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Europa, il futuro si decide a porte chiuse

Da un summit sulla crisi dell’euro all’altro, il Consiglio europeo si convoca ormai sulle prime pagine dei media. Eppure – al di là del balletto di auto blu e della routine delle conferenze stampa –, dei dibattiti che si svolgono nelle sale ovattate dove si riuniscono i ventisette capi di stato e di governo non sappiamo quasi niente. Solo a pochi iniziati è permesso accedervi.

Dal maggio 1995, il luogo che accoglie le riunioni dei capi di stato e di governo è un imponente edificio dedicato a Justus Lipsius, filologo e umanista del XVI secolo, che a Bruxelles compì i suoi studi. Collocato accanto al rond-point Robert-Schuman e di fronte alla sede storica della Commissione europea, il Justus Lipsius ospita sia i vertici del Consiglio dell’Unione europea che quelli del Consiglio europeo (si veda il riquadro). In occasione di ciascuna riunione del Consiglio europeo, per entrare i capi di stato e di governo attraversano una sorta di molo di attracco «per scarico rapido» posto sul retro, che, destinato ufficialmente ad agevolare la girandola delle auto blu, assomiglia in realtà più ad una porta segreta.

Una volta giunti nella sala di riunio ne 50.1, i ventisette vengono accolti dal presidente permanente del Consiglio (1), l’ex primo ministro belga Herman Van Rompuy. All’arrivo presenzia anche il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, mentre i rappresentanti permanenti dei paesi – gli «ambasciatori» a Bruxelles – sono autorizzati a prendere posto dietro. In occasione di queste riunioni al vertice degli uomini e delle donne più potenti del continente, vengono spente anche le videocamere sul soffitto che normalmente servono a registrare le sedute legislative del Consiglio dell’Unione europea (più conosciuto sotto il nome di consiglio dei ministri). Le decisioni sull’avvenire degli europei si prendono dunque a porte chiuse. Niente di meno strano, assicurano gli ammiratori dell’architettura istituzionale europea. Del resto, se i consigli dei ministri riuniti intorno al presidente all’Eliseo non vengono mandati in onda come se fossero trasmissioni di tv verità, perché mai a Bruxelles dovrebbe andare diversamente?

Il diritto umano al rigore di bilancio

C’è però una differenza significativa. Tutti i protagonisti delle riunioni del mercoledì mattina all’Eliseo sono responsabili davanti ai cittadini che dovranno subire le loro decisioni o che al contrario ne beneficeranno. E anche se questa responsabilità viene fatta poco valere, essi sono comunque dotati della legittimità conferitagli dall’approvazione del parlamento nazionale. Al Consiglio europeo invece non succede niente del genere. Non è dato sapere se il tal dirigente abbia difeso le posizioni che dichiara di difendere, se abbia ottenuto vantaggi negoziali o se si sia piegato dinanzi ai venti sfavorevoli. Impossibile imporgli alcun rendiconto. Per cercare di sapere che cosa si sia detto nel corso di queste riunioni, si può assistere alle conferenze stampa organizzate all’uscita. A ciascun partecipante la propria. Il problema è che i media nazionali non hanno i mezzi, né probabilmente la volontà, di ricostruire ciò che è accaduto mettendo a confronto le diverse dichiarazioni dei capi di stato e di governo. Altrimenti, i giornalisti vi troverebbero un’ulteriore illustrazione della «relatività delle testimonianze umane», soprattutto da parte dei protagonisti che abbiano interesse ad attribuirsi la parte del leone.

La pubblicità non è la stessa cosa della trasparenza. Si potrebbero anche passare in rassegna i comunicati stampa comuni, ma essi riportano solo delle verità ufficiali, che non sono delle piene verità.

Installare delle cimici potrebbe essere un’altra soluzione ancora. Per la cronaca, alcuni sistemi di ascolto clandestino, collegati a delle cabine di traduzione, furono effettivamente scoperti nelle stanze in cui riunisce il Consiglio nel 2003. Al termine di un’indagine del servizio di sicurezza – belga, i sospetti ricaddero su un covo di spie israeliane, facendo planare sulla vicenda l’ombra del Mossad. L’episodio fu archiviato senza conseguenze e senza troppo clamore.

Non resta dunque che una sola possibilità: le note Antici. Chiamate così dal nome di un diplomatico italiano, Paolo Antici (1924-2003), tali memorandum sono resoconti dattiloscritti, senza intestazione, che offrono la riproduzione quasi perfetta delle conversazioni tra i dirigenti europei impegnati nei vertici. Un funzionario del segretariato generale del Consiglio, definito debriefer, fa avanti e indietro tra la sala 50.1 e una stanza attigua, dove detta a dei diplomatici nazionali che cosa viene detto dai partecipanti.

Le note Antici non vengono divulgate. Quelle redatte nel 2010 e nel 2011, che ci siamo procurati, permettono di conoscere il panico dei responsabili dell’Ue di fronte alla tempesta finanziaria e di cogliere le loro intenzioni politiche. In apertura della riunione del Consiglio europeo del 16 settembre 2010, Van Rompuy si compiaceva del «risultato convincente» delle misure adottate e del rilancio della crescita. Due anni più tardi, le sue parole suonano piuttosto imprudenti. La crisi del debito sovrano non ha cessato di affliggere il continente europeo.

Nel segreto dei Consigli, alcuni dirigenti hanno anche progettato di ricorrere a misure poco democratiche. Il 14 giugno 2010, il presidente francese Nicolas Sarkozy si associava all’idea avanzata da Angela Merkel di infliggere una sanzione ai paesi che non avevano rispettato il patto di stabilità e crescita (Psc) adottato dal Consiglio europeo ad Amsterdam nel giugno 1997: la punizione, che avrebbe assoggettato lo stato «inadempiente» a una sorta di protettorato esercitato dagli altri stati, avrebbe dovuto comportare la sospensione del suo diritto di voto al Consiglio dell’Unione europea.

In occasione della riunione del Consiglio europeo del 28 ottobre 2010, la cancelliera tedesca apriva le ostili tà con queste parole: «In situazioni molto gravi, l’articolo 7 del trattato riconosce la possibilità di ritirare il -diritto di voto». Si tratta in realtà di una disposizione che sanziona «una violazione grave e persistente» dei valori dell’Unione, relativa al rispetto della dignità umana, alla libertà, alla democrazia e all’uguaglianza. Niente a che vedere dunque con una sterzata in campo finanziario, distinzione che però lasciava insensibile la cancelliera tedesca: «Abbiamo accettato l’articolo 7 in materia di violazione dei diritti dell’uomo e dobbiamo dimostrare lo stesso grado di serietà di fronte alla questione dell’euro».

A contestare la posizione della coppia «Merkozy» era il presidente rumeno Traian Basescu («La situazione attuale non è assimilabile a un contesto di violazione dei diritti umani»), cui facevano eco Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo e il suo omologo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero. Proteste contro le quali Sarkozy difendeva subito la sua complice, con l’attenzione per le sfumature che lo ha sempre caratterizzato: «La sospensione del diritto di voto è nel trattato e dunque non è irragionevole».

Come dire che non è irragionevole applicare a un borseggiatore l’ergastolo per il solo fatto che la pena figura nel codice penale. Alla fine, a passare per un modello di saggezza politica sarà Bojko Borisov, un ex guardia del corpo del dirigente comunista Todor Jivkov, divenuto nel frattempo primo ministro del suo paese dopo averne guidato la squadra nazionale di karate: «Bisogna lavorare ad una soluzione, ma non a delle soluzioni umilianti come la sospensione del diritto di voto». Il comunicato finale non farà alcuna menzione di questo scambio di opinioni.

Il 24 marzo 2011, i dirigenti evocavano la messa a punto del meccanismo europeo di stabilità (Mes), destinato a sostituire il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf). Il Mes, che doveva mobilitare risorse per 700 miliardi di euro, era stato annunciato già cinque mesi prima, ma la sua attivazione stentava (2). «È fondamentale comunicare in maniera positiva su tutti questi temi ed evitare di suscitare dubbi sulla nostra determinazione», arringava Van Rompuy. Gli stati membri si differenziavano sul versamento di un capitale di 80 miliardi di euro. Il presidente dell’Eurogruppo, Juncker, li metteva in guardia: «Non è il caso di farne una commedia. Alla stampa ho presentato la faccenda come una questione minore». L’allora presidente della Banca centrale europea (Bce), Jean-Claude Trichet, ammetteva: «Siamo in grave ritardo (…). Capisco che dobbiamo comunicare in maniera positiva, ma tra noi, siamo onesti, abbiamo impiegato quindici mesi a mantenere le promesse fatte». Peccato che i cittadini europei non abbiano potuto beneficiare di questa franchezza.

«Cattivi segnali protezionisti»

Al di là della questione dell’euro, le note Antici consentono di acquisire la misura una forma di im- potenza pubblica. Il 29 ottobre 2010, il presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, rendeva partecipi i colleghi di preoccupazioni ben più serie dell’organizzazione delle sue cene eleganti, manifestando la propria inquietudine di fronte alle delocalizzazioni: «Ci sono uomini d’affari che dicono di non volersi stabilire in Europa, che se ne vanno in India, dove la gente parla inglese e guadagna poco, e dicono anche che la popolazione della Cina aumenta di venti milioni e -trecentomila persone ogni anno, mentre la popolazione attiva della Francia e della Gran Bretagna si compone di venti milioni e trecentomila persone in tutto (3)».

Quel giorno, Silvio Berlusconi si elevò al di sopra del suo personaggio caricaturale: «Le imprese fanno sempre più fatica a essere competitive. Bisogna fare qualcosa, pensare a delle soluzioni, sederci a un tavolo con i nostri esperti e valutare questi problemi da vicino. Un’azienda mi ha detto che attualmente dà lavoro a cinquecentomila persone in Europa e che avrebbe fatto scendere questa cifra a centocinquantamila».

Nonostante la gravità del tema, Van Rompuy sollevava subito un altro argomento di discussione. Il cancelliere socialdemocratico austriaco, Werner Faymann, tornava però alla carica domandando alla Commissione di fissare una lista di misure atte a ripristinare la competitività dei paesi europei. Barroso metteva allora in guardia: «Non dobbiamo lanciare cattivi messaggi protezionisti». Al che Sarkozy replicava secco: «Dobbiamo smetterla di comportarci da ingenui: dobbiamo essere un po’ più diretti con i nostri partner, e se i nostri partner non capiscono il bisogno di avere una reciprocità nelle relazioni commerciali, allora potremmo arrivare a una soluzione che preveda dei diritti doganali». Toccato sul vivo, Barroso ricordava quindi che la Commissione aveva raccomandato delle azioni anti- dumping contro la Cina e il Vietnam, e che però «era stato difficile convincere il Consiglio su queste decisioni», senza omettere tuttavia di ribadire «l’opposizione della Commissione al protezionismo».

Sentinella dei trattati europei, la Commissione veglia sull’applicazione delle tavole della legge liberoscambista e regola atti e gesti dei capi di stato e di governo. Una realtà che i responsabili politici nazionali preferiscono spesso occultare e che le note Antici consentono di ricordare.

(1) Il trattato di Lisbona ha istituito l’incarico di presidente permanente del Consiglio europeo. Eletto dai capi di stato e di governo per un mandato di due anni e mezzo rinnovabile, ha la funzione di guidare i lavori in collaborazione con la presidenza di turno assicurata ogni sei mesi da uno stato membro. Van Rompuy è stato eletto il 1° gennaio 2010.

(2) Si legga Raoul Marc Jennar, «Europa, due trattati per un colpo di stato», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2012.

(3) In realtà, la cifra sfiora i 60 miliardi.

(Traduzione di Fran. Bra.)

Due istituzioni diverse
Pur rasentando l’omonimia e pur riunendosi nello stesso luogo, il Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione europea sono due istituzioni diverse. Il famoso Consiglio europeo, le cui riunioni attraggono così tanto l’attenzione dei media, è stato informalmente costituito nel 1974, e consacrato successivamente nel trattato di Maastricht (1992) e in quello di Lisbona (2008), che ne ha fatto un’istituzione ufficiale. Tale consesso dei capi di stato e di governo «dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali». In breve, si tratta cioè di un’istanza decisionale, come il consiglio dei ministri in Francia.
Il Consiglio dell’Unione europea, più comunemente detto Consiglio dei ministri, raggruppa, come suggerito dal nome stesso, i ministri dei ventisette stati membri per area di competenza: affari esteri, economici e sociali, giustizia e affari interni… Collabora inoltre alla stesura dei testi legislativi proposti dalla Commissione e adottati, nella maggior parte dei casi, in codecisione con il Parlamento europeo.
Di regola, i dibattiti a carattere legislativo del Consiglio dei ministri devono essere di dominio pubblico. Delle telecamere dovrebbero ritrasmetterli in diretta, ma alcune difficoltà tecniche rendono talvolta problematico visionarli. In ogni caso, si tratta di discussioni frutto di negoziati preliminari che si svolgono al riparo dagli sguardi. Essi si svolgono nel quadro delle riunioni del Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper), che raccoglie gli «ambasciatori» dei paesi membri e i loro vice. I lavori dei rappresentati permanenti sono a loro volta preparati da comitati di alti funzionari e gruppi «tecnici», composti di «esperti» le cui nomine restano però talora avvolte nell’oscurità.

da Le Monde Diplomatique, settembre 2012

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