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Keynes, il liberale che voleva salvare il capitalismo e la supremazia inglese

Un’eccellente ricostruzione storica e teorica di Gabriele Pstrello, apparsa in due puntate successive su “il manifesto”. E che ricostruisce la lunga battaglia politica e teorica per migliorare il funzionamento del capitalismo e mantenere la supremazia britannica. Con l’effetto quasi involontario di suggerire un sistema che permetteva anche ai lavoratori di accedere a livelli superiori di benessere

Keynes, un impolitico molto politico

Accadono raramente simili coincidenze. Negli anni Trenta, si verificarono insieme catastrofe pratica, la crisi del ’29, e rivoluzione teorica. Senza questa coincidenza la catastrofe economica sarebbe stata prima digerita, e poi rimossa. Senza il ’29 Keynes non sarebbe diventato Keynes. E le conseguenze della Grande Depressione sarebbero state molto diverse senza di lui.
I consigli di tutti gli economisti del tempo erano: aspettare, aspettare ed ancora aspettare. La depressione, come tutte le altre prima, sarebbe passata. Il sistema si sarebbe «purificato» dalle imprese inefficienti; i salari sarebbero stati tagliati, secondo i consigli dei teorici ed i desideri dei pratici. Keynes, invece, nel 1930 e ’31, al Macmillan Committee e all’Harris Foundation, metteva in guardia da quest’impostazione. Non fu ascoltato subito. Ma il segno rimase, e preparò la svolta del 1936, la Teoria Generale.
Senza di lui, anche un politico lungimirante come Roosevelt difficilmente avrebbe potuto muoversi contro l’opinione di una professione economica compattamente ortodossa. Quantomeno per alcuni anni dopo il ’29, o magari parecchi, senza Keynes le cose probabilmente sarebbero andate come delineato sopra, per il banale motivo che economisti e politici sarebbero stati magnificamente d’accordo nel farle andare così; come possiamo vedere anche oggi.
Ma chi era Keynes? Tutti lo conoscono come economista. Eppure la sua teoria ebbe un grande impatto politico. Fu per caso? O il Keynes politico è, per così dire, il substrato, la premessa dell’economista? Si può capire l’economista senza affrontare il politico? Chi scrive pensa, ovviamente, di no.

Grandi Promesse
John Maynard Keynes era un predestinato il cui destino finisce col cambiare.
Chiunque abbia avuto tra le mani una relazione su di un allievo di public school, Eton o Harrow, o di università, Cambridge od Oxford, quantomeno fino alla seconda guerra mondiale, vede bene che compito di quel sistema educativo fosse di capire subito, fin dagli incerti inizi, le potenzialità, i pregi e i difetti di quegli alunni, peraltro pochi, destinati, per estrazione e per le scuole che frequentavano, a diventare futura classe dirigente. Naturalmente, nulla era scontato; ci sarebbero state prove da superare, capacità da sviluppare e confermare, non tutti ce l’avrebbero fatta. Ma se qualcuno, in quegli anni, era leader a Eton o Harrow, era in grado di imporsi, farsi rispettare, con la pura forza della personalità, dai rampolli dell’aristocrazia del sangue e del denaro britannici, campioni di self-confidence e arroganza, ed era candidato naturale a diventarlo, anche dopo, a Westminster. Keynes era stato uno di quelli. Tuttavia, nonostante le sue, indubbie e riconosciute, capacità di leadership, la sua carriera politica non realizzò le aspettative.
Autore di un saggio giovanile su Burke – il campione anti-giacobino britannico durante la Rivoluzione Francese – Keynes iniziò la carriera politica nell’entourage di Lord Asquith, capo dell’ala moderata del partito liberale, che stava conducendo una lunga faida politica con Lloyd George, rappresentante dell’ala riformatrice. Già verso la fine dell’Ottocento, grazie a riforme elettorali, erano stati integrati nelle istituzioni ampi strati sociali. Da questo ampliamento era venuto anche consenso per l’Impero. Ma la linea «riformatrice liberale» aveva creato tensioni, come testimoniano i celebri e combattuti bilanci di Lloyd George come Cancelliere dello Scacchiere: quello del 1909, detto il People’s Budget, e quello del 1911, che inaugurarono il welfare in Inghilterra nel ‘900. Il conflitto, ripetuto durante la Grande Guerra, tra queste due ali, porterà più tardi al crollo del partito liberale e al bipartitismo moderno.
Sotto la protezione degli Asquith, Keynes diventerà capo-redattore, insieme all’amico Hubert Henderson, del New Stateman and Athaeneum, la rivista politico-culturale del partito liberale. Non sarebbe stato facile immaginare, agli inizi, che la sua carriera politica non avrebbe avuto seguito. Eppure, esistono eventi che in qualche modo fanno deragliare da percorsi, se non proprio progettati, quantomeno predisposti dalle circostanze. Ce ne sono due nella carriera politica di Keynes: l’esame di ammissione al Civil Service nel 1906 e la Conferenza di pace di Versailles nel 1919.

Da Londra a Versailles
Uno scacco per Keynes: il secondo posto all’esame per il Civil Service, nel 1906, dopo gli studi a Cambridge. Il primo posto avrebbe aperto la carriera al Tesoro, che portava, naturalmente, a contatto con l’alta dirigenza politico-amministrativa, gli uffici del Cancelliere dello Scacchiere, e ai vertici della discussione politica. Lo si vide nel 1930 quando Ralph Hawtrey, un suo vecchio amico, contribuì a elaborare la cosiddetta Treasury View, che confutava un progetto di lavori pubblici lanciato da Lloyd George nella campagna elettorale, e sostenuto da Keynes in un pamphlet dove troviamo la prima formulazione di una teoria, i cui sviluppi sarebbero stati resi famosi dalla Teoria Generale: il moltiplicatore. Un posto simile era molto attraente per Keynes. Da lì, era pensabile, grazie alle sue aderenze politiche, un salto dentro la politica ad alti livelli.
Il secondo posto gli valse, invece, l’India Office che, però, non offriva le stesse possibilità. Da quell’esperienza Keynes trasse, tuttavia, un frutto importante: il libro India Currency and Finance. Keynes vi sottopose a critica il sistema monetario internazionale, il gold standard, dal funzionamento ritenuto automatico, incarnazione economica perfetta del credo politico liberale sull’assoluta autonomia del mercato. Secondo Keynes, invece, lungi dall’esser automatico, il sistema funzionava grazie ad un regolatore centrale dissimulato: la Banca d’Inghilterra. L’automatismo apparente si rivela discrezionale. Il mercato non funziona senza perni istituzionali. La decisione come deus absconditus del mercato. L’eresia fa capolino. Forse, inconscia.
Alla fine tornò a Cambridge, nel 1909, chiamato dal maestro Alfred Marshall, il padre dell’economia politica dell’epoca, a insegnare economia monetaria. Ma si trattava, allora, solo di una ripartenza; Keynes non fu mai personaggio di «secondo piano». Appena trentenne, allo scoppio della guerra, fu membro di una delegazione per discutere di finanza con gli Alleati, composta solo dal Primo Ministro, dal Governatore della Banca d’Inghilterra e da lui. Poi, alla fine, fu esperto economico della delegazione inglese alla Conferenza di Pace di Versailles, nel 1919. Ma non gli portò fortuna.
Le conseguenze economiche della pace fu scritto di getto nel 1919 dopo la Conferenza di Versailles, contro gli esiti vessatori del Trattato, la «pace cartaginese» nei confronti della Germania sconfitta. Le cifre sulla situazioni economica della Germania, che Keynes usò per argomentare l’eccessiva pesantezza delle riparazioni, non sono essenziali. Non è quello il cuore dell’argomento, bensì il cambiamento dei rapporti politici dopo la Grande Guerra, dentro i paesi, e tra paesi. Cuore politico di meccanismi economici.
Keynes sentiva che qualcosa era cambiato nel rapporto tra governanti e governati. Lo espresse in quel passaggio delle Conseguenze in cui dichiarava chiusa l’epoca del «doppio inganno», per cui una parte ristretta della società poteva legittimare l’appropriazione della parte maggiore del prodotto con le necessità dell’accumulazione a patto di non consumarla essa stessa; facendo così accettare l’ineguaglianza all’altra parte. Il liberalismo inglese riformatore, da Gladstone a Lloyd George, non bastava più.
In questo quadro, l’intenzione delle potenze vincitrici di mettere in ginocchio la Germania era giudicata da Keynes politicamente pericolosa. Chi avrebbe dovuto sopportare l’onere? L’avrebbe accettato? Il pagamento avrebbe creato disordine nel meccanismo economico globale, come fu? Secondo lui, le conseguenze economiche di quelle riparazioni sarebbero state talmente insostenibili da mettere in discussione l’ordine politico in Germania e in Europa. Keynes temeva la «guerra civile tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione». La Rivoluzione d’Ottobre era una minaccia per lui come per gli altri, ma la ricetta era diversa. Alla fine un sovvertimento ci fu, il nazismo, di portata e tipo inattesi da tutti, Keynes compreso; ma il punto di partenza del processo fu l’insostenibilità delle condizioni di pace. L’idealista Keynes era stato più realista dei politici rusé di Versailles.
L’ordine economico e politico era stato mandato in frantumi dalla Grande Guerra. Ma nei gruppi dirigenti non vi era questa consapevolezza. Piuttosto si pensava che bastasse in qualche modo restaurare nelle società comportamenti pre-bellici, per ritornare alla situazione precedente. Tutti, in tuba e stiffelius, ad agognare il ritorno a Itaca, il mondo pre-1914. Lui, trentenne, l’aveva visto affondare, e aveva intravisto i lampi di una nuovissima, ed incompresa, tempesta.

2. Il serpente cambia pelle, Keynes liberale non ortodosso

Il successo si paga, si dice. Le ripercussioni sulla carriera politica di Keynes del successo mondiale del libro che attaccava la pace di Versailles, Le conseguenze economiche della pace, sono controverse. Secondo Harrod, il suo primo biografo ufficiale, si trattò di una messa al bando, da cui si riprese solo, quantomeno, dieci anni dopo. Secondo Skidelsky, autore di una sua recente monumentale biografia, si trattò solo di un passeggero cono d’ombra. Da quel momento, comunque, Keynes divenne esperto nell’arte di influenzare la politica a «distanza di braccio» preferendo, come diceva, farsi rubare le idee.
Ma bisognò attraversare gli anni Venti perché, come disse Keynes di se stesso, «il serpente cambiasse pelle». Alla fine, dopo una lunga crisi il partito liberale, nel 1931, si divise in tre spezzoni. Nacque il bipartitismo moderno: Labour e Tory, lasciando Keynes senza alcun partito di riferimento. Non era laburista, né avrebbe mai potuto esserlo. Ciò che, peraltro, impedì sempre a Keynes, partendo dalla moderazione politica della gioventù, di approdare ad un soddisfatto conservatorismo della maturità, fu sempre l’intelligenza mobilissima, negazione vivente di self-complacent pigrizia intellettuale, che lo impegnò fin da giovane a rafforzare, come lui stesso disse, le mura traballanti della fortezza in cui era nato. Ma che, rigettando parti sempre più ampie di ortodossia, lo portò ad una rivoluzione teorica che, per la prima volta nella storia dell’economia politica, sovvertiva il segno politico fin lì implicitamente sotteso alla teoria.

Inizia la scissione
Gli anni Venti si aprirono e si chiusero con due eventi che sono rimasti nell’immaginario mondiale. Si può dire che la posizione assunta nei loro confronti allora e, ancora oggi, la scelta di uno dei due come, per così dire, mito fondativo delle proprie scelte economiche definisce posizioni politiche contrapposte. Si tratta dell’iperinflazione tedesca del periodo 1921-23, e della Grande Depressione seguita al crack dell’autunno 1929.
Da allora a oggi, la posizione liberale nei confronti dell’iperinflazione tedesca è quella esposta all’epoca classicamente dall’italiano Bresciani Turroni, che «solo l’incessante aumento nell’emissione di moneta legale… rese possibile l’incessante crescita dei prezzi». Quindi, solo l’arresto dell’emissione monetaria da parte del Governo avrebbe potuto arrestare l’inflazione. Keynes, invece, sostenne nel novembre 1922 che: «la svalutazione della moneta tedesca…non si può curare solo con la riduzione di M» (la quantità di moneta in circolazione). Nel suo libro di poco posteriore, la Riforma monetaria del 1923, radicalizzando l’analisi monetaria del suo maestro Marshall, trattò l’iperinflazione tedesca come il risultato del gioco tra azione del Governo e scelte degli agenti. La differenza non era solo di «teoria» economica, ma politica: per Keynes non c’era un solo colpevole, lo Stato.
Inoltre, per Keynes non era solo l’inflazione a costituire un, o meglio, il pericolo per l’economia; anche la «deflazione», la caduta dei prezzi, con il suo corollario di caduta dell’attività economica e disoccupazione, doveva essere considerata un problema di gravità quantomeno eguale a quella dell’inflazione. Per tutti gli altri non lo era. Su questa base attaccò il governo Churchill per il ritorno alla parità dei cambi pre-bellica; il titolo del pamphlet è eloquente: Le conseguenze economiche di Mr. Churchill. Il punto di partenza era sempre lo stesso: le Conseguenze politiche della guerra.
Dopo il 1923, elaborò tra mille incertezze, e pubblicò solo nel dicembre «30, il suo primo grande testo di teoria monetaria, il Trattato della moneta. Tra l’inizio e la fine del lavoro, il grande boom americano degli anni Venti, imploso nell’autunno 1929. Questo evento incise profondamente su di lui: ne riscrisse le parti teoriche ma, soprattutto, gli fece afferrare quella che da allora sarà un’idea fondamentale, di grande momento teorico e politico: che un sistema economico può allontanarsi dall’equilibrio, e la caduta del reddito e dell’occupazione arrivare a livelli catastrofici, senza che vi siano forze che ve lo riportino, secondo il dogma ortodosso. Qui lo Stato diventa la soluzione, e il mercato il problema. Armato di questa teoria entrò nella discussione sullo slump. Ma la teoria era ancora troppo confusa; troppi elementi passati la appesantivano, e il punto centrale non era affrontato con chiarezza. Le discussioni pubbliche furono inefficaci mentre, in privato, giovani brillanti economisti di Cambridge, Piero Sraffa, Joan Robinson e Richard Kahn ne contestavano le debolezze teoriche. Il Trattato si era rivelato un Glorioso Fallimento. Il serpente aveva «cambiato pelle»; ma senza convincere.

Farewell liberismo
Fu solo la raggiunta maturità nella teoria economica, la Teoria generale del 1936, e il suo successo, a provocare lo strappo finale tra Keynes e il tradizionale liberalismo inglese, politico ed economico. La Teoria generale demoliva due pilastri del liberalismo economico: primo, che il mercato, lasciato a se stesso, sia in grado di raggiungere sempre il pieno impiego dei mezzi di produzione e della forza-lavoro; secondo, che il risparmio sia una virtù – e l’interesse il suo premio. Ambedue dogmi, dopo Adam Smith. Per lui, invece, l’interesse era solo l’incentivo a cedere moneta per chi la deteneva.
Il suo amico di sempre, compagno delle battaglie politiche liberali, Hubert Henderson, non accettò mai l’idea che il comportamento dei mercati finanziari potesse frenare l’investimento e la crescita. I suoi due amici economisti, Ralph Hawtrey, del Tesoro, e Dennis Holmes Robertson, pur eterodossi prima di lui, non accettarono l’analisi né, tantomeno, la sua conseguenza, cioè la necessità di un intervento dello Stato per sostenere l’occupazione. Nelle discussioni che seguirono, si vede bene che Keynes, convinto di aver afferrato il nucleo più profondo del funzionamento dell’economia capitalistica, non si rese conto appieno dello strappo politico, seppure implicito, che la Teoria Generale aveva provocato. Forse lo sottovalutò; o forse pensò, sottacendolo, di poterlo aggirare, come suo solito, con la persuasione.
Radicale nella teoria economica, ma non socialista. Il rapporto con i laburisti non fu mai facile. La proposta di Keynes, alla vigilia della seconda guerra mondiale, di congelare parte dei salari per frenare l’inflazione bellica da eccesso di domanda, per poi pagarla alla fine della guerra, per ovviare alla caduta della domanda di guerra, non era irragionevole. Stavolta, però, Keynes non aveva colto l’incipiente cambiamento dei rapporti di forza nella società inglese. Per combattere il nazismo era necessario un compromesso con Labour e sindacati. I lavoratori non volevano essere i soli sacrificati nello sforzo bellico, come durante la prima guerra mondiale; esigevano che esso ricadesse su tutta la popolazione. Contro la proposta di Keynes chiesero, ed ottennero, il razionamento.
Ma l’ortodosso era cresciuto radicale per volontà di capire, per approntare i mezzi per superare la crisi. Quella rivoluzione teorica trovò una sponda in una coraggiosa riforma politica, dall’altra parte dell’Atlantico. Congiuntamente, Keynes e Roosevelt cambieranno il mezzo secolo a venire. Era nato al centro del centro del potere economico e politico mondiale; non credeva che la sua caduta fosse all’ordine del giorno. Già prima, e più che mai dopo il 1929, pensava che il capitalismo, più che dai suoi nemici, andasse difeso soprattutto dai suoi amici.

Un mondo affonda
Al giovane Keynes, esteta intellettualmente dissacratore, e politicamente moderato, segue l’ultimo Keynes, Lord di Tilton, membro della Court of Directors della Banca d’Inghilterra, appagato di essere riconosciuto da quel suo establishment, di cui disprezzava i limiti intellettuali, come li può disprezzare uno che si sente nato per guidarli, perché sono troppo stupidi per capire. In mezzo, una vita di fuga dall’ortodossia.
Il paradosso finale del Keynes politico fu che la sua teoria sarebbe stata l’ossatura del compromesso politico-economico centrato sui laburisti che assicurerà, nel dopo-guerra, trent’anni di crescita mai sperimentata prima ed un miglioramento nel livello di vita di ampie masse popolari mai visto in precedenza. Ma è dubbio che lui, Keynes, fosse pronto ad accettarle alla pari come partner della decisione politica.
Keynes sapeva bene che il mondo della sua formazione era scomparso. Tutta la sua riflessione economico-politica, e l’opposizione che incontrò, derivava da questa sua lucida consapevolezza. Però, anche se la sua Britannia, che governava le onde, era scomparsa, lui continuava ad abitarvi spiritualmente. Per traghettarla nei tempi nuovi, Keynes si sottopose ad uno sforzo che ne minò la già fragile costituzione. Robert Skidelsky ha narrato nel terzo volume della biografia di Keynes la sua battaglia epica, e perdente, a Bretton Woods nel 1944 (la Conferenza che fissò le regole del sistema monetario internazionale che durò fino al 1971), contro l’irremovibile determinazione americana di sostituire l’Inghilterra nell’egemonia mondiale, anche mettendola economicamente a terra in modo brutale; il gold standard era tramontato nel 1931, suonava l’ora del dollar standard.
C’è una coincidenza astrale tra la fine di quell’Inghilterra e la sua morte, che seguì di poco, nel 1946. Quell’Inghilterra e Keynes si appartenevano, e insieme scomparvero.

* Questo articolo è una versione ridotta del saggio apparso su Dossier di Progetto Lavoro – Attualità di Keynes, con il titolo “Keynes politico: il diavolo e l’acqua santa”.

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