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Come muoiono i giganti del mare

Come muoiono i giganti del mare

 

di Lorenzo Romani 

[Fonte: http://it.ibtimes.com/articles/26799/20120119/rottamatori-navi-bangladesh.htm/]

 

Il varo di una nave rappresenta un momento solenne. Una bottiglia di champagne viene lanciata contro le mura di prua, poi vengono rimossi i blocchi che vincolano lo scafo alle impalcature di costruzione, e con un muggito metallico il gigante scivola lentamente in mare, sollevando la prima delle infinite onde che lo sfideranno. Di solito, centinaia se non migliaia di persone si assiepano lungo i cantieri e un applauso fragoroso accoglie il gigante non appena il suo corpo è immerso fino alla linea di galleggiamento. La nave risponde al plauso con un colpo di sirena, un assordante boato in tonalità di Do maggiore.

Molto meno solenne, invece, è il momento della fine, e in pochi si chiedono come mercantili, transatlantici e petroliere si congedino da decenni di navigazione.

Non tutti i giganti del mare, infatti, fanno la fine della Costa Concordia: spesso piuttosto vanno a infoltire un mercato nero dei resti marini che tutto è tranne che degno della gloriosa tradizione navale dell’Occidente.

Rottamare un vascello non è come rottamare un’auto. Migliaia di tonnellate di acciaio devono esser bonificate, smantellate, catalogate. Ma c’è molto di più: equipaggiamento interno, scialuppe di salvataggio, cablaggi e tubature, materiali isolanti, componenti meccaniche dei motori e – i più pericolosi – liquidi di raffreddamento, olii incombusti e lubrificanti, residui di serbatoio.

La nave deve essere attentamente e meticolosamente sviscerata di tutte le sue componenti, per scongiurare danni ambientali irreversibili ma anche contaminazioni e malattie gravi per gli addetti. Ovviamente c’è un regolamento per tutto, ma le norme internazionali comportano costi e i costi, come sappiamo, non sono il miglior amico delle multinazionali.

Ecco allora che spesso e volentieri si trova una terza via per evitare di sborsare i capitali necessari al “decommissioning”. A questo punto entrano in gioco le coste sabbiose dell’Asia minore.

E’ soprattutto il caso di Chittagong, il più grande porto del Bangladesh con i suoi quattro milioni di abitanti, e contemporaneamente uno dei centri di brokeraggio più importanti.

Qui le grandi navi invertono il loro segno nei bilanci delle compagnie: da costo di bonifica diventano attivo commerciale. Ci sono anche altri metodi: le navi vengono affondate, e le assicurazioni pagano. Un rischio per le compagnie, qualora la truffa venga scoperta.

 Spesso, invece, vecchi scafi vengono rivenduti in paesi del terzo mondo, dove gli stati o i privati non possono – o non vogliono – ordinare nuovo naviglio nei cantieri occidentali. Acquistano così mezzi di seconda mano che, spesso, non sono sicuri nemmeno da un punto di vista strutturale: il sale non alza solo la pressione, ma corrode le strutture e i giunti metallici, indebolisce lo scheletro dei giganti del mare, li rende fragili e a volte basta una forte onda oceanica ad accartocciare le pareti di una vecchissima nave come se fossero di carta stagnola.

E’ noto il caso della vecchia Tirrenia Boccaccio, varata nel 1970 a Monfalcone e rivenduta nel 1999 alla compagnia saudita El Salam: affondò il 2 Febbraio 2006 dopo trentasei anni di servizio, a causa di un incendio divampato a bordo. Più di mille anime scomparvero, la maggior parte di esse divorata dagli squali in agguato nel Mar Rosso.

A Chittagong, Bangladesh, le navi non si inabissano artificialmente, vengono bensì vendute alle imprese di smaltimento e arenate sui bassi fondali in attesa che eserciti di bengalesi le smontino pezzo per pezzo, ricavandone acciaio.

 Quando sono a molte miglia dalla costa solo una sottile e indefinita colonnina di fumo ne annuncia l’arrivo. Man mano che si avvicinano, la sagoma, arruginita e scrostata dai marosi e dalla salsedine, assume sempre più le sembianze di una salma seguita dal corteo funebre. Un ultimo colpo di sirena viene battuto dalla plancia di comando, ma stavolta non è un avvertimento ai naviganti o alle autorità portuali. Come il Requiem Tedesco di Johannes Brahms, quell’ultimo fischio non evoca la grazia del signore, ma il meritato riposo dopo un lungo servizio.

 Quando il corpo esausto del vascello è arenato e immobile, l’equipaggio viene scialuppato a terra. Inizia ora l’opera di bonifica. Non appena la luna porta la bassa marea e lo scafo è nudo, migliaia di bengalesi, come formiche affamate, assalgono la nave quasi che fosse una crosta di pane. Muniti di scalpelli a mano, a piedi scalzi, senza le minime protezioni separano le lastre di acciaio del ponte. Queste vengono poi legate a funi e catene che, azionate da argani sulla riva, smontano la nave pezzo per pezzo. Le lastre pesano tonnellate ciascuna, dal ponte cadono a terra sollevando nuvole di polvere, acqua, fango. Decine di ragazzini scheletrici le caricano sulle spalle e le stipano nei cantieri lungo la costa.

 I titolari delle imprese acquistano le navi dalle compagnie occidentali per milioni di dollari ciascuna, utilizzano manodopera a basso costo per ricavarne acciaio puro, poi fuso e trasformato in barre da utilizzare nell’edilizia. Il costo degli scafi è variabile. Più di cento navi ogni anno si arenano a Chittagong, ma non c’è alcuna verifica preventiva della merce, acquistata ad occhi chiusi. L’unica cosa che conta, qui, è quanto acciaio se ne può ricavare.

Il margine di profitto non è nemmeno particolarmente elevato: quello della demolizione in Bangladesh è un business che espone gli imprenditori a notevoli rischi congiunturali. Le oscillazioni del prezzo dell’acciaio, i costi d’acquisto delle navi, le tasse, la manodopera, devono essere attentamente valutati per garantire, in media, un profitto di soli 164.000 dollari su ogni vascello. In sostanza, delle entrate totali solo il 3% rappresenta, mediamente, il margine di profitto. Ciò, ovviamente, comporta salari da fame per non compromettere la competitività del settore.

Il Bangladesh soddisfa così l’80% della domanda interna di acciaio, a costi umani enormi, per non parlare dei danni ambientali: Lo smantellamento delle navi, condotto in barba ai più elementari criteri di sicurezza e rispetto per l’ambiente, contamina il mare e le sabbie. Gli olii e le sostanze chimiche vengono riversati nel mare di Chittagong, ormai divenuto una pozza salmastra dall’odore acre e dall’aspetto putrido e opaco.

E pensare che tutto iniziò grazie a un ciclone: nel 1965 una nave si arenò sulla spiaggia, e non ci volle molto perchè gli abitanti cominciassero a farla a pezzi. Gli uomini d’affari capirono che dalla fame dei bengalesi e dalle vecchie navi potevano trarre profitto.

 Il lavoro minorile è onnipresente, I lavoratori – obietta l’amministratore delegato di PHP, la compagnia di demolizione che eufemisticamente si chiama “Peace, Happiness, Prosperity” – non hanno altra scelta che vivere nei cantieri: se non avessero nemmeno quel posto non saprebbero come sfamarsi. Un’argomentazione che molto comunemente giustifica le contraddizioni della globalizzazione. Decine di giovani muoiono ogni anno sotto le lamiere o rimangono sfregiati, amputati di gambe e braccia. Vivono in luride capanne contigue ai cantieri, prestano la propria vita, se va bene, per un dollaro al giorno. In gran parte si tratta di lavoro minorile: di quel 13% di giovani compresi tra i 5 e i 14 anni che in Bangladesh non frequenta le scuole, una parte consistente è impiegata in mestieri ad altissima intensità di lavoro, i mestieri che logorano e uccidono.

 Non è solo l’acciaio che rifornisce i mercati: l’equipaggiamento interno (letti delle cabine, tavoli delle mense, motori e generatori, cablaggi e pavimenti) vengono rivenduti a bordo strada. Qui non si spreca nulla.

Quando una nave arriva è gran festa: gli schiavi assiepati sui ponti dei vascelli in corso di “bonifica” interrompono il lavoro ogni volta che una nuova preda si arena negli spazi lasciati liberi da carcasse ormai consumate.

Ululano e gioiscono come cannibali danzanti attorno al focolare, pronti ad immolare la prossima vittima alla loro divinità. Divinità che, qui, è il Chittagong Stock Exchange: l’indice borsistico dell’acciaio, che “premia” gli adepti con brusche impennate, ogni volta che quella colonnina di fumo appare all’orizzonte.

Ma per loro non c’è alcun dividendo da distribuire.

 

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