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Sabra e Shatila, oltre la solitudine

Anche il degrado dei luoghi ha un peso. I cumuli di rifiuti nascondono esistenze e drammi, i vicoli stretti e bui allontanano persino i più curiosi. Un campo profughi palestinese è così e tanti in Libano li evitano, fingono di non vederli più. Nulla però potrà nascondere e annullare la memoria di tremila uomini, donne e bambini, massacrati trent’anni fa a Sabra e Shatila. Quei volti rimarranno scolpiti nella storia se la scrittura, come avvenne la prima volta con il grande scrittore Jean Genet, ne testimonia l’orrore. E domenica a scriverne, sulle pagine del Corriere della Sera, è stato anche un giovane autore importante come Paolo Giordano, che non era ancora nato quando i fucili e i coltelli dei massacratori fecero strage di palestinesi innocenti. Ma che nel testo trasmette la sensibilità di chi non è mai rimasto indifferente al disastro dei palestinesi.

Peccato che Giordano non abbia avuto modo di vedere, forse perché indirizzato male nella sua perlustrazione, il memoriale fatto costruire, tra mille contrarietà, dall’inviato del «manifesto» Stefano Chiarini e dal Comitato italiano per non dimenticare Sabra e Shatila. «Il solo luogo di memoria si trova in un garage, dietro un portone chiuso con un lucchetto», ha scritto. Non è così, per fortuna.

È un peccato anche che il significativo racconto di Giordano sia accompagnato da un’intervista allo studioso Eyal Zisser che non aggiunge alcun novità sulle responsabilità di quel massacro. Zisser ribadisce una ben nota versione israeliana: «Il massacro, prima di tutto, ebbe luogo a opera della Falange cristiana. Poi c’è il livello di chi avrebbe dovuto sapere», dice alleggerendo le responsabilità di Ariel Sharon a quel tempo ministro della difesa di Israele e «mente» dell’offensiva “Pace in Galilea” in Libano.

Più di tutto Zisser tace su di un punto centrale: spettava alla giustizia internazionale e non a quella israeliana accertare le responsabilità che vanno ben oltre l’esecuzione materiale del crimine.

Ariel Sharon e i suoi comandanti militari dovevano spiegare perché diedero il via libera all’ingresso nel campo palestinese di belve assetate di sangue e perché non fermarono il massacro che andò avanti per due giorni (le «40 ore» che titolano il reportage di Giordano). Sharon fu sottoposto al giudizio di una commissione d’inchiesta interna. Tenuto lontano per qualche anno dall’esecutivo, è poi tornato a dominare la scena politica. Non pochi governi occidentali accogliendolo con il tappeto rosso, lo hanno proclamato «uomo di pace» dopo il ritiro di coloni e soldati israeliani da Gaza. Ai profughi palestinesi abbandonati al loro destino è rimasto solo l’impegno di chi non vuole dimenticare. A cominciare dalla scrittura. Per fortuna non è poco.
* Nena News

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