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Le ong e la ‘guerra umanitaria’ contro la Libia

Per poter vendere come “intervento umanitario a protezione dei civili” un’aggressione militare aerea motivata da interessi geostrategici, petroliferi e finanziari, il ruolo delle organizzazioni per i diritti umani (vere o presunte) è fondamentale quanto quello dei media e, ovviamente, dei governi belligeranti e delle loro alleanze. False organizzazioni per i diritti umani hanno agito da subito per fomentare l’intervento armato Nato/Qatar/Emirati contro la Libia, con la copertura distratta del Consiglio di Sicurezza Onu. A conflitto avviato, poi, anche le vere organizzazioni hanno agito in modo parziale, contribuendo così nel loro piccolo all’esito tragico.
I diversi attori assumono da subito il proprio ruolo. La tempestività come l’efficienza sono cruciali nel far digerire le guerre. Occorre demonizzare il nemico prima che la verità venga fuori e così, quando succederà, sarà troppo tardi perché essa possa avere un effetto deterrente.
Nei primissimi giorni della sollevazione a Bengasi (armata fin dal secondo giorno), le tivù satellitari degli emiri e social network parlano di migliaia di manifestanti inermi uccisi dal regime di Gheddafi, e cinquantamila feriti”, dei bombardamenti sulla folla e delle fosse comuni, menzogne mediatiche rispetto alle quali le guerre precedenti avrebbero dovuto vaccinarci (1). Le successive smentite non vengono riportate dai media mainstream e si depositano nell’immaginario collettivo cifre e scene terrificanti pur mai mostrate.
La notizia più eclatante è il twitter della tivù saudita Al Arabiya che parla di “10mila morti e 50mila feriti nella repressione”, citando come fonte tal Syed Al Senouka che si spaccia per rappresentante della Corte penale internazionale (la quale smentirà categoricamente il giorno dopo).
Parallelamente ai media, i governi occidentali si muovono di concerto con gli ambasciatori libici che in diversi paesi passano subito con gli insorti e gettano benzina sul fuoco. All’Onu, a Ginevra come a New York, la Libia rimarrà scoperta (Al nuovo ambasciatore nominato da Tripoli gli Usa non rilasciano il visto; sarà padre Miguel D’Escoto del Nicaragua a rappresentare la Libia all’Onu).

Questa confusione, unita alla legittima simpatia suscitata dalle pacifiche primavere arabe in Egitto, Tunisia e Bahrein (rivolte disarmate e di massa – a differenza di quella in Libia – che hanno subìto molti morti) fa sì che perfino organizzazioni “antimperialiste” come Attac Francia appoggino l’azione internazionale del Coniglio di Sicurezza (risoluzioni 1970 e 1973 imponenti sanzioni e no-fly zone alla Libia) e poi lo stesso intervento Nato; e induce al silenzio la generalità del “movimento” altermondialista, antiguerra, ecologista, “indignato”, studentesco, sindacale che tanto si mosse contro la guerra all’Iraq nel 2003.

Ma che fanno le organizzazioni “umanitarie”? Si rivelano potenti organizzazioni di recente nascita che in realtà sono “movimenti via web”. Avaaz, famosa per raccogliere petizioni su diverse cause, stavolta contribuisce a creare consenso attorno all’intervento esterno in Libia. Il 23 febbraio lancia l’appello (2) a Onu e Ue “fermiamo la repressione in Libia!”) definendo Gheddafi “Il dittatore più longevo di tutta l’Africa e del Medio Oriente”. Anche a bombardamenti in corso, il favore di Avaaz permane (3).“Qui finisce la sovranità popolare e comincia il marketing sociale pilotato da entità che non controlliamo”, ha commentato Alessandro Marescotti di Peacelink.

La lettera di 70 “Ong” che senza prove di massacri a febbraio contribuì a condannare la Libia alla guerra. Chi l’ha scritta? Chi l’ha firmata?

Ben più efficace, invece, ma con obiettivi esattamente opposti, l’iniziativa della lettera-petizione che il 22 febbraio (a soli sei giorni dall’avvio della rivolta armata nell’Est libico) oltre settanta “organizzazioni non governative” mandano, significativamente al presidente Usa Barack Obama e la “ministra degli esteri europea” Catherine Ashton (dunque le entità che rappresentano il braccio armato più forte del mondo) e al Segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon (il depositario della legittimità delle azioni armate nel mondo). La storia di questa lettera, chiamata Urgent Appeal to Stop Atrocities in Libya (4) è ricostruita dal documentario in preparazione The Humanitarian War.

Chi promuove l’iniziativa? Suleiman Bouchuiguir, uno dei tanti “oppositori” libici con lunghi soggiorni statunitensi, è già stato promosso ad ambasciatore della “nuova Libia” a Berna, ma agli inizi della crisi era segretario, in Svizzera, della Lega libica per i diritti umani (Llhr) federata alla Fidh-Federazione internazionale dei diritti umani (fra le prime a parlare di mercenari neri di Gheddafi, e che dopo qualche mese sarà costretta a denunciare le pesanti persecuzioni di cui sono oggetti i migranti subsahariani in Libia nelle zone controllate dai “ribelli” (5). Quanto alla Llhr, lo stesso presidente conferma che ne erano membri effettivi dei personaggi attualmente al vertice della “nuova Libia”, come Mahmoud Jibril (fino a poco fa primo ministro provvisorio dei “ribelli”) e Ali Tharouni, l’uomo di Washington, attuale potente ministro del petrolio. Sempre a nome della Lega libica, dopo qualche giorno si fa un suo responsabile, Ali Zeidan, con la cifra di seimila morti nella repressione. Si scoprirà in seguito o meglio pochissimi verranno a sapere che Zeidan è portavoce del Cnt di Bengasi. Una fonte non proprio imparziale.

Bouchuiguir promuove l’unica petizione ascoltata della storia del mondo. Tutti sanno infatti che le petizioni sui diritti umani all’Onu o ai governi lasciano il tempo che trovano. Sempre, ma non nel caso della Libia in febbraio. Tutto avviene velocissimamente e quel paese che era stato appena lodato per i suoi conseguimenti nel campo dello sviluppo e dei diritti umani, diventa un paria meritevole di bombardamenti. Il successo si spiega con la tempestività, con il contesto favorevole dei media e con la tipologia dei promotori e dei firmatari. Sono promotrici insieme alla Lidh due organizzazioni “particolari”: National Endowment for Democracy (Ned) e UN Watch. Particolari davvero. Il Ned – che finanzia la Fidh – si presenta come “organizzazione non governativa ufficialmente dedicata alla “crescita e al rafforzamento delle istituzioni democratiche nel mondo”. In realtà, creata ufficialmente dall’amministrazione Reagan nel 1982, è finanziata interamente dal Congresso Usa e i critici la definiscono un’agenzia che facilita il lavoro dei servizi segreti di Washington nella rimozione di governi sgraditi. E’ noto che finanzia gruppi di opposizione – e movimenti in esilio – di diversi paesi. Ebbe un ruolo anche nell’appoggiare nel 2002 i golpisti falliti a Caracas, contro il governo di Hugo Chavez, sommamente sgradito a tutte le amministrazioni succedutesi a Washington).

Quanto alla ginevrina UN Watch, si definisce “organizzazione non governativa il cui mandato è monitorare la performance delle Nazioni Unite”. Ha status consultivo presso il Consiglio Economico e sociale dell’Onu (Ecosoc). Il suo presidente Alfred Moses, ex ambasciatore Usa in Romania, ha una compagnia il cui scopo è “migliorare la sicurezza energetica degli Usa” e “assicurare il futuro energetico degli Usa”. Ruth Wedgwood, membro del direttivo, era nel Defence Policy Board di Donald Rumsfeld e vicina a gruppi conservatori.
La campagna di UN Watch per defenestrare la Libia con Consiglio Onu per i diritti umani risale al maggio 2010, in combutta con il dissidente Mohamed Eljahmi, cofondatore della American Libyan Freedom Alliance- Alfa. Ironico che un aspetto dello speciale IRE di UN Watch sia stato il ruolo della Libia fra i cinque membri del gruppo di ricerca del Council sui mercenari (angloamericani in Iraq)! Infine, UN Watch ha già lanciato diverse petizioni contro il regime siriano di Bashar el Assad. (6)
La petizione promossa da queste organizzazioni è firmata – a tempo di record – da 70 organizzazioni “non governative”, di cui solo 25 dicono di occuparsi di diritti umani, sparse in tutto il mondo. Tre le firme italiane: il “Partito radicale nonviolento” (che mai si oppone agli interventi militari occidentali) e Intersos (il cui ufficio stampa ci spiegherà poi per email di aver firmato per leggerezza e ingenuità; e di non aver poi mai rettificato pubblicamente, ritenendo inutili le smentite). Ci sono poi varie organizzazioni sudamericane attive nella critica ai governi venezuelano, cubano e simili.

Sostenendo che il governo libico stia commettendo “crimini contro la vita” (citando la Dichiarazione universale dei diritti umani) e “crimini contro l’umanità” (come definiti dalla Corte penale internazionale), la lettera chiede un’azione internazionale contro la Libia, “usando tutte le misure possibili”, motivandolo con la dottrina “Responsabilità di proteggere” varata nel 2005.

La lettera è commovente: senza alcuna prova, parla di elicotteri e cecchini contro i manifestanti, artiglieria e killer che sparano, donne e bambini che per salvarsi si gettano dai ponti. La lettera precisa che poiché le autorità libiche non proteggono la popolazione da crimini contro l’umanità, se i mezzi pacifici di influenza sono inadeguati, gli stati membri dell’Onu sono obbligati a intraprendere azioni collettive, tempestive e decisive, attraverso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sulla base della Carta dell’Onu, compreso il capitolo VII. Chiede anche di convocare d’urgenza una sessione speciale presso il Consiglio dei diritti umani i cui membri hanno il dovere, sulla base della risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu 60/251, di occuparsi di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani. I Settanta chiedono anche di mandare in Libia una missione di esperti per raccogliere fatti rilevanti. Questo è l’unico punto sul quale viene disattesa.

Non c’è bisogno di verifiche. Basta la parola. Detto fatto, gli “indignati di tutto il mondo”, governativi e non governativi, si muovono come mai prima. Come un sol uomo.

Il 25 febbraio, dopo il twitter di Al Arabyia e la lettera collettiva a Barack/Ue/Ban, Bouchuiguir va dritto al Consiglio dei diritti Umani delle Nazioni Unite, a Ginevra, a esporre le accuse al governo libico. Parla di bombardamenti sui civili, uccisioni di feriti, mercenari che uccidono persone inermi, esecuzione di soldati ribelli.

E’ sulla base di quella lettera e di quelle accuse che senza indagine alcuna, che il primo marzo il Consiglio Onu per i diritti umani espelle la Libia, e il Consiglio di Sicurezza vota le due risoluzioni necessarie per la guerra (l’India si asterrà dichiarando che non ci sono prove).

Ed è su quella stessa base che il Procuratore della Corte Penale internazionale Ocampo emette mandato di arresto per Muammar Ghddafi, il figlio Seif al-Islam e il capo dei servizi segreti Senoussi.

In luglio due giornalisti intervistano con fare sibillino Suleiman Bouchuiguir a Ginevra (7). Egli ci casca e ammette ingenuamente che non aveva né ha alcuna prova sulla quale basare la sua teoria della “terra bruciata” che Gheddafi avrebbe voluto fare; che ha ricevuto le informazioni dal Cnt, Mahmoud Jibril. Confessa candidamente che molti membri della Lega per i diritti dell’uomo sono anche membri del Cnt. E il mandato d’arresto di Ocampo? Bouchuiguir lo spiega dicendo che è perché Gheddafi ha usato gli aerei (un’altra accusa mai provata anzi smentita).

L’intervista sarà visibile nel film The Humanitarian War, già citato. Ci si chiede perché non sia stato divulgato quando poteva ancora fare effetto…

Ma era già troppo tardi. Perché già a giugno la stessa autorevole Amnesty International ridimensionava a poche centinaia i morti (su entrambi i fronti) dei primi giorni…C’è da notare un’evoluzione fra le prime prese di posizione e quelle “a ragion veduta”, pur sempre nella netta condanna del regime di Tripoli (e mai dei vertici del Cnt, semmai della base). Amnesty ravvisava un “eccessivo uso della forza da parte delle forze di Gheddafi, anche contro manifestanti disarmati a partire dal 19 febbraio”, e la “sparizione forzata di individui ritenuti oppositori e altre azioni di rappresaglia contro la popolazione civile”. Sommando questi atti con l’assedio alle città, violazioni della Convenzione di Ginevra e delle leggi nazionali, Amnesty chiedeva al governo della Libia di condurre indagini rispetto all’evidenza che indica che le forze libiche hanno commesso violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario, e anche crimini di guerra, e laddove vi siano prove sufficienti, giudicare e punire i perpetratori con i criteri di un giusto processo”. Ma Amnesty in questa fase non denunciava la presenza di ordini espressi da parte del governo. Dunque le violenze perpetrate dalle forze libiche esisterebbero come esistono quelle compiute dai ribelli, e denunciate dalla stessa Amnesty mesi dopo (in giugno).
Ma quanto alla dimensione della repressione dei primi giorni e alle sue dinamiche, a giugno la ricercatrice Donatella Rovera di Amnesty International, dopo settimane di missione in Libia dichiara a Libération che il numero delle vittime non corrisponde ai catastrofici bilanci annunciati nelle prime settimane: “A Bengasi si è parlato inizialmente di duemila morti; in realtà ne abbiamo recensiti tra 100 e 110” e fra i 59 e i 64 a Baida” (8). E su entrambi i fronti, perché entrambi erano armati. Meno dunque dei morti civili disarmati in Egitto e in Bahrein. (Il 4 maggio il procuratore Ocampo nel suo rapporto al Consiglio di Sicurezza stimava che in Libia nel solo mese di febbraio fossero state uccise fra le 500 e 700 persone. Ma non era spiegato un elemento cruciale: se si trattasse di civili inermi o di persone armate).
In ogni caso a giugno la guerra della Nato è ormai in corso da tempo e in precedenza le organizzazioni per i diritti umani non avevano chiesto mediazioni internazionali per evitarla.
Il ruolo delle organizzazioni per i diritti umani durante la guerra della Nato
Se si considera che operazioni di bombardamenti aerei a sostegno oltretutto di avanzate militari sul terreno non sono mai indolori e comportano morte e distruzione, le organizzazioni per i diritti umani – il primo dei quali è il diritto alla vita – dovrebbero opporvisi sempre, chiedendo a gran voce interventi negoziali. La guerra non è un assassinio di massa? Tanto più quando l’intervento armato è spinto da una possente opera di disinformazione e un carrarmato di menzogne, come è successo nel caso libico. E organizzazioni non governative internazionali non potevano non sapere.
Cos’hanno dunque fatto? Intanto, hanno ignorato i bombardamenti della Nato, e per mesi anche le atrocità commesse dai cosiddetti “ribelli”. I loro strali si sono sempre diretti in via prioritaria contro il regime libico ora defunto. L’esempio macroscopico è rappresentato dai “due pesi due misure” con i quali sono stati affrontati gli assedi di Misurata e di Sirte. Il primo iniziato a marzo, a opera dell’esercito libico e il secondo iniziato a fine agosto a opera degli armati del Cnt sostenuti dagli attacchi aerei Nato.
L’assedio di Misurata viene paragonato a Sarajevo e Guernica. Se le (inesistenti) 10mila vittime civili dei primi giorni di scontri e la conseguente minaccia di massacri a Bengasi sono stati il pretesto per l’entrata in guerra della Nato, l’assedio di Misrata, 300mila abitanti, l’ultima roccaforte dei ribelli nella Libia non da essi controllata, viene citato da diversi leader occidentali come prova che l’intervento militare straniero è necessario e deve continuare perché “l’attacco ai civili non cessa e occorre continuare a proteggerli” (parole della portavoce Nato ancora alla fine di giugno). In realtà le forze che si affrontano sulla pelle della città sono tre: la Nato che bombarda dall’alto e dalle navi, i suoi alleati libici del Cnt che in città si mescolano alla popolazione, e infine l’esercito libico che preme da fuori usando, secondo la Nato, armi indiscriminate come i missili Grad (quando li useranno gli armati del Cnt a Sirte, la Nato li appoggerà). Quando c’è un conflitto in corso e una città e un campo di battaglia, gli abitanti si trovano come l’erba sotto due elefanti che lottano. “I civili libici gemono sotto i bombardamenti di entrambe le parti” (9): ecco un buon riassunto di qualsiasi conflitto armato. Nel caso libico occorre aggiungere il terzo contendente, la Nato.
Perché allora il rapporto di Amnesty International su Misurata, Misratah – under siege and under fire (10), reso noto a maggio, addossa ogni morte di civili all’esercito libico? E oltretutto, le azioni militari “anticivili” sono state ordinate deliberatamente “da Gheddafi” e dai suoi, il che è necessario per legittimare l’incriminazione in sede Tpi? Il rapporto su Misurata parla di “attacchi incessanti e indiscriminati delle forze di Gheddafi”, di cecchini che apparentemente prendevano di mira i civili in aree residenziali; uso delle bombe a grappolo anche in aree residenziali; uso di civili come scudi umani (ma mai imputato ai “ribelli” pur sparsi per la città; intrappolamento di migranti stranieri. In un altro comunicato, del 17 giugno, Amnesty riferisce della prosecuzione dell’assedio, con la morte il 17 giugno fra gli altri di “Halima ‘Omar Dabbur”, 46 anni e otto figli, uccisa a casa da un razzo; “Amnesty sta ricevendo diversi rapporti circa vittime da parte di altri attacchi di razzi ma i collegamenti telefonici e internet con Misrata sono sempre interrotti, ed è difficile dunque verificare le informazioni”. Dunque si tratta di sentito dire?
Sui responsabili della certo triste condizione di una città in preda a combattimenti, le numerose famiglie di Misurata che abbiamo incontrato sfollate a Zliten e a Tripoli, hanno storie molto diverse. Parlano di ribelli che razziano nelle case, e di bombardamenti della Nato.
Da noi interpellata in merito al suo rapporto su Misurata, Amnesty sostiene di non aver potuto ascoltare le storie di questi altri sfollati. Non aggiunge nulla circa la presenza di altre parti armate oltre all’esercito libico: la Nato e i “ribelli”.
Secondo la relazione di un Centro francese di studi contro il terrorismo, il Ciret-Avt, redatto dopo una missione in loco (11), le cose a Misurata stavano un po’ diversamente (i dati sono sempre riferiti al periodo fino alla fine di aprile, come del resto per il rapporto di Amnesty): “La città portuale di Misurata è l’ultimo bastione ribelle in Tripolitania. Resiste alle forze del regime grazie agli approvvigionamenti regolari di cibo, medicine, armi e munizioni per via marittima. La città agli occhi del mondo occidentale è diventata una specie di Sarajevo. I ribelli sperano che una crisi umanitaria dentro Misurata persuaderà la coalizione a mandare truppe di terra per salvare la popolazione”. Ma “in aprile l’Ong Human Rights Watch ha pubblicato cifre riguardanti Misrata le quali indicherebbero che, contrariamente a quanto sostenuto dai media internazionali, le forze fedeli a Gheddafi non hanno massacrato i residenti. In una città così grande, solo 257 persone – compresi i combattenti – vi sarebbero morte. Dei 949 feriti, solo 22, dunque meno del 3%, sono donne. Se le forze del regime avessero deliberatamente preso di mira i civili, le donne sarebbero la metà delle vittime. E’ dunque evidente che i dirigenti occidentali – il presidente Obama in primis – hanno esagerato la minaccia umanitaria per giustificare la loro azione militare in Libia. Il vero interesse di Misurata è altrove, ed è al tempo stesso simbolico e strategico: il fatto che questa città rimanga nelle mani degli insorti permette di dire che la resistenza contro Gheddafi non si limita all’Est della Libia e dunque non è di natura secessionista; peraltro, il controllo di questo porto ne farebbe una base ideale di partenza nella prospettiva di un’offensiva terrestre contro Gheddafi”.
Le Ong per i diritti umani non hanno mai eccepito sulle operazioni miliari della Nato, con il pretesto di non essere sul terreno a Tripoli per verificare (ma la Nato bombardava anche a Misurata). Quando non si sono limitate a rivolgere accuse all’ex governo di Tripoli, le hanno estese al massimo al Consiglio nazionale di transizione di Bengasi. Ad esempio, Amnesty International ricordava che “è in corso un conflitto armato non-internazionale fra il governo di Tripoli e il Transitional National Council di Bengasi” (e il conflitto armato Nato?) e chiedeva di distinguere sempre fra “civili e combattenti” specialmente nel senso che “gli attacchi devono essere diretti sempre solo contro i combattenti e non contro i civili”.
Occorre dunque distinguere fra oggetti civili e obiettivi militari. Ma la Nato a luglio ha dichiarato di ritenere legittimi anche obiettivi civili se possono nascondere componenti dell’esercito! E ha proceduto di conseguenza. Solo due casi a mò di esempio. L’episodio degli 85 morti civili a Zliten, l’8 agosto, sotto le bombe che hanno colpito un gruppo di case di campagna ritenute rifugio notturno di soldati libici; e il bombardamento della tivù libica perché faceva “opera di propaganda istigando contro i civili” (in realtà gli armati del Cnt, considerati dalla Nato e autodefinentisi “civili”). La Nato ha debordato rispetto alla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza “a protezione dei civili” in tanti e vari modi.
Colpisce poi il contrasto fra le denunce veementi dell’assedio a Misurata e il silenzio di Amnesty rispetto a Sirte, un assedio (da fine agosto al 20 ottobre) ben più tragico di quello di Misurata ma condotto dalla Nato e dai suoi alleati locali, gli armati del Cnt. Amnesty non ha mai redatto un rapporto su Sirte (pretestuando la sua assenza dai luoghi; ma gli stessi assediati avevano chiesto a gran voce l’ingresso dei media e delle organizzazioni internazionali umanitarie per verificare quanto succedeva in città; nessuno di quelli che erano già in Libia in quel periodo è entrato a Sirte, però, perché gli assedianti lo impedivano; ma nemmeno nessuno ha protestato per questo). Amnesty non ha mai condannato l’assedio in quanto tale, che pure è un crimine in sé in quanto impedisce ai civili l’accesso al minimo vitale: cure mediche, acqua, cibo, beni essenziali. L’assedio ha azzerato le infrastrutture civili della città e ha ucciso un numero ancora indefinito di civili, sull’ordine di migliaia visti i livelli di distruzione e visto che solo una parte dei civili era fuggita.
Gli assedianti dichiaravano tranquillamente ai media (es. alla Reuters) di usare contro la città armi come i missili Grad, quelle stesse che, ritenute indiscriminate, avevano giustificato bombardamenti a tappeto della Nato su postazioni leali a Gheddafi (in realtà condotte per ottenere il collasso del regime). Ma nessuno ha denunciato l’uso dei Grad da parte del Cnt.
E nessuno ha gridato al fatto che gli armati assedianti impedissero l’accesso della stessa Croce Rossa internazionale (Icrc) all’ospedale Ibn Sinha che era in condizioni disperate, senza ossigeno, senza elettricità, con poca acqua. Mentre a Misurata gli aiuti arrivavano e gli occhi del mondo c’erano.
Sempre secondo Amnesty, “per lo Statuto di Roma del Tpi, certi atti, se diretti alla popolazione civile come parte di un attacco sistematico, e come parte di una politica di stato, sono crimini contro l’umanità. Fra questi atti l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, l’incarcerazione, le torture, lo stupro e altri crimini sessuali, le sparizioni forzate. Molti di questi atti, è stato verificato, sono stati commessi soprattutto dai ribelli. Tanto che la stessa Amnesty International – nel rapporto di settembre The Battle for Libya. Killings, Disappearences and Tortures (12) e in vari appelli e Human Rights Watch hanno dovuto a più riprese denunciarli. Si pensi anche alla persecuzione dei migranti subsahariani una volta conquistata Tripoli alla fine di agosto e della deportazione (crimine contro l’umanità) degli abitanti della città nera di Tawergha (13). Una denuncia ripresa però molto tardi, nel mese di ottobre, mentre la piccola organizzazione di ricerca sui diritti umani Human Rights Investigation (Hri) ne scriveva a partire da giugno, come riassume il rapporto Ethnic Cleansing, Genocide and the Tawergha (14). La stessa Hri, a differenza delle grandi organizzazioni per i diritti umani, ha attirato più volte (invano) l’attenzione sul martirio dei civili di Sirte, in nome della “responsabilità di proteggere” (il mandato che la Nato ha avuto per la Libia…); si veda Responsibility to Protect. The Liberation of Sirte.(15)
Tornando ad Amnesty, il rapporto Detention Abuses staining the new Libya (16) dà conto delle torture nelle carceri dei nuovi padroni della Libia.
E però, mentre Amnesty ha appoggiato l’azione del Prosecutor del Tpi Ocampo contro Gheddafi, suo figlio Seif e il direttore dei servizi segreti Abdallah Senussi, al punto da intimare, dopo la caduta di Tripoli, ai paesi confinanti di non accogliere gli eventuali fuggitivi e di consegnarli al Tribunale, non risulta che abbia denunciato direttamente al Tpi stesso i mandanti dei ribelli” chiedendo un mandato di arresto (lo stesso Jibril da primo ministro provvisorio a settembre dava il via libera ai misuratini per la pulizia etnica ai danni dei tawerghani).
Amnesty International e Human Rights Watch hanno certo avuto un ruolo importante – ancorché inefficace – nello smentire certe falsità dei media internazionali, i quali riecheggiavano la propaganda del Cnt e della Nato. Ad esempio entrambe le organizzazioni in giugno hanno dichiarato, come del resto l’inviato dell’Onu Cherif Bassiouni, che tutto il gran parlare di “mercenari africani” nelle fila di Gheddafi si scontrava con le loro verifiche sul terreno e aveva prodotto una vera “caccia al nero”.
Certe organizzazioni “umanitarie” hanno fatto anche peggio, alimentando le menzogne scandalistiche senza prove per procacciarsi finanziamenti popolari e governativi. Save the Children arriva a dichiarare a un tabloid inglese che i “mercenari” di Gheddafi violentano ragazzini di otto anni. L’organizzazione non ha poi ripetuto l’accusa, evidentemente troppo assurda soprattutto dopo che la stessa Onu, Amnesty e Human Rights Watch sostengono che di mercenari ce ne saranno anche ma non ne hanno trovati). Ma non ha nemmeno pubblicamente smentito e chiesto scusa, e alle nostre ripetute richieste di chiarimenti non ha mai risposto… Tuttavia, non lo dubitiamo, ci sarà stata una risposta in termini di fondi per l’assistenza a quei fantomatici bambini.

E le agenzie umanitarie dell’Onu? Diverse le loro negligenze. La Croce Rossa internazionale (Icrc) che ha come compito la protezione dei civili nei conflitti, non solo non ha protestato con veemenza e richiesto un intervento Onu quando gli armati del Cnt le hanno impedito l’accesso a Sirte, ma, ad esempio, si è mostrata indifferente alla sorte di un gran numero di famiglie dell’Est libico che, rifugiatesi nei mesi scorsi intorno a Tripoli (dove erano ospitate a spese del governo in campi profughi e villaggi turistici), per sfuggire all’avanzata del Cnt, una volta quest’ultimo arrivato nell’Ovest si sono trovate senza appoggi e additate a “nemici”. Dove saranno andati a rifugiarsi? Né la Icrc né Medici senza frontiere, interpellati più volte per telefono dall’Italia, sono andati a verificare.
Quanto all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, è parso talvolta soffiare sul fuoco della guerra: come quando la sua portavoce sosteneva che fosse il governo libico a forzare i migranti a fuggir dalla Libia via mare rischiando la vita; quando il paese, sotto bombardamenti, non aveva nemmeno più funzionante la guardia costiera e dunque ovviamente non poteva bloccare le partenze (come faceva prima della guerra e dopo l’accordo italo-libico per i respingimenti dei migranti clandestini; cosa che aveva attirato infinite e giuste critiche). E l’Alto Commissariato, perché non protesta di fronte alla seguente denuncia, certo da verificare (17): i paesi della Nato hanno ricevuto dalla Nato stessa, in novembre, l’istruzione di segnalare all’Interpol tutti i richiedenti visto dalla Libia; oltre a non concederlo, ovviamente. Considerando che i nella nuova Libia si trovano attualmente migliaia di prigionieri politici senza processo, e considerando il clima di persecuzione degli avversari politici e perfino di chi ha diverso colore, appare evidente che ci sia chi vuole rifugiarsi all’estero…
Quanto all’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), secondo migranti del Niger presenti a Tripoli al momento dell’arrivo dei “ribelli” e della successiva “caccia al nero”, ha mostrato una notevole dose di disorganizzazione nell’evacuare le persone a rischio.
Ma la guerra non è una pena di morte di massa?
Vorremmo citare il nostro piccolo Comitato Paul Rougeau. Preoccupato per i diritti umani, ha denunciato le ultime guerre dell’Occidente e in particolare quelle a cui ha partecipato l’Italia (e sono ormai cinque in venti anni, dal 1991; questa quinta, a celebrare il centenario della colonizzazione italiana della Libia e i 150 anni dell’unità d’Italia). Abbiamo scritto in occasione della prima guerra “umanitaria” cui ha partecipato l’Italia, quella del Kosovo, e ripetuto in occasione della successiva, quella scatenata contro l’Afghanistan: “La guerra – violenza decisa e pianificata al massimo livello di consapevolezza, e poi sparsa sulla Terra in maniera sostanzialmente indiscriminata – offende radicalmente i diritti umani individuali e collettivi. Infatti essa distrugge i beni, la storia e la memoria, l’equilibrio mentale e la vita stessa, di esseri umani, combattenti e non, cui non è stato neanche contestato un reato, se si esclude la ‘colpa’ di trovarsi nel luogo e nel tempo maledetto in cui viene scatenata la guerra.” (v. nn. 67, 89) In particolare per quanto riguarda la guerra in Libia abbiamo scritto a marzo (v. bollettino n. 188 nel sito): “[…] L’incapacità, il disimpegno e il sostanziale disinteresse dei paesi più ricchi – che detengono gran parte del potere mondiale – di fronte alle rivoluzioni in atto in Africa e nel Medio Oriente, ha caratterizzano la prima parte di questo anno 2011. In Italia non ci si è preoccupati delle persone a rischio nei paesi in rivolta, ma solo di coloro che emigrano dal Nord Africa ed approdano sulle nostre coste. Un’eccezione è stata fatta per la rivoluzione libica. In Libia alcuni paesi occidentali hanno prima infiltrato ‘professionisti’ della destabilizzazione e poi scatenato una guerra altamente tecnologica a sostegno del tentativo di rovesciare il regime del ‘dittatore senza incarichi ufficiali’ Muammar Gheddafi. L’entrata in guerra di paesi particolarmente ‘volenterosi’, tra cui l’Italia, è stata definita un “intervento umanitario” teso a salvaguardare la “popolazione civile”. Il fatto che alle guerre combattute dai paesi più evoluti venga ora attribuito, sia pure con una certa dose di ipocrisia, un carattere ‘umanitario’ dimostra un progresso dei diritti umani rispetto all’epoca in cui la guerra veniva definita semplicemente come il diritto dei popoli più forti di aggredire gli altri popoli. Però è giustificato – anzi doveroso – chiedersi se l’intervento in Libia abbia realmente lo scopo primario di proteggere la popolazione e se tale scopo possa essere perseguito senza violare pesantemente e su larga scala i diritti umani di combattenti e non combattenti. Occorre riconoscere che non si è ancora mai vista una guerra che non abbia causato pesanti violazioni dei diritti umani”.
Ma la nostra visibilità è stata pari a zero.
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NB. Questo e molto altro nel libro Libia. L’ultima delle guerre! in preparazione. Per sostenere il tentativo di una Rete internazionale per la verità sulla Libia e contro le guerre occidentali, che il libro vorrebbe favorire, si vada al sito: http://www.produzionidalbasso.com/pdb_682.html
NOTE
1. http://extremeprejudiceusa.wordpress.com/2011/10/23/counterpunch-a-victory-for-the-libyan-people-top-ten-myths-in-the-war-against-libya/; http://www.famigliacristiana.it/informazione/news_2/dossier/libia_140611115251.aspx
2. http://www.avaaz.org/it/libya_stop_the_crackdown_eu/?vl
3. http://www.youtube.com/watch?v=K1QZLmTmdjo
4. http://www.unwatch.org/site/apps/nlnet/content2.aspx?c=bdKKISNqEmG&;b=1330815&ct=9135143
5. http://www.peacelink.it/conflitti/a/34210.html
6. http://en.m4.cn/2011/11/17/justifying-a-humanitarian-war-against-syria-the-sinister-role-of-the-ngos
7. http://www.youtube.com/watch?v=g_IU0d3WVu0
8. http://www.aporrea.org/tiburon/a129711.html%20ForceRecrawl:%200
9. Ennio Di Nolfo, “Il ruolo in Libia. La politica estera a uso interno” il Messaggero, 17 giugno 2011
10. http://amnesty.org/en/library/asset/MDE19/019/2011/en/4efa1e19-06c1-4609-9477-fe0f2f4e2b2a/mde190192011en.pdf
11. http://www.cf2r.org/images/stories/news/201106/rapport-libye.pdf
12. www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/1%2Fb%2F6%2FD
13. http://www.amnesty.it/libia-cnt-deve-prendere-il-controllo-della-situazione-per-evitare-violazionihttp://www.peacelink.it/mediawatch/a/34970.html
14. http://humanrightsinvestigations.org/2011/09/26/libya-ethnic-cleansing-tawargha-genocide/
15. http://humanrightsinvestigations.org/2011/10/27/responsibility-to-protect-the-liberation-of-sirte/
16. http://www.amnesty.org.uk/uploads/documents/doc_21964.pdf
17. http://uprootedpalestinians.blogspot.com/2011/11/bad-moon-rising-over-great-sirte-bay.html

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1 Commento


  • almanzor

    Scrivete: “Il fatto che alle guerre combattute dai paesi più evoluti venga ora attribuito, sia pure con una certa dose di ipocrisia, un carattere ‘umanitario’ dimostra un PROGRESSO dei diritti umani rispetto all’epoca in cui la guerra veniva definita semplicemente come il diritto dei popoli più forti di aggredire gli altri popoli”.

    Non lo definirei ‘progresso’; piuttosto mi sembra che negli ultimi due decenni (quelli dell’unipolarismo e del pensiero unico) i ‘diritti umani’ siano diventati un’altra ARMA a disposizione dell’imperialismo al pari di portaerei, missili, satelliti, diplomazia e … terrorismo. Al tempo della guerra fredda, infatti, la pretesa della forza al servizio dei diritti umani era meno efficace: vi erano almeno due ‘vulgate’ in proposito ed era quantomeno diffuso il sospetto che entrambe le parti predicassero bene ma razzolassero peggio.

    Per il resto, articolo eccellente in quanto mostra quanto quest’ARMA sia fondamentale nella geopolitica attuale e debba essere continuamente aggiornata come le generazioni di caccia o di missili.

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