militanti” della borghesia, perché sono espressione diretta della sua punta più “avanzata” e “radicale”, quella più attrezzata per combattere la lotta di classe dall’alto. Insomma, non c’è nulla di “tecnico” in questo Governo, la sua tecnica non è affatto neutra.


4. Il programma Monti e cosa succederà. Il paradosso, in tutto questo, è che nemmeno tali misure estreme, questa forma di “fascismo democratico” (che ha come suo supplemento sia il fascismo old school delle forze dell’ordine, degli apparati repressivi, di Casa Pound&co. per scompaginare eventuali fronti di lotta, sia il becero populismo/complottismo di gruppi pensati per stornare ogni possibile opposizione reale, dalla Lega a Beppe Grillo passando per i centinaia di gruppettini e siti che ostentano di cospirare contro il nuovo ordine mondiale), questa “democrazia oligarchica” non riesce a risolvere i suoi problemi nemmeno sul breve periodo. Si legga quanto ha affermato Draghi all’indomani del suo insediamento alla BCE: “Ci aspettiamo che l’attività economica s’indebolisca in gran parte delle economie avanzate” e “nell’area euro i rischi sono aumentati”. Così per la stabilità finanziaria dell’area euro è essenziale “una governance economica molto più robusta” ed il commissariamento in questo senso è l’arma per eccellenza, attraverso ispettori anche loro presuntamente “tecnici” e l’imposizione di una “vigilanza rafforzata”.
Tornando all’Italia, il Governo Monti promette di durare sino al 2013, anche per la mancanza di alternative. Per resistere alle pressioni dell’UE e dei mercati, dovrà intraprendere cure drastiche, come ha già candidamente ammesso. Ora, gli unici margini di recupero che non riguardano direttamente le classi subalterne sono le misure sull’evasione e l’eventuale patrimoniale. Va da sé che non c’è la volontà di intervenire massicciamente sul primo punto (anche se è sempre bene ricordare che il sommerso in Italia supera i 120 miliardi, ma è chiaro che non si può minare così alla base il “sistema Italia” e che ogni “rivoluzione passiva” ha come suo doppio anche pesanti spinte alla conservazione). Quanto alla patrimoniale, si sta litigando da mesi intorno ad una vera e propria inezia: il pagamento una tantum di un cinque per mille sui patrimoni superiori al milione, milione e mezzo di euro all’anno (in soldoni: fra i 5.000 e i 7.000€ per gente che ha conti in banca a sei cifre!). A dimostrazione che la borghesia di questo paese è stata abituata troppo bene, è insolente ed aggressiva e non è disposta a cedere nulla.  
Per questi motivi, il Governo andrà a prendere i soldi in un modo o nell’altro dai lavoratori, dal risparmio delle famiglie e dai “ceti medi” che si stanno rapidamente proletarizzando. Il primo pacchetto di misure, che dovrà essere approvato entro il 9 dicembre, quando ci sarà il primo vero vertice europeo che valuterà la credibilità della “svolta Monti”, dovrebbe prevedere la riforma delle pensioni e persino il ritorno dell’Ici sulla prima casa, accompagnato da una rivalutazione dei valori catastali. E se non dovesse bastare ci potrebbe essere un nuovo aumento dell’Iva. Tutte misure che vanno ad attaccare esattamente chi negli anni ha messo qualcosa da parte, comprando spesso attraverso il mutuo una casa di proprietà, sperando di godersi dopo tanti anni un po’ di riposo. Certo, questi soggetti non sono gli ultimi  fra gli ultimi, ma dagli ultimi, dagli immigrati e dai giovani senza né tutele né reddito, cosa prendere più? Inoltre attaccare i “genitori tutelati” che in questa fase riescono ancora a sostenere i propri figli all’università, per un master o uno stage non retribuito, per uno spostamento di “formazione” o per intraprendere qualsiasi attività, vuol dire attaccare di nuovo le condizioni di vita dei giovani. Altro che retorica dello scontro generazionale! 
Ovviamente nel primo pacchetto rientrerà anche l’attuazione delle misure già annunciate dal Governo Berlusconi. Monti ha già detto che le integrerà tutte. Vale allora la pena tornare un attimo sul maxiemendamento alla legge di stabilità, che non ha avuto l’attenzione che meritava né sui media borghesi né su quelli di movimento. Ora, se è vero che il maxiemendamento di per sé non risolve molto, perché mancano ancora gli affondi più pesanti e tutto è demandato ai decreti attuativi, è anche vero che è un bell’antipasto, un provvedimento che dà indicazioni nette sulla direzione che il Governo Monti intraprenderà.
Nelle misure previste dal maxiemendamento ci sono soldi dati alle scuole ed università private, accorpamento e dismissione delle scuole pubbliche, finanziamento della mini-naja, sostegno alla TAV, i cui cantieri sono equiparati alle zone militari, ma soprattutto: innalzamento della pensione a 67 anni, attacco al mondo del lavoro ed agevolazioni alle aziende, defiscalizzazione per le imprese di costruzione, tentativi di scaricare sugli enti pubblici parte del debito (invitandoli a fare cassa su una parte del patrimonio degli enti locali), dismissione del patrimonio pubblico e liberalizzazione dei servizi pubblici. Proprio le liberalizzazioni saranno un nodo importante: perché se il capitale è in crisi e non riesce a fare profitti, cerca di valorizzarsi in tutte le nicchie possibili, di estendere la logica della merce ad altri ambiti. Anche per questo la vittoria del referendum contro la privatizzazione dell’acqua è stata letta malissimo dai mercati, perché fa capire che in Italia c’è un problema di opposizione sociale, che un tessuto popolare fa ancora resistenza alla penetrazione totale del capitale in ogni ambito di vita.
Un’altra misura prevista in precedenza e che meriterebbe più attenzione è la riforma della delega assistenziale e fiscale, che vale circa un terzo delle manovre estive. Stiamo parlando della possibilità per i lavoratori di spuntare dalla loro dichiarazione dei redditi diverse voci che alla fine significano detrazioni cospicue. Parliamo di mille e più euro all’anno su uno stipendio di 1200€ al mese, non proprio bruscolini, soprattutto in questo periodo. Stando ai provvedimenti presi dal Governo Berlusconi, se entro tre mesi non si procede con una riforma organica, passeranno i tagli lineari. Monti al momento non ha detto se e come intende intervenire: quindi o la cosa resta così com’è, e dunque passeranno i tagli, o si anticiperà un progetto più complessivo. In ogni caso si cercherà di eliminare quante più detrazioni possibili a scapito dei soliti contribuenti.   
Un altro punto del maxiemendamento è destinato agli statali, di cui viene prevista per la prima volta la mobilità. Anche qui siamo di fronte ad un passaggio epocale e necessario: gli statali sono state una delle categorie più colpite in questi anni e non certo a caso: per smantellare il corporativismo bisogna disarticolare una pubblica amministrazione ipertrofica ed un sistema basato sul consenso passivo e sulla compravendita della piccola borghesia. Questo è proprio quello che è successo in Grecia, dove le diverse manovre hanno mandato a casa circa 150.000 statali.
Veniamo quindi allo sfoltimento della selva delle forme contrattuali a tempo determinato, che viene fatto passare come un grande avanzamento ed una misura di giustizia sociale. In realtà non cambia molto per i “precari”: le forme contrattuali si ridurranno alle quattro che già adesso sono le più utilizzate – come quella “a progetto” che nei fatti si rivela essere usata per coprire forme di lavoro subordinato. Insomma, si tratta di una misura voluta solo da una parte del grande capitale contro quella frazione del padronato più piccola che evade in tutti modi, e non sono previsti cambiamenti per chi lavora ad esempio nel settore turistico o nella ristorazione sul modello job on call (questi sono comparti importanti, i primi del “terzo settore”, e vedono impiegati per la maggior parte giovani).
Tanto più appare ridicola questa misura quanto si punta a precarizzare tutto il mondo del lavoro con i “licenziamenti facili”! Che importa infatti avere un contratto “in regola” o anche a tempo indeterminato, se poi posso essere licenziato in ogni momento? E qui arriviamo ad un punto che nessuno ha evidenziato: la connessione fra innalzamento dell’età pensionabile e spinta verso una maggiore libertà di licenziare. Secondo le misure previste, le pensioni di anzianità dovrebbero sparire lasciando solo quelle di vecchiaia: ovvero, indipendentemente dagli anni di contributi, si resterebbe a lavoro sino ai 67 anni. Sulle prime – a parte l’insensatezza del provvedimento, visto che si trattiene a lavoro gente che sarebbe ben felice di andarsene a casa e “lasciare il posto” ad una generazione che ancora a 30-35 anni fa fatica ad inserirsi – la misura sembra un regalo ai lavoratori, perché di questi tempi garantisce quasi di conservare fino alla fine il proprio impiego.
Ora, a meno di pensare che Confindustria è impazzita, e constatando invece che spesso le aziende si sbarazzano dei lavoratori proprio attraverso i pre-pensionamenti e “scivoli” vari (peraltro finanziati con i soldi dell’assistenza pubblica), dobbiamo giocoforza legare questo provvedimento a quello dei “licenziamenti facili”. Secondo tutti gli studi, intorno ai 55 anni un lavoratore smette di essere produttivo, perché è più stanco, soffre di patologie fisiche e psichiche, è meno motivato, è meno disposto ad aggiornarsi e meno flessibile: è dunque impensabile immaginare che si voglia tenere alla catena di montaggio o a guidare camion gente di 67 anni… Ma se il padronato avesse la possibilità di licenziare liberamente, potrebbe tenersi il lavoratore sino ai 55-60 anni e poi “lasciarlo andare”; il lavoratore ovviamente sarebbe costretto a continuare a lavorare sino al raggiungimento della pensione, e si sposterebbe verso mansioni più umili e dequalificate. È qualcosa che nel resto del mondo già succede: con persone ultrasessantenni che lavorano per anni nei Mac Donald’s o nelle imprese di pulizie in attesa di arrivare all’agognata pensione.
Questo punto si collega anche alla riforma del welfare, che è un’altra cosa che farà il Governo Monti, sia abbassando i coefficienti delle pensioni, sia strutturando un sistema di welfare più leggero ed europeo. Anche qui l’obbiettivo è scardinare un’assistenza che genera forme trasversali di solidarietà, ed anche qui abbiamo degli esempi: le riforme operate in Germania negli anni 2000, che costituiscono la base del successo del capitale tedesco e la ragione della fame dei suoi operai. Da questo punto di vista si interverrà soprattutto sulla cassa integrazione: quest’eccezione italiana ha degli evidenti vantaggi per i lavoratori che, invece di essere direttamente licenziati, rimangono comunque legati al posto di lavoro. Così i padroni sono costretti a reintegrarli una volta passata la crisi dell’impresa. Proprio per questo, per scardinare la “rigidità” operaia, si proverà a far passare il sussidio di disoccupazione, che rende il lavoratore più isolato, e sganciato dalla possibilità di ritornare in fabbrica. Inoltre la cassa integrazione dà diritto ai contributi, il sussidio di disoccupazione no; e questo permette di risparmiare altri soldi, mentre dal punto di vista propagandistico si può dire che bisogna contenere la spesa di pensioni ed ammortizzatori sociali dei “garantiti” per dare reddito ai giovani.
Da questo punto di vista chi oggi rivendica un reddito di cittadinanza o misure affini, finisce per muoversi nella stessa direzione del padronato “illuminato”, e fa quindi il gioco di chi vuole attaccare i diritti invece di estenderli. Dare un reddito (ovviamente minimo) è qualcosa che può certamente essere concesso, a patto che si tolga qualcosa da un’altra parte; un’elargizione del genere, a fronte di nessuna mobilitazione del movimento, che non potrebbe certo ascrivere a sé questa “vittoria”, fungerebbe anche da consolidamento ideologico e spot del “nuovo ordine”. Come sempre invece, per essere efficaci e realmente alternativi, bisognerebbe affrontare quello che non può proprio essere concesso dalle classi dominanti, ed accumulare forza su quelle battaglie lì, che mostrano l’inconciliabilità di interessi fra lavoro e capitale. E quello che oggi si configura come impossibile è esattamente:
a) il mantenimento e l’allargamento di certi diritti;
b) la tenuta del potere d’acquisto attraverso un principio fortemente progressivo e classista nelle tassazioni e nei servizi;
c) misure di ordine sociale ottenute dal basso, tramite la lotta, e volte a reimpadronirsi, anche a livello locale, della ricchezza…
In ogni caso, se mettiamo insieme tutte le misure previste, non ci deve sorprendere che Sacconi guardi “con molto favore” al programma del nuovo governo per quanto riguarda il lavoro, e si schieri con Monti al 100%. Pure secondo l’ex ministro di Berlusconi “oggi inizia una fase nuova della vita”.

 

5. Che fare? Guardiamoci il nostro… Questo programma del nuovo Governo sarà, almeno in una prima fase, parzialmente concordato con le parti sociali: già ora le pressioni più forti, dentro e fuori la CGIL, sono orientate a farla rientrare al tavolo delle trattative. D’altronde questo cambio di fase ad un modello completamente diverso di relazioni sindacali, industriali, sarebbe meglio che si attuasse senza troppe sfrangiature, sarebbe meglio che procedesse confondendo, sotto la bandiera della responsabilità, della coesione sociale, la linea di separazione fra “noi” e “loro”. Ovviamente la CGIL e chiunque altro può sedersi a trattare solo sotto le condizioni capestro che la situazione, l’offensiva padronale, e la storica debolezza e complicità sindacale hanno prodotto. Se poi guardiamo a tutto l’arco delle forze istituzionali, capiamo che da lì non potrà venirci alcun aiuto, anzi: la sinistra sta ricominciando tutti i suoi vizi, ed è ormai totalmente subordinata al quadro disegnato dall’avversario.  
Ci resta una sola strada: ripartire da noi, da quello che siamo realmente. E quale deve essere il comportamento di ogni forza realmente di opposizione? Proviamo a dare qualche spunto, anche se è ovvio che solo “andando a scuola dalle masse” possiamo imparare qualcosa e non imporre – peraltro senza riuscirci – la nostra visione delle cose.
Innanzitutto dobbiamo affermare continuamente che, mentre vogliono far passare le misure una alla volta, per discuterle separatamente, il progetto di riforma del sistema è unico. Dobbiamo essere in grado di mostrare – nei fatti, con esempi concreti – a chi sta pagando questa crisi il quadro d’insieme. Mentre ogni provvedimento sarà fatto vivere come percorso a sé, suscitando volta per volta schieramenti trasversali, noi dobbiamo ricomporre i tasselli e rendere chiaro una volta per tutte che quando si parla di provvedimenti per la “crescita” si intende “crescita dello sfruttamento”. Vuol dire che bisogna fare maggiori profitti, e per farli si deve rendere l’investimento in Italia profittevole, addolcendo la resistenza di una grossa parte della popolazione che non ci sta a diventare variabile dipendente dell’arbitrio capitalista.
In secondo luogo, dobbiamo affermare, sempre e comunque, che di questo debito non vogliamo sapere niente, che non va pagato, che non possono pretendere nulla da chi in questi anni ha dato tutto ed anche di più. Rivendicare il non pagamento del debito vuol dire unirsi al movimento greco, spagnolo, portoghese etc che hanno lanciato questa battaglia e vuol dire anche indicare il livello vero dello scontro, che è perlomeno europeo. Però, e questo è il problema di una battaglia contro il pagamento del debito, questa rivendicazione avrebbe senso pieno solo se si potesse rompere con le compatibilità capitalistiche, per cui dire “non pagare il debito” vorrebbe anche dire redistribuire la ricchezza, socializzare i mezzi di produzione, controllare dal basso cosa si produce e perché… È evidente che oggi non esistono movimenti rivoluzionari che possano assumere in pieno questa rivendicazione, è evidente che non abbiamo la forza di andare oltre lo slogan. È per questo motivo che la giustissima lotta contro il pagamento del debito rischia di essere tutta ideologica, di spostare il problema della crisi così in alto da renderlo inaffrontabile e mettere su, nel migliore dei casi, un movimento di opinione, che nel peggiore dei casi diventerebbe l’ennesima via di fuga opportunista. Invece bisogna cercare, ferma restando la prospettiva generale, di costruire dentro ai nostri percorsi quotidiani questo tipo di opzione, di riappropriarci da subito di quanto ci vogliono togliere, strutturando una resistenza proletaria contro queste misure e osando addirittura rilanciare, forzando al massimo la retorica dell’equità.
Dovremmo cioè provare a irrompere nel dibattito pubblico più largo e sostenere: “voi dite che i sacrifici devono essere equamente distribuiti? Allora noi diciamo: non toccate nulla di nostro, prendete i 120 miliardi di evasione, fate una patrimoniale seria, liberalizzate gli ordini professionali, tagliate le spese militari, recuperate i soldi della Chieda Cattolica che non paga nulla, smettete di finanziare scuole e università private, intervenite sulle dispersioni di denaro pubblico, sui finanziamenti ai soliti amici degli amici. Ce n’è abbastanza per fare almeno quattro finanziarie di guerra!”… Lo stesso tipo di discorso lo si può fare sul piano locale, intervenendo sulle tassazioni e sui servizi, come abbiamo cercato di dimostrare qui. Insomma, si tratta di far capire, contro lo scoramento e la passività prodotte dalle leggi “naturali” e “vincolanti” del mercato, che invece non esistono vie obbligate, che tutto si può mettere in discussione, che un altro modo di gestire la vita associata è possibile, ed anche sempre più necessario.  
È vero, il senso di liberazione che ha attraversato una parte della popolazione italiana alla caduta di Berlusconi si è trasformato in un’attesa vagamente speranzosa nei confronti di Monti. Forse si pensa che una volta scesi così in basso non si possa che risalire. Alle prime bastonate che arriveranno il risveglio sarà brusco. Ma c’è anche da dire che il sostegno a Monti è pompato da tutti i media come una profezia autoavverantesi e non rispecchia il paese reale. La maggior parte dei lavoratori è indifferente a quelli che sembrano ancora giochi di palazzo, pensa alla propria vertenza, a sfangare la propria esistenza, e soprattutto – secondo gli stessi sondaggi – teme gli esiti della crisi. “Il 96% degli italiani non pensa che la fine del tunnel sia vicina, il peggio anzi deve ancora venire, secondo il 71%. Il pessimismo trionfa al Sud (77%), la sfiducia sfonda tra i giovani di 18-24 anni (88%)… Quattro italiani su dieci (42%) sono molto preoccupati per il proprio lavoro”. Insomma, la reazione al momento è ancora di sconforto e di ansia, ma quanto ci può mettere il malcontento ad esplodere?
Per questo oggi si apre un ciclo importante: o ci muoviamo ora, cioè nei prossimi mesi, e costruiamo un livello maggiore di relazioni, connettendo i fili della classe, rafforzandone la coscienza, impedendone l’assorbimento dentro l’ideologia dominante, ed organizzando momenti di incontro larghi e comitati di resistenza, spingendo i lavoratori all’autorganizzazione, come hanno capito anche gli “indignados” o gli occupanti di Wall Street, o perderemo un’occasione storica. Fra qualche anno, a crisi ormai “superata” (per quanto il capitalismo possa superare le sue crisi), a ciclo di accumulazione ripartito, rischiamo di trovarci in un nuovo mondo, di tipo anglosassone, in cui anche proclamare uno sciopero sarà impossibile e saremo tutti schedati e relegati ai margini.
Monti&co. ci promettono: “ce la faremo”. Ma forse quest’esito – una volta che comprendiamo di essere in mezzo ad un guado, con la crisi davanti e dietro, impossibilitati a tornare al “vecchio mondo”, e con la riva di fronte ancora lontana – non è affatto scontato. Il fiume è torbido e scorre, il fondo è scivoloso e si potrebbe sempre alzare la corrente. Sta a noi rovesciare la sicumera di Monti almeno in un interrogativo, in una domanda mobilitante: noi, ce la faremo?

Eat the Rich – Magnammece o’ padrone!

Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli
Collettivo lavoratori della metropoli in lotta CLASH CITY WORKERS

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