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Dall’operaio “all’ingegnere massa”

La crisi internazionale sta producendo un fenomeno imprevisto per settori produttivi che si consideravano fuori da ogni possibile conseguenza in una economia sempre più dominata dalla ricerca scientifica, dalla formazione professionale, dalla evoluzione verso una economia cosiddetta della conoscenza.

Inaspettatamente in Italia, ma anche in altre parti del mondo, oltre ambiti produttivi come quelli più tradizionali dell’auto o della chimica, chiudono centri di ricerca, imprese dell’Information Tecnology o del settore farmaceutico.

Chiudono aziende italiane come l’Eutelia e Italtel ma anche quelle multinazionali come Nokia, Motorola, Glaxo, Severstal, IBM. A pagare in questi casi sono laureati e tecnici diplomati, figure professionali come ingegneri e ricercatori. E’ un ceto medio e medio alto, che paga una crisi che sta lasciando il segno.

Il fatto che siano colpiti settori di più antica produzione come il metalmeccanico, e con predominante condizione operaia come la Fiat a Termini Imerese o la Irisbus, la Merloni o l’Alcoa, è una storia già vista e che sembra concludere un passaggio per le maggiori aree a capitalismo sviluppato avviatosi con la destrutturazione negli anni Settanta.

Per il settore ad alto valore aggiunto della produzione, i numeri sono diventati ormai rilevantissimi: ad oggi si calcolano solo nell’Itc e con largo difetto 25mila esuberi di informatici, ingegneri e tecnici super qualificati ma pesantemente sottopagati rispetto ai loro colleghi di altri paesi europei.

Sta montando anche il numero dei posti che saltano nel farmaceutico, un settore che sembrava immune da pericoli, eppure la multinazionale inglese Glaxo dopo un secolo di storia italiana chiude il suo centro di ricerca di Verona fiore all’occhiello del nostro paese e andranno a spasso 500 ricercatori che coinvolge fino a mille lavoratori attraverso l’indotto.

Le aziende private non sono le sole a fare vittime tra figure alte della produzione perchè Ricerca, Scuola e Università fanno i conti lo stesso da tempo con limiti degli investimenti nella ricerca con i tagli al turn-over del personale. Lo Stato va avanti con lo smantellamento dell’iniziativa pubblica nella ricerca e formazione come testimonia la vicenda prima dell’Ispra e poi dell’Isfol e del licenziamento dei lavoratori di questo ente pubblico che ha trovato per ora risposte organizzate. 

Tagli a tutto campo nella ricerca scientifica

Le spese per la ricerca e per l’innovazione sono riconosciute decisive da governi e privati e stanno aumentando. LItalia invece investe appena l’1% del Pil mentre lo Stato mette a punto programmi e vantaggi fiscali per favorire la ricerca privata.

Nascono così i poli tecnologici come in Emilia dove si programmano 53 laboratori e dieci centri per l’innovazione che vedranno coinvolge università, Enea, Cnr.

Nell’innovazione Fiat e Finmeccanica sono ai primi posti per spesa e investimenti in Europa. La Lombardia è al primo posto in Europa tra le regioni per occupati nel manifatturiero high tech.

Secondo l’Istat nel nostro paese: “Anche in termini di personale di ricerca, la crescita delle imprese nel 2007 è stata assai rilevante: gli addetti alla R&S (in unità equivalenti a tempo pieno) sono aumentati di ben 13.678 unità rispetto all’anno precedente. In particolare, i ricercatori sono aumentati di 2.865 unità (+9,5 per cento), i tecnici di 8.510 unità (+24,2 per cento) e l’altro personale di 2.303 unità (+15,5 per cento). Una crescente “visibilità” delle attività di R&S in settori tradizionali o a medio-bassa tecnologia ha evidentemente portato ad una rilevante crescita delle figure tecniche” impegnate nei processi di R&S.

Le ragioni di una crisi che colpisce i cosiddetti lavoratori della conoscenza sono attribuibili a due fattori: uno di tipo contingente l’altro di tipo strutturale.

Il primo è che la fortissima crisi recessiva internazionale accelera i processi di ristrutturazione delle imprese e di rilocalizzazione avviati dallo sviluppo del mercato mondiale. Non si tratta soltanto di tagliare i costi e le imprese non vanno tutte in Cina o India. La Pfizer chiude in alcuni paesi ma si fonde con la Wyeth per creare il primo gruppo farmaceutico al mondo. La febbre delle fusioni e aggregazioni nel mondo è ripartita e la liquidità di denaro serve per salvare le banche ma anche per rafforzare questi processi.

La velocità dei cambiamenti economici conta ancora più che nel passato. Si licenziano ingegneri come alla Nokia eppure c’è necessità di ingegneri.

Il secondo aspetto riguarda il processo di esternalizzazione delle imprese, cominciato già negli anni novanta, che è dettato non solo dalla competizione internazionale ma dalla modifica al modello di produzione con il passaggio da quello fordista a quello flessibile.

Quest’ultimo porta una riorganizzazione delle imprese in termini di rete che de-verticalizzano la struttura di lavoro aziendale, la quale diventa meno rigida, adattabile al mercato in tempi rapidissimi e suscettibile di ristrutturazioni senza che ci siano blocchi in altre parti della produzione che possono essere soppresse, sostituite con delle nuove e agganciate alle restanti. 

La produzione flessibile non fa prigionieri

La produzione flessibile porta a modifiche organizzative: i quadri per esempio perdono la ragione d’essere che avevano nel precedente modello fordista.

Ma quello che appare più rilevante è che cambia il rapporto di lavoro con il dipendente seppur fornito di qualifica medio alta. L’impresa snella che deve far fronte a rapidi cicli e incessanti innovazioni di merci prodotte, deve avere una rapporto contrattuale meno rigido possibile anche con figure professionali importanti.

Va notato di passaggio che il post-fordismo mette in campo una formidabile strumentazione di controllo del lavoro che aumenta in potenza.

La de-verticalizzazione produttiva della produzione flessibile riduce la piramide aziendale così come l’abbiamo conosciuta per dispiegarla più orizzontalmente senza compromettere anzi rafforzando il potere di comando del capitale e dei dirigenti. Dividi et impera rimane fondamentale per il controllo delle imprese siano anch’esse a rete.

Il capitalismo dei lavoratori della conoscenza ha bisogno di figure altamente qualificate per sviluppare la ricerca scientifica, le sue applicazioni, per garantire che la macchina-rete distesa sulla società e sul territorio sia concorrenziale e produttiva.

Servono sempre più ingegneri, analisti, informatici, esperti di logistica, ricercatori. Il rapporto De Rita 2009 sulla formazione ha calcolato che la struttura delle qualificazioni per il 2020 richiede per l’Europa che il 31,6% siano ad alta qualificazione, il 48,3% a media qualificazione, 18,1% a bassa qualificazione.

L’Italia ha un forte ritardo e avrà carenza di qualificati ma anche necessità di lavoratori a basso profilo.

La questione della formazione non coincide più con la sola frequenza scolastica e i titoli tecnici e di laurea non sono più sufficienti e i Masters si moltiplicano a dismisura nel mondo.

La velocità dei cambiamenti specialistici richiesti dal capitalismo flessibile richiede una formazione e ri-qualificazione continua. Nell’Uomo flessibile, Richard Sennet aveva colto più di dieci anni fa “l’erosione della capacità dell’ingegnere rispetto ad un suo collega più giovane”. Il lavoratore a forte ed elevato contenuto di conoscenza, viene dunque costretto a adattarsi a questo percorso del capitalismo per garantirsi la sua competitività individuale. La flessibilità che gli viene richiesta investe la certezza del posto a tempo indeterminato.

Riferendoci alla comune distinzione tra grandi gruppi professionali composta da Dirigenti, Professioni intellettuali, scientifiche e elevata specializzazione, professioni tecniche, le professioni che vi appartengono, pur se da arricchire, rimangono alla testa del comando capitalistico.

Le imprese devono poter ancora contare su questi settori per garantire la continuità della catena produttiva di comando. Il numero va restringendosi rispetto al passato, ma può essere straordinariamente efficace in termini di consenso e coincidenza di obiettivi con i settori qualificati e tecnici grazie all’utilizzo di strumenti culturali e di vantaggi retributivi legati alla produttività e alla funzione di identificazione negli obiettivi. La fidelizzazione del lavoratore esiste sempre.

I manager super pagati e i relativi benefici e per il ruolo di comando, godono nei fatti di una certezza contrattuale anche con contratti a termine. La ricchezza guadagnata garantisce una esistenza tranquilla e ricca. Altrettanto si può dire per le maggiori professioni intellettuali e specialistiche che possono essere pi� spendibili sul mercato del lavoro.

Questa certezza viene a ridursi man mano che la specializzazione ha meno valore di mercato per la concorrenza. Questo è quanto sta accadendo per numero professioni qualificate e con grande esperienza che non basta più perchè la stessa professione subisce rapida impoverimento (obsolescenza) scientifico e in alcuni casi la routine delle mansioni la investe come conseguenza dell’introduzione di una nuova tecnologia. 

La precarietà uccide la conoscenza

La società dei knowledge workers non è proprio quel paradiso di conoscenze in cui tutti si arricchiscono di sapere. La divisione del lavoro tecnica si approfondisce ma si formalizzano i concetti, le procedure, e la tecnologia interviene nei processi. Siamo sicuri che il computer arricchisce o ci rende tutti semplicemente connessi e disponibili al lavoro?

Premesso che le rilevazioni statistiche e le indagini non ci danno con esattezza i processi occupazionali per la velocità con cui stanno avvenendo. In particolare con una crisi economica come quella che stiamo vivendo.

Il sistema informatico Excelsior del Ministero del Lavoro (vedi il rapporto sui Contratti non standard) mostra serie storiche dal 2003 al 2008 dove il dal 40 al 44% delle imprese è ricorsa a lavoratori a progetto, a tempo determinato, apprendisti.

In riferimento alle assunzioni al solo tempo determinato per tutto il 2009 si ipotizzava un utilizzo fino al 33,6% di giovani sotto i 29 anni. Di utilizzo di qualifiche tecniche pari al 15% del personale professionale, del 3% di quelle intellettuali e scientifiche.

La propensione all’utilizzo di lavoratori atipici di una impresa su due al Centro-Nord, con punte più alte nel Nord-Est.

Una indagine sulle imprese europee che risale alla primavera del 2009 ha rilevato come due imprese su tre ricorrano a collaboratori esterni e ad altre forme di lavoro a tempo e come metà delle stesse avevano un dipendente assunto a tempo determinato.

In Italia le partite Iva sono circa 8milioni e sono uno strumento di sostituzione largamente utilizzato per sostituire rapporti di lavoro costanti e qualificati come medici di strutture private, ricercatori, informatici.

Lo stesso Stato, con le esternalizzazioni concorre già da tempo a questo fenomeno. La trasformazione di enti pubblici in Spa è un ulteriore passaggio con cui lo Stato riduce il personale alle sue dipendenze e aumenta quello flessibile delle ditte appaltatrici delle commesse.

Diverse indagini mostrano da tempo che gli assunti con contratti di collaborazione svolgono professioni medio alte.

La perdita di posti di lavoro ad alta qualificazione non è attribuibile sic e simpliciter ai costi delle retribuzioni,(che fa costare un ingegnere o un ricercatore indiano o cinese molto meno di un europeo ), al contrario secondo i dati di alcune ricerche, i laureati italiani guadagnano molto meno dei loro omologhi esteri. L’Eurispes rileva nel suo Rapporto 2010 che gli stipendi medi lordi annui per i laureati sono più bassi di quelli pagati in Germania, Francia per esempio.

L’emigrazione del capitale umano intellettuale, i cosiddetti “cervelli” è condizionato dall’offerta implementata dallo sviluppo della ricerca scientifica e degli investimenti che i vari paesi con le varie multinazionali mettono in campo.

Attribuire alla competizione internazionale la caduta occupazionale a cui stiamo assistendo della parte alta del mondo del lavoro, è una spiegazione parziale che non coglie le modifiche organizzative del modello produttivo flessibile che si sta imponendo. E’ chiaro che se non si fanno profitti l’azienda non regge la competizione e che il costo del lavoro ha il suo peso, ma questo non è sufficiente. Quello che pesa di più per le imprese è la flessibilità. Tra gli effetti della flessibilità c’è lo stesso contenimento del salario.

Questi lavoratori sono anch’essi costretti, come quelli subalterni e dequalificati, a passare da una rapporto di tempo di lavoro indeterminato a quello determinato nelle sue varie forme

Devono avere anch’essi un contratto individuale a prestazione e non un contratto collettivo per attività lavorative come vale per la ricerca o la prestazione ospedaliera o d’insegnamento. Devono subire l’allungamento del tempo di lavoro cosa che per un rapporto a tempo indeterminato non si poneva. Devono subire la concorrenza di un numero accresciuto di lavoratori altrettanto qualificati o ancora di più qualificati e aggiornati. Devono muoversi in orizzontale tra i vari nodi che costituiscono l’impresa a rete. Fisicamente nella sede dell’azienda o lavorando da studio-casa in collegamento via web.

La loro retribuzione tuttavia è quella che consegue dalla loro condizione alta o medio altra tra le professioni.

La Grande Crisi ci sta presentando, con l’accelerazione che imprime ai cambiamenti produttivi, la tendenza in atto.

La flessibilità è decisiva per il processo produttivo e i lavoratori appartenenti alla stessa fascia di classe, siano essi a tempo indeterminato e determinato si somigliano sempre di più anche in termini di reddito.

La flessibilizzazione delle professioni medio alte, in termini di cambiamento di posto di lavoro, di contratto individuale, di concorrenza reciproca e di prezzo della propria prestazione professionale e conoscenze, creano per la prima volta in questa ambito della composizione tecnica di classe un mercato di massa. E’ probabilmente un relativo esercito di riserva dove cadono quei lavoratori le cui professioni si svalutano con estrema rapidità o che non riescono a fare il salto superiore come tanti giovani laureati.

Questo segmento di classe è soggetto a rischi sempre possibili o che non credeva di dover correre. Viene disciolto e ricomposto nella rete produttiva flessibile.

A scanso di equivoci, aggiungiamo che la parte più bassa della composizione di classe identificabile più o meno con i tre quarti del mondo del lavoro, vive e subirà un trattamento ben peggiore di quello riservato a quella “medio alta della società”. Ma la distruzione di capitale umano che sta avvenendo anche nei settori ad alto valore aggiunto indica più emblematicamente di altre la tendenza distruttiva del capitalismo nel tempo della crisi.

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