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Il Leviatano della ricchezza

La crisi sbriciola la messianica fiducia nel mercato e rende così attuali cassette degli attrezzi teorici troppo rapidamente considerate obsolete. Un recente numero dell’«Economist» affronta il rinnovato protagonismo dello stato nella vita economica

Nell’ottobre 1921, Lenin tenne alcuni discorsi in cui spiegò il significato della svolta nella gestione dell’economia sovietica inaugurata nella primavera precedente, dopo gli anni del «comunismo di guerra». Lenin la chiamò «Nuova politica economica», donde l’acronimo «Nep» con cui è passata alla storia e poi nel dimenticatoio.
La sua idea di fondo era che, accentrando la produzione e la distribuzione nelle mani dello stato, i bolscevichi avevano commesso l’errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste, dimenticando che a ciò si arriva attraverso un lungo e complicato periodo di transizione. La «Nuova politica economica» muoveva dal fatto che avevano subito una grave sconfitta e iniziato una ritirata strategica.
Era senz’altro comprensibile che molti si sentissero sgomenti, perché la svolta della Nep, implicando la possibilità per i produttori di scambiare liberamente sul mercato tutto ciò che dei loro prodotti non era assorbito dalle imposte, significava in buona misura restaurazione del capitalismo. La questione fondamentale, dal punto di vista strategico, era anzi proprio quella di capire chi avrebbe saputo approfittare della nuova situazione: avrebbero vinto i capitalisti, ai quali i bolscevichi stavano aprendo le porte prima serrate della produzione pubblica, e avrebbero cacciato i comunisti, oppure il potere statuale, continuando a regolare la moneta e la produzione, sarebbe riuscito a tener ferme le redini al collo dei capitalisti, creando un capitalismo subordinato allo stato e posto al suo servizio? Molto sarebbe dipeso dal partito comunista: se gli fosse riuscito di organizzare i produttori immediati in modo da sviluppare le loro capacità e di garantire a questo sviluppo il sostegno dello stato, bene; altrimenti, essi sarebbero stati presto asserviti al capitale.

Globalizzazione burrascosa
Così, grosso modo, scriveva Lenin in La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica. Si potrebbe facilmente rilevare che, rilette oggi, le sue parole sembrano una gigantesca metafora del «secolo breve», quasi che cent’anni di evoluzione e rivoluzioni in Europa (e non solo) fossero stati lì contratti in meno di un decennio. Ma non è su questo che qui vorremmo richiamare l’attenzione. Il punto è che nell’analisi di Lenin sta racchiusa l’intera problematica del «capitalismo di stato»: che è questione nient’affatto tramontata, se perfino l’Economist ha sentito il bisogno di dedicarvi un corposo inserto (quattordici pagine!) nell’ultimo numero del mese scorso. Per metterla in forma di domanda: davvero il capitalismo di stato rappresenta un modello che – come scrive il settimanale inglese – sta emergendo a livello mondiale come alternativa al capitalismo liberale di marca angloamericana? E prima ancora, che cos’è il «capitalismo di stato»?
Da un punto di vista fenomenologico, possiamo descriverlo con le stesse parole dell’Economist: il capitalismo di stato «cerca di fondere le forze dello stato con le forze del capitalismo». La promozione della crescita economica è affidata all’azione dei governi, ma essi nel perseguirla si avvalgono anche di strumenti tipici del capitalismo, ivi comprese aziende statali quotate in borsa che nuotano come pesci nel mare della globalizzazione. Una miscela apparentemente contraddittoria che però funziona: a fronte della crisi economica in cui sono drammaticamente precipitate le economie capitalistiche occidentali, il capitalismo di stato può infatti contrapporre il più grande successo economico degli ultimi trent’anni, ossia quel «miracolo cinese» fatto di tassi di crescita del Pil del 9,5% all’anno. Lo stato cinese – ci ricorda l’Economist – non è soltanto il maggiore azionista delle 150 aziende più grandi del Paese, né semplicemente una guida o un pungolo per migliaia di altre: specialmente attraverso il potente Dipartimento dell’organizzazione del Partito comunista, esso plasma nell’insieme il mercato attraverso la gestione della moneta e delle politiche creditizie, indirizzando i flussi di denaro coerentemente con le scelte di politica industriale, e per di più lavora a stretto contatto con le aziende cinesi che si stanno espandendo all’estero (specie nel continente africano).

Lo Stato va in Borsa
Non si tratta, peraltro, di un’esperienza unica nel mondo industrializzato. Le aziende pubbliche costituiscono l’80% della capitalizzazione della borsa cinese, ma anche il 62% di quella russa e il 38% di quella brasiliana: come dire che è in gran parte del «Bric» (l’acronimo che designa Brasile, Russia, India e Cina) che il capitalismo di stato sta celebrando la sua marcia trionfale. Per non parlare dell’espansione dei «fondi sovrani» cinesi e arabi (ma anche norvegesi, russi, australiani), attraverso i quali il Leviatano statale, dopo aver vestito i panni del capitalista industriale, assume anche le sembianze del capitalista finanziario.
Ad una più attenta analisi, tuttavia, la fenomenologia del capitalismo di stato rivela un doppio paradosso. Soprattutto (anche se non solamente) in Cina, le aziende di stato sono diventate più efficienti e più potenti proprio mentre il settore statale complessivamente considerato si restringeva; d’altra parte, la capacità dei governi di incidere sulle leve fondamentali dell’economia si è accresciuta proprio mentre il settore privato si espandeva. L’Economist lo rileva, ma non riesce a darne una spiegazione. Affermare che, in un regime di capitalismo di stato, «i politici hanno di gran lunga più potere che sotto il capitalismo liberale» è semplicemente tautologico: il problema è infatti proprio quello di spiegare che cosa conferisca loro questo potere di «utilizzare il mercato per promuovere fini politici».
C’è un’impegnativa e assai poco meditata affermazione di Lenin dalla quale possiamo prendere le mosse per spiegare il paradosso. Risale ad un testo scritto nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione d’Ottobre e suona così: «il capitalismo monopolistico di stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». Non è un caso che Lenin la riprenda testualmente in uno intervento (Sull’imposta in natura) che appare proprio nell’anno della svolta verso la Nep: letta insieme ad un’altra che di poco la precede e che spiega il senso della topica («Non significa forse, quando si riferisce all’economia, che nel regime attuale vi sono degli elementi, delle particelle, dei pezzetti e di capitalismo e di socialismo?»), essa mette in chiaro che, nell’opinione del leader bolscevico, l’espressione «capitalismo di stato» nasconde in realtà una duplice problematica: 1) se, e a quali condizioni, la proprietà statale dei mezzi di produzione possa dar luogo a nuovi rapporti di produzione di tipo «socialista»; 2) se, e in che modo, codesti nuovi rapporti di produzione possano coesistere con quelli preesistenti di tipo capitalistico.
Volgendo lo sguardo indietro allo sviluppo economico sovietico degli anni Venti del Novecento, possiamo in effetti apprezzare la pregnanza dell’ipotesi leniniana. La Nep fu bensì connotata da un ampio sviluppo del commercio, dal ristabilimento del ruolo allocativo della moneta e più in genere dall’influenza che i movimenti dei prezzi tornarono ad esercitare sulle scelte di consumo e investimento. Ma fu altresì caratterizzata dall’espansione di un insieme di apparati statali che sottraevano parzialmente la riproduzione allargata dall’influenza diretta dei rapporti mercantili, grazie soprattutto al ruolo svolto dalla pianificazione, dalla centralizzazione del bilancio pubblico e dalla realizzazione di programmi pubblici di investimenti.

Tra Mosca e Weimar
Per altro verso, la spinosa querelle che a metà del decennio si accese all’interno del partito bolscevico circa il carattere «genetico» o «teleologico» della pianificazione, nascondeva la questione (non meno decisiva) se codesta sfera di attività produttive finalmente sottratta all’imperio dei rapporti mercantili dovesse essere complessivamente subordinata al funzionamento del sistema capitalistico o posta, viceversa, in posizione relativamente dominante. Fintanto che si fosse limitato a riflettere le tendenze «spontanee» del sistema economico, il piano non avrebbe mai potuto assurgere a criterio orientativo delle scelte produttive fondamentali a prescindere dalla loro redditività monetaria: per liberare le scelte di politica economica (a cominciare da quella relativa all’industrializzazione) da un impiccio del genere, occorreva al contrario spezzare la logica del pareggio di bilancio, il che a sua volta richiedeva un sistema bancario capace di assecondare le crescenti esigenze di espansione monetaria, evitando al contempo che quest’ultima degenerasse in un’inflazione rovinosa come quella che, giusto in quegli anni, affliggeva l’esperimento socialdemocratico di Weimar.

Il laboratorio di Shenzen
Sta qui, in questo complesso mix di misure reali, monetarie e finanziarie, l’arcano che può consentire allo stato di sottrarre le condizioni d’impiego dei mezzi di produzione (ivi compresa la forza-lavoro) alle esigenze di valorizzazione del capitale. E sta nella duplicità dei rapporti che vengono a presiedere il processo complessivo di produzione e riproduzione sociale il segreto del movimento inversamente oscillatorio della disoccupazione e dell’inflazione che, molti anni dopo, A.W. Phillips avrebbe formalizzato nella sua famosa curva. Già all’epoca della Nep, il prevalere dell’una o dell’altra avrebbe infatti costituito una spia della (relativa) dominanza assunta dall’uno o dall’altro sistema di rapporti di produzione: quelli capitalistici ovvero quelli statuali.
Si racconta che nel 1980, all’indomani del varo della prima «Zona economica speciale» di Shenzhen, i dirigenti cinesi si affannassero a cercare nelle Opere complete di Lenin un qualche appiglio che potesse giustificare la scelta di concedere a privati cittadini diritti di uso e di trasferimento che concernevano il lavoro, i mezzi di produzione, gli edifici e perfino la terra. Non c’è da stupirsi che, alla fine, l’abbiano scovato proprio in alcuni testi redatti all’epoca della Nep, né che Chen Yun – che tra i leader storici del Pcc è stato forse il maggior esperto di pianificazione economica – abbia fin da subito proposto di circoscrivere l’esperimento riformatore iniziato nel 1978 nell’ambito dell’«economia dell’uccello in gabbia»: nella capacità di suscitare le forze dello sviluppo capitalistico e al contempo di controllarle in modo che «non volassero via» possiamo in effetti scorgere la principale realizzazione della strategia trentennale dei comunisti cinesi.
Messa la cosa in questi termini, risulta certo più chiaro il significato di certe espressioni ossimoriche così tipiche dei dirigenti cinesi, a cominciare da quella di «economia di mercato socialista». Il fatto è che il «mercato» è semplicemente un proscenio, ovvero (e più precisamente) una delle istituzioni sociali in cui si manifesta il nesso di dominanza/subordinazione concretamente esistente fra i rapporti di produzione capitalistici e i rapporti di produzione statuali («socialisti»). E il fatto che al momento siano questi ultimi ad essere saldamente attestati in posizione dominante è ciò che consente di giudicare la formazione economico-sociale cinese come irriducibilmente altra rispetto a quelle «capitalistiche» occidentali: non già perché all’interno di queste non si diano forme di cooperazione produttiva non più condizionate dal perseguimento del profitto monetario (basti pensare agli apparati pubblici preposti al welfare: scuole, ospedali, ecc.), ma semplicemente perché esse non sono (più) dominanti. L’infinita e stolida giaculatoria sull’«insostenibilità» del debito pubblico ne costituisce probabilmente la migliore conferma.

Il mercato del pubblico
Lascia perciò perplessi l’Economist allorché, a conclusione del suo rapporto, afferma perentoriamente che «la battaglia che definirà il XXI secolo non si combatterà fra capitalismo e socialismo, ma tra differenti versioni del capitalismo»: quel Lenin suggestivamente ritratto in copertina suggerisce piuttosto che la partita che si gioca intorno al «capitalismo di stato» è affatto aperta e per nulla predeterminabile nei suoi esiti ultimi.
Certo, si può sempre ritenere che il comunismo andrebbe ripensato «a partire dalla distanza dallo statalismo e dall’economicismo», come hanno sostenuto (quasi) tutti i partecipanti ad un importante convegno sull’«idea comunista» svoltosi proprio a Londra qualche anno fa. All’estremo opposto, dei comunisti che volessero prendere sul serio gli insegnamenti del «miracolo cinese» dovrebbero interrogarsi sulle ragioni del consenso di cui hanno goduto in Occidente quelle politiche economiche che hanno progressivamente smantellato analoghi strumenti di controllo e governo pubblico dell’economia capitalistica, che risalivano agli anni ’30. Mi rendo conto, però, che è difficile credere che si diano parentele di sorta tra il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e lo Statuto del Partito comunista cinese approvato giusto 160 anni dopo. Se poi si è anarchici, è perfino impossibile.

Luigi Cavallaro – il manifesto

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