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Un conflitto senza regole

UN CONFLITTO SENZA REGOLE
Gaetano Azzariti

La decisione del capo dello Stato di sollevare conflitto di attribuzione contro la procura di Palermo è un fatto non solo eccezionale, ma dimostra anche il deterioramento cui sono giunti i rapporti tra le istituzioni repubblicane. Una situazione da non sottovalutare, perché rischia di erodere il sistema democratico.
L’unico precedente rilevante che può essere richiamato è quello che vide il presidente Ciampi sollevare conflitto contro il ministro di giustizia Castelli, al fine di far dichiarare alla Corte a chi spettasse il potere di concedere la grazia; un conflitto drammatico, ma in fondo circoscritto a una questione limitata. Ora invece sono investiti, da un lato, il potere dei giudici e l’estensione dei loro strumenti d’indagine, dall’altro, le prerogative costituzionali del presidente della Repubblica. Ciò che viene chiesto al giudice costituzionale è, dunque, di ridisegnare nientemeno che la forma di governo nei suoi rapporti tra l’istituzione giudiziaria e quella presidenziale.
È probabile che a questo punto della vicenda Napolitano non potesse fare altro, giusto il richiamo a Luigi Einaudi nel comunicato del Quirinale sui doveri del Presidente che deve «evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la costituzione gli attribuisce». Ma la domanda che ci dobbiamo porre è come s’è potuti giungere a un conflitto di tale ampiezza, natura e drammaticità.
Nel merito la questione è assai delicata, ma è anche da tempo conosciuta sia nei suoi profili d’ordine processuale sia per i suoi particolari aspetti costituzionali. La controversa vicenda delle intercettazioni è da sempre sul tavolo della politica, ma il parlamento non riesce ad approvare una legge che meglio definisca questo strumento fondamentale per permettere ai giudici l’accertamento della verità processuale.
La questione poi delle cosiddette “intercettazioni indirette” (quelle che riguardano gli interlocutori degli indagati), nei casi in cui la conversazione registrata non risulti rilevante ai fini per perseguimento dei reati, è stata sollevata più volte senza che si riuscisse a giungere a una soddisfacente soluzione. Il tema richiederebbe regole particolari e costituzionalmente compatibili, tuttavia non è stata mai affrontata da nessun governo e il parlamento latita. Incapaci di definire una politica giudiziaria che sia ancor più incisiva, anche in materia di intercettazioni (si pensi ai limiti per le intercettazioni ambientali, ad esempio), ma rispettosa al tempo stesso dei diritti delle persone coinvolte nelle indagini. In questa situazione i magistrati hanno interpretato, com’era loro d’obbligo, le norme vigenti sulle intercettazioni; e non può stupire che le abbiano intese nei termini più estesi. Certamente la ragione di fondo è stata quella di ampliare per quanto possibile il potere d’indagine al buon fine di perseguire la verità processuale (per i magistrati un dovere istituzionale). Rimessa però la regolamentazione della delicata materia al giudice-interprete, si è rinunciato a dare voce alle altre ragioni oltre a quelle d’indagine processuale. Le ragioni a garanzia delle parti non indagate, in primo luogo.
La vicenda, com’è noto, si è andata incancrenendo, passando da uno scandalo a un altro: ora invocando la gogna per chiunque fosse intercettato, pur se le conversazioni non mostravano alcun rilievo penale; ora gridando contro i giudici violentatori della privacy, che utilizzando un legittimo strumento d’indagine operando al servizio della legalità.
Il vero scandalo è allora quello di una politica assente che non si sa assumere le proprie responsabilità, dettando regole nelle questioni controverse. E quella delle intercettazioni indirette è certamente fra queste. La mia impressione è che si sia finito in tal modo per sacrificare tanto il potere dei giudici quanto i diritti dei cittadini nel processo, a favore di una sconsiderata politica di difesa dal processo che ha favorito solo i più scaltri.
La vicenda ha però assunto nel caso di Napolitano una piega del tutto particolare. Infatti, al capo dello Stato la Costituzione assicura un’immunità rafforzata (l’irresponsabilità funzionale di cui all’art. 90, oltre che la legge 219 del 1989), salvaguardando la sua autonomia in funzione di garanzia dell’unità nazionale (art. 87). Egli, inoltre, partecipa con funzioni di mediazione, a tutti i poteri dello Stato, compreso il potere della magistratura presiedendo l’organo di autogoverno (art. 104). Se c’era un caso ove il necessario potere d’interpretazione delle legge da parte dei giudici doveva essere inteso nei termini più ristretti a salvaguardia del ruolo dell’istituzioni e della stabilità del sistema dei poteri nel suo complesso questo era quello all’esame della procura di Palermo. Tanto più se – come esplicitamente dichiarano i magistrati siciliani – le intercettazioni svolte (e diffuse dalla stampa) «non appaiono rilevanti per le indagini».
Era inevitabile che, a questo punto, ci fosse una reazione. Ciò che lascia sconcertati, e deve far riflettere, è che ancora una volta, in assenza di partiti politici in grado di assumersi le proprie responsabilità e di un parlamento che riesca a decidere come regolare i conflitti, debbano essere i garanti costituzionali (presidente della Repubblica e Corte costituzionale) che, in via di supplenza, sollevano la questione e daranno la soluzione politica di quali sono i limiti delle intercettazioni. È evidente che così procedendo c’è il rischio di rinfocolare la mai sopita tensione tra politica e magistratura. C’è allora da auspicare che il capo dello Stato dopo aver sollevato il conflitto con il potere giudiziario si rivolga anche agli altri poteri, nella sua funzione di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per ricordare le ragioni della giurisdizione. Sarebbe questo un gesto di ri-equilibrio opportuno.

da “il manifesto”

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