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Il vero spread è quello delle pensioni

Questo documento rappresenta la necessaria prosecuzione delle precedenti pubblicazioni  da noi realizzate sugli squilibri ed i privilegi reali del sistema previdenziale di questo paese.

È un necessario completamento, che tiene conto del quadro politico ed economico che nel frattempo è andato maturando, costituito dall’affermazione di un governo “super-partes”, che facendosi forza del consenso di tutte le componenti parlamentari ed istituzionali sta per imporre una ulteriore stretta pensionistica ed una “austerità” ancora profondamente squilibrata a danno degli strati sociali già ampiamente mortificati dai suoi predecessori.

Tanto per riprendere le fila del discorso, nelle pubblicazioni precedenti indicavamo una strada alternativa per attuare la “riforma previdenziale”, sulla base di principi di un reale riequilibrio del sistema, limitando i veri privilegi e le storture estreme che il sistema attuale consente ed agevola.

In quelle proposte si indicavano due possibili interventi.

In breve, le proposte precedenti.

La prima riguarda la necessità di porre dei limiti alle pensioni che oltrepassano certi importi, i cui beneficiari appartengono al categorie ben individuate del ceto dirigente (alti ufficiali, manager, giornalisti di alto livello, dirigenti pubblici e d’azienda, docenti universitari, magistrati, ecc.).

La seconda, da accompagnare al primo intervento, concerne la necessità di intervenire anche sui cumuli, che queste categorie praticano massicciamente, tra le loro pensioni e le remunerazione di attività che continuano ad esercitare anche dopo il pensionamento.

Con i nostri calcoli grossolani, impostati volutamente al ribasso, avevamo calcolato che dal primo intervento, il tetto posto alle pensioni sopra un certo importo, si sarebbero potuti recuperare più di 85 miliardi l’anno, mentre con il divieto di cumulo applicato a chi percepisce oltre la pensione, altro reddito superiore a determinati tetti, si sarebbe conseguito un ulteriore risparmio di almeno 25 miliardi.

Eravamo così arrivati ad ottenere un recupero ipotetico annuo che superava i 100 miliardi annui, cifra ottenuta, è bene ribadirlo ancora, con calcoli grossolani, con proiezioni empiriche e conseguito partendo da valutazioni al ribasso, per non inficiare la credibilità dell’analisi condotta.

Gli ambienti governativi “allargati” propagandano invece la necessità di una nuova operazione sul fronte pensionistico, ancora una volta improntata al taglio indiscriminato, una “riforma fatta passare come ineludibile e indiscutibile, perché si tratterebbe del bene del sistema paese.

Di fronte a questa arroganza, e ripartendo proprio dal ragionamento fatto in quelle analisi, vogliamo contestare con fatti e cifre le premesse con cui pretestuosamente si intende giustificare tale operazione.

Rapporto tra contribuzione e pensione: una tesi da sfatare.

Si dice che il sistema non può più sostenere il peso di un esborso pensionistico ingente che non trova corrispettivo nella contribuzione che viene versata nei fondi previdenziali; si dice, quindi, che è necessario commisurare l’ammontare dei trattamenti a quanto versato come contributi, per garantire che l’importo accumulato come montante contributivo non venga superato da quello che complessivamente viene pagato al pensionato fino al suo decesso (tramite una riduzione dei trattamenti ed un deciso spostamento in avanti dell’età in cui sarà possibile andare in pensione, riducendo insomma gli anni di godimento della pensione).

Questo postulato, che viene fatto passare come incontestabile (basti vedere i documenti  redatti recentissimamente dall’attuale ministro al Welfare Elsa Fornero), non viene sostenuto mai dai conteggi reali su quanto i lavoratori versano  e su quanto ricevono poi come pensione.

Il ragionamento che seguono gli studiosi e gli analisti “embedded” e tra questi il ministro Fornero, non è aderente alla verità, perché ne esalta strumentalmente solo una parte; esso parte infatti da una conclusione (la insostenibilità del sistema) che forse è un dato di fatto reale, ma evita accuratamente di eseguire una analisi del sistema che valuti adeguatamente la forte scomposizione dei diversi trattamenti pensionistici a cui quello stesso sistema è chiamato a fare fronte.

Esso adopera, come spesso accade quando si deve dimostrare una tesi precostituita, la famigerata “media del pollo” di trilussiana memoria, in cui solo nella media ipotetica  ed astratta a ciascuno tocca un pollo, ma nella realtà mentre solo alcuni ne mangiano magari 3 o 4, di polli, agli altri non è dato di vedere neanche una zampa di gallina.

È facile per noi ribadire, riprendendo gli argomenti già trattati, che il peso sul sistema dei trattamenti riservati alle categorie dirigenti che abbiamo già sopra nominato è molto superiore alla media e coinvolge, diversamente da quanto si potrebbe ritenere, moltissimi individui.

Nei documenti già richiamati, eseguivamo delle proiezioni da cui si deduceva che il tetto che noi proponevamo a pensioni e retribuzioni (5000 euro mensili) coinvolgeva più di 3 milioni di individui, per una spesa complessiva che si può tranquillamente ipotizzare superiore ai 200 miliardi annui. Sì, perché anche all’interno di queste categorie può vigere la media del pollo, c’è il dirigente statale che sta poco sopra il tetto dei 5000 mensili, ma ci sono anche decine di migliaia di situazioni di pensionamenti d’oro, alla Amato o alla Monorchio, o alla Ciampi, che ricevono decine di migliaia di euro al mese di pensione. Anche loro fanno “media”, ed in modo piuttosto incisivo, ci pare!

La conclusione, quindi è che esiste una moltitudine piuttosto consistente di pensioni che superano le decine di migliaia di euro al mese, che incidono sulla spesa complessiva in maniera molto più decisiva delle pensioni dei lavoratori dipendenti, che unitariamente possono aggirarsi su una media che può andare da 800 a 1.500 euro lordi (per non parlare delle pensioni sociali al minimo).

Facendo riferimento al rapporto tra quanto versato come contribuzione e quanto viene erogato come pensione, lo squilibrio che è veramente intollerabile è da rintracciare proprio in queste categorie, non nella generalità dei lavoratori.

Ad esempio, un ufficiale delle FF.AA. o delle forze dell’ordine:

– usufruisce ancora del sistema retributivo, a prescindere dagli anni di anzianità, quindi ha ed avrà una pensione più alta di chi percepirà una pensione mista o contributiva, introdotta dal sistema vigente per le altre categorie;

– la sua contribuzione mediamente si attesta su livelli piuttosto bassi, in quanto il percorso di carriera parte dai gradi inferiori per arrivare solo negli ultimi anni ai gradi più alti e meglio retribuiti; sono questi ultimi anni quelli sui quali viene calcolata la pensione;

– i pensionamenti, per le categorie militari, sono piuttosto precoci, in quanto la carriera inizia in età molto giovanile e quindi nella grande maggioranza dei casi, si raggiunge il collocamento a riposo molto prima dei 60 anni.

Queste stesse considerazioni possono essere estese anche ai magistrati, che ripercorrono le medesime caratteristiche come progressione di carriera, raggiungendo gli alti incarichi solo negli ultimi anni, usufruendo anch’essi del sistema retributivo, che gli riconosce la pensione in relazione ai livelli di vertice che gli vengono attribuiti in virtù dei meccanismi automatici di avanzamento.

Anche per le altre categorie privilegiate che abbiamo indicato andrebbe analizzato dettagliatamente quanto  sia squilibrato il rapporto tra la contribuzione complessiva e l’ammontare degli importi mensili percepiti come pensione, soprattutto in relazione al numero di anni per i quali la pensione viene pagata.

Lo sbilanciamento tra contribuzione e pensione non va addossato, quindi, alle pensioni medie riservate ai lavoratori dipendenti nella loro generalità, ma alle categorie dirigenziali; a sostegno di questa tesi, anche qui impostiamo qualche grossolano, ma indicativo, calcolo.

Qualche calcolo a sostegno.

Per un lavoratore dipendente la contribuzione previdenziale ammonta a circa il 33 % della retribuzione. Quindi per un salario medio-basso, che attesteremo sui 20.000 lordi annui, calcoliamo che la contribuzione annualmente è di  6.500 euro circa. Un lavoratore con 40 anni di anzianità accumula, come montante contributivo, non meno di 260.000 euro.

Un salario annuo di 20.000 euro lordi l’anno corrisponde, nel sistema più vantaggioso, quello retributivo, che è in via di esaurimento (tra poco non ci saranno più pensionamenti con il sistema retributivo puro), ad una pensione lorda annua di circa 15.000 euro,. Se il lavoratore ha cominciato a lavorare a 25 anni, che ci sembra un’età già abbastanza precoce, avrà diritto a pensione a 65 anni di età.

Per cominciare ad avvantaggiarsi della propria pensione, cioè per riprendere tutto quello che è stato versato come contributi, questo lavoratore dovrà arrivare ad una età di almeno 83 anni. Le ultime statistiche aggiornate (fonte: Banca mondiale 2009) danno per l’Italia un’aspettativa di vita a 81,4 anni, ben al di sotto di quegli 83 che sono necessari per riprendersi quanto versato.

Questo se ragioniamo riferendoci agli importi lordi di pensione, che comprendono anche ciò che lo Stato si riprende come tassazione.

Se, invece ragioniamo in termini di reddito netto, cioè con gli importi che realmente entrano nelle tasche dei pensionati, per recuperare tutto il capitale versato, lo stesso pensionato (che al netto percepisce circa 870 € al mese) deve vivere almeno fino a 89-90 anni.

Per di più questo calcolo è basato su una pensione retributiva, pari all’80 % dell’ultima retribuzione. Questo metodo di liquidazione sarà tra poco del tutto inapplicato, in quanto le pensioni si baseranno,  in tutto o in parte, secondo la riforma vigente del 1995, sul sistema contributivo, che porta già dall’inizio la pensione al 60 per cento, con accelerata tendenza verso il 40, della retribuzione.

Se rifacciamo i calcoli  riferendoli al sistema misto, la pensione del lavoratore di esempio ammonterà a circa 12.000 euro lordi all’anno (60% dei 20.000 di salario). In questo caso, il lavoratore, per poter cominciare a “guadagnarci”, con la sua pensione, dovrà occupare almeno 22 anni di vita dopo il pensionamento. Per chi andrà in pensione a 65 anni, ciò vuol dire che fino all’età di 87 anni si riprenderà solo quello che ha versato. Siamo di 6 anni oltre l’aspettativa di vita media, nel nostro paese.

Se anche qui ragioniamo in termini di reddito netto, il pensionato con il sistema misto prenderà circa 700 € al mese e per recuperare il capitale dovrà viverre fino a 94 anni!

Quando purtroppo, con l’applicazione integrale del sistema contributivo, la pensione non sarà superiore al 40 %, lo stesso lavoratore, per poter riprendere tutto il versato come contributi, dovrà campare fino a 98 anni (se consideriamo il netto … bhe, lasciamo perdere). Salute e Auguri a tutti!

A proposito di vita media, teniamo sempre conto che la media della vita attesa è calcolata anche su chi, potendoselo permettere, ha una cura di sé dal punto di vista sanitario e di stile di vita ben al di sopra di chi dopo una vita sacrificata ad un lavoro magari anche pesantissimo ed usurante, si ritrova con mille acciacchi a dover far fronte a problemi di salute appoggiandosi ad una sistema sanitario inefficiente, e non certo alle cliniche svizzere.

Quanti tra essi riusciranno a superare la soglia necessaria a recuperare per intero quanto versato per la pensione durante il lavoro ?

Uno strano concetto di equità.

È evidente che il governo “extra – politico”, ma ultra – liberista, di Mario Monti, intende continuare a colpire laddove hanno colpito tutti suoi predecessori, ma con una maggiore efficienza, una maggiore rapidità, ed una minore conflittualità, in quanto sicuramente le forze politiche e sindacali che tutte lo hanno appoggiato al suo nascere non frapporranno ostacoli insormontabili.

Mentre questo documento viene redatto, ad esempio, si continua a parlare di una patrimoniale “mini”: volendo ridere, è significativo che, un po’ freudianamente, quando si parla di pensioni, si dica “riforma importante”, “riforma rilevante” ecc. intendendo un qualcosa di grande, di pesante, invece, quando si parla di grossi patrimoni, la riforma diventa “mini”.

La mini-patrimoniale sarebbe costituita da un 2 per mille (che serve per non dire l’equivalente 0,2 per cento che suona un po’ troppo presa per i fondelli) per i redditi oltre il milione e mezzo di euro (che, dovendo risultare dalle risibili dichiarazioni dei redditi italiane, fanno capo a poche decine di persone in tutto). Da questa misura si ricaverebbero, da stime non meglio identificate, dai 2 ai 3 miliardi di euro.

Già solo con la riforma delle pensioni, accompagnata dall’altro simpatico ed equo provvedimento rappresentato dal blocco degli adeguamenti delle pensioni al costo della vita, pare che si tirerebbero fuori almeno 5-6  miliardi, che già sono il doppio di quelli che si vorrebbe trarre dalla tassazione (oops mini tassazione) dei patrimoni.

Il professor Monti, all’atto del suo insediamento, ha richiamato la necessità di seguire, nelle misure di risanamento, la necessaria equità. La sua indiscussa cultura forse gli ha fatto alterare il significato del termine.

Un prelievo dello 0,2 % su un milione e mezzo significa € 3000 (tremila)

Invece, la reintroduzione dell’ICI su una casa di abitazione, da sola costa, ad esempio in una grande città mediamente almeno 300 € l’anno,

Se vogliamo possiamo aggiungere l’aumento dell’IVA, ipotizzato anche su generi di prima necessità, vogliamo dire che inciderà per altri 200 euro almeno in un anno (ma proprio per chi consuma quasi niente)?

Il blocco degli adeguamenti delle pensioni  significa un  taglio di almeno il 2 % annuo (non dello 0,2 come nella mini patrimoniale), per una pensione di poco al di sopra di quella minima significano più di 300 euro all’anno di meno.

Poi ci sono altri esborsi che verranno prodotti dalle misure che il governo prenderà e che faranno raggiungere la penalizzazione delle fasce deboli somme che vicine ai 1000 mille euro l’anno.

3000 € di patrimoniale, raffrontato a un reddito di 1 milione e mezzo significa un rapporto di 1 a 500.

1000 € tra taglio delle pensioni, aumento dell’IVA, ICI, aumenti tariffari ecc. raffrontati ad un reddito di 20.000 e significa un rapporto di 1 a 20.

Bell’equità, non c’è che dire!

Senza avere nessuna pretesa che le proposte da noi formulate vengano adottate sic et simpliciter dalle componenti di movimento che intendono opporsi a questa distruzione sociale, vorremmo sottolineare che il nostro scopo è solo quello di tracciare una linea, di indicare una strada ed un metodo per contestare i sillogismi e le falsità con cui il governo sostiene l’ “inevitabilità” di questi interventi antipopolari sui nostri già risicati redditi e sulle nostre condizioni di vita.

Una contestazione che parta dai dati di fatto reali, tesa a ribaltare l’impostazione che ci vede sacrificati sull’altare del “bene nazionale”, che in realtà camuffa il solo e unico interesse che vogliono far prevalere, quello della borghesia ultra-capitalista e sovranazionale.

 

* Cobas Inpdap Roma

http://www.cobasinpdap.it/Depressione%20economica%20e%20lotta%20per%20il%20reddito

 

 

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