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La proprietà privata è inviolabile?

Proposta di riforma dell’art. 633 cod.pen.

La crisi del capitalismo, delle sue varie forme e dello stesso modo di produzione, che da più parti viene definita crisi di sistema, comporta la violenta reazione delle classi dominanti in difesa dei propri interessi; reazione dispiegata su più fronti. Laddove non è possibile operare sul piano della collaborazione tra le classi (che non elimina ma occulta soltanto la lotta di classe condotta dall’alto), si ricorre alla repressione più brutale, sul piano poliziesco-militare, giudiziario, ma anche su quello logicamente antecedente, della legislazione. In un pubblico dibattito organizzato a Napoli qualche mese fa dalla Rete dei Comunisti, Giuseppe Antonio Di Marco faceva argutamente notare come lo Stato sia, in definitiva, l’organizzazione dei poteri repressivi della classe dominante e come, nei momenti di crisi come quello attuale, il vero “Ministro dell’Economia” diventi quello degli “Interni”, saltando ogni possibilità di mediazione tra i contrapposti interessi di classe. La parola passa al momento militare.

Gli ordinamenti giuridici come li abbiamo conosciuti fino a qualche decennio fa sono stati messi in crisi sistematica, così come lo Stato nazionale con le sue funzioni classiche, compresso dalle molteplici stratificazioni della governance contemporanea che produce sistemi giuridici, di regolamentazione, di disciplinamento alternativi se non sovraordinati a quelli tradizionali1.

La stessa comunitarizzazione degli Stati europei ha generato notevoli trasformazioni interne se non sul piano formale, quanto meno su quello sostanziale, comportando «una messa in non cale delle costituzioni e delle tradizioni costituzionali indigene, a tutto favore della tavola dei valori emergente dai Trattati e che la giurisprudenza delle due corti ha interpretato, specie negli ultimi due decenni, in modo del tutto conforme ai dettami del vangelo liberista»2.

Tale processo è riscontrabile sul piano dell’effettività in termini giuridici e giurisprudenziali di quello che qualcuno ha definito un “principio bolscevico” instillato nella Carta costituzionale italiana: ovvero la “funzione sociale” della proprietà di cui all’art. 42, comma 2 Cost.

In tempi di revisionismo storiografico e legislativo (Nivarra), è bene ricordare il collocamento che i costituenti fecero di quel principio ed in generale del diritto di proprietà: «La proprietà … è collocata in un titolo, quello dei rapporti economici, dove nessuna situazione è assistita dall’attributo della inviolabilità, che accompagnava invece la proprietà stessa dell’art. 29 dello Statuto del Regno, secondo una tradizione risalente alla Dichiarazione dei diritti del 1789. Nello Statuto, anzi, la proprietà era posta, per esplicita qualificazione normativa, in una posizione formale di rango superiore alla stessa libertà, di cui si diceva soltanto che ‘è guarentita’, riservandosi l’attributo ‘inviolabile’ esclusivamente al domicilio (art. 27) ed agli impegni dello Stato verso i suoi creditori derivanti dal debito pubblico (art. 31)»3.

Emerge lampante la frizione tra la collocazione che i costituenti fornirono al diritto di proprietà e quella invece che emerge dai Trattati europei e dalla recente legislazione interna.

«Storicamente, il ricorso alla funzione sociale serve ad individuare una dimensione in cui la crescita della compressione dei poteri proprietari per effetto dell’intervento dello Stato si accompagna alla consapevolezza che ciò accade per la necessità di realizzare interessi in largo senso pubblici in forme diverse da quelle tradizionalmente adoperate. Concettualmente, revoca in dubbio uno dei cardini della dommatica privatistica, quel diritto soggettivo modellato appunto sulla struttura della proprietà assoluta. Ideologicamente, apre la discussione intorno alla possibilità di realizzare davvero interessi sociali senza eliminare integralmente l’appartenenza privata dei beni (di quelli produttivi, almeno)»4.

L’ideologia neoliberista e l’aggressione al concetto di bene pubblico degli ultimi decenni, hanno non solo ridimensionato tali interpretazioni della Carta costituzionale, ma prodotto una rilettura dei principi cardini dell’ordinamento giuridico in senso rigorosamente privatistico: o con attacchi diretti ai principi generali della Costituzione o con un aggiramento della stessa. Ha buone ragioni Sandro Chignola nel criticare i “feticisti” della Costituzione laddove ritiene che essa non funzioni più come terreno di battaglia contro la privatizzazione della cosa pubblica, tutto sommato nemmeno nell’accezione processuale della costituzione materiale, essendosi dislocati altrove i centri principali di produzione del diritto, delle sue fonti, e dei poteri5. Forse, però, non è un terreno da abbandonare del tutto.

La proprietà privata è oggi concepita, in spregio ai dettami costituzionali, come un diritto inviolabile, prevalente addirittura sul bene vita (v. la riforma del 2006 della legittima difesa) con un ritorno ad una concezione ottocentesca della stessa.

Ciò emerge non soltanto da alcuni importanti orientamenti normativi, ma anche in minori passaggi legislativi. Il 21 marzo scorso alla Camera dei Deputati è stata presentata la proposta di legge n. 443 su iniziativa di un gruppo di deputati della Lega Nord più un esponente dell’Idv con la quale ci si propone di apportare modifiche all’art. 633 cod. pen. rubricato “invasione di terreni o edifici”.

L’art. 633 cod. pen. punisce chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne profitto (anche quando si tratta di immobili inutilizzati, abbandonati).

In buona sostanza la proposta di legge mira ad inasprire le sanzioni previste dal codice penale: ad oggi le condotte di cui all’art. 633 sono punite, a querela di parte, con la reclusione fino a due anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032 (comma 1). Se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi, si procede d’ufficio e le sanzioni detentiva e quella pecuniaria vanno applicate congiuntamente (comma 2).

La proposta di legge leghista prevede la reclusione fino a quattro anni o la multa da euro 500 a 5.000 e, nel caso di cui al comma 2, congiuntamente la reclusione fino a sei anni e la multa da euro 5.000 a 20.000. L’inasprimento è finalizzato anche a mettere a disposizione del giudice uno spazio edittale più ampio e più elevato nel massimo tale che possa sforare quello previsto per accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena (due anni di reclusione o arresto, art. 163 cod.pen.).

La relazione di presentazione della proposta di legge parte dall’assunto della “inviolabilità del patrimonio immobiliare di una persona”, ovvero su quel concetto assolutistico ed ottocentesco della proprietà privata di cui innanzi abbiamo accennato e che è stato negato dalla Costituzione.

Non è un caso, infatti, che i deputati proponenti tale legge nella relazione si siano lamentati dell’eccessivo garantismo offerto dalla Suprema Corte di Cassazione, laddove essa ha ritenuto di far prevalere il “diritto all’abitazione” su quello proprietario. Ecco cosa si legge nella relazione: “… recenti fatti di cronaca evidenziano il pericolo che l’occupazione di immobili, soprattutto quando si tratta di alloggi abitativi, corra il rischio di restare impunita dal momento che il ‘diritto all’abitazione’ viene considerato tra i beni primari collegati alla personalità e, come tale, rientrante tra quei diritti fondamentali della persona tutelati direttamente dall’art. 2 della Costituzione. In proposito, infatti, la Corte di cassazione ha ritenuto che l’occupazione abusiva di un’abitazione fosse giustificata, facendo leva sia sulle condizioni di indigenza, che non consentono di rivolgersi al mercato libero degli alloggi, sia sullo stato di necessità, riferito al diritto all’abitazione e al diritto alla salvaguardia della salute” (p. 2).

Emerge da tali indicazioni tutta la preoccupazione delle classi medie proprietarie che, dinanzi alla crisi che rischia di proletarizzarle, ancora di più si incarogniscono attorno al concetto assolutistico di proprietà privata, unico fondamento del loro agire attuale e prospettico. D’altronde, un orizzonte politico di classe che ha caratterizzato da sempre le istanze della Lega Nord, così come del Pdl ed infine del centro-sinistra “legalitarista”.

L’intento dichiarato dei deputati leghisti è quello di incidere su un certo orientamento giurisprudenziale a mezzo di aggravamento delle sanzioni penali, provando ad invertirlo. Una scelta non solo miope sul piano della politica criminale, ma inconcludente dal punto di vista della effettività dei risultati in ambito giudiziale.

La “neutralizzazione” della portata sanzionatoria dell’art. 633 cod.pen., in determinati casi specifici, si raggiunge, di fatti, con il ricorso alla esimente di cui all’art. 54 cod.pen. per cui “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo (comma 1). La Corte di Cassazione in un primo momento sposò una lettura molto restrittiva del “danno grave alla persona” escludendo che esso potesse concretizzarsi nella necessità di ottenere un alloggio (Cass. pen., Sez. VI, 25.02.1989). In seguito, promuovendo una lettura costituzionalmente orientata della norma e dell’art. 54 cod.pen., ha riconosciuto lo stato di necessità anche nel caso di condotte finalizzate solo in via mediata alla tutela e salvaguardia dei diritti della personalità, tra le quali rientrano quelle tese a reperire un alloggio, reputato bisogno primario della persona: «… ai fini della sussistenza dell’esimente dello stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p., rientrano nel concetto di “danno grave alla persona” non solo la lesione della vita o dell’integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell’art. 2 Cost.; e pertanto rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica del soggetto in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, fra i quali deve essere ricompreso il diritto all’abitazione in quanto l’esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona» (Cass. pen., Sez. II, n. 35580, 27.06.2007; v. anche Cass. pen., Sez. II, n. 24290, 4.06.2003).

In dottrina si ritiene che la ragione giustificante della scriminante sia la «mancanza di interesse dello Stato a salvaguardare l’uno o l’altro dei beni in conflitto, posto che nella situazione data un bene è in ogni caso destinato a soccombere. In base al principio del bilanciamento degli interessi, è però necessario che il bene sacrificato sia di rango inferiore o equivalente o di poco superiore rispetto a quello salvato»6.

I deputati leghisti si fanno promotori, nel loro piccolo, di una legge che si fonda su una vera e propria inversione della gerarchia dei valori fondativi della Costituzione, dando prevalenza assoluta al diritto di proprietà rispetto a quelli legati alla personalità. Ma nel farlo utilizzano una tecnica legislativa assolutamente inconsistente, sia perché inefficace a scalfire il portato della Carta fondamentale, sia perché l’innalzamento delle pene non incide minimamente sulla sussistenza o meno della scriminante di cui all’art. 54 cod.pen. Invero, la sanzione detentiva potrebbe anche, per assurdo, essere innalzata ulteriormente, ma dinanzi a condotte generate dallo stato di necessità, accertato in concreto, non sarebbe configurabile alcun profilo di colpevolezza per cui, rispetto all’obiettivo dichiarato nella relazione di presentazione alla proposta di legge, la stessa è assolutamente incongruente.

La proposta di legge si inserisce in quel filone di norme dal valore prevalentemente simbolico il cui risultato principale è “rassicurare” i destinatari dei beni giuridici protetti dalle stesse, piuttosto che produrre effetti concreti in termini di deterrenza (si pensi ai vari “pacchetti sicurezza” che si sono susseguiti negli ultimi anni); al contempo rinvigorisce quella legislazione contro la povertà che è uno dei tratti caratterizzanti dello “Stato penale” (Wacquant) degli ultimi decenni. Una tendenza non soltanto italiana ma comune alle società a capitalismo maturo, soprattutto in periodi di crisi (non è un caso se di recente in Grecia è stata proposta la galera per i debitori del fisco, anche per poche migliaia di euro). Infine, proposte simili introducono nell’ordinamento giuridico microelementi di trasformazione dello stesso e dei suoi principi, incidendo sulla costituzione materiale che si riorganizza attorno alle logiche proprietarie, scollando il diritto vivente, frutto delle dinamiche conflittuali di classe, da quello cristallizzato nella norma costituzionale.

Lo statuto dell’amministrazione della giustizia resta quello di uno strumento del dominio di classe, per quanto temperato da istanze progressiste e di frizione con gli interessi delle classi dominanti: «La giustizia ha colpito (colpisce) alcuni forti ma mostra tutta la sua impotenza di fronte alla categoria dei forti complessivamente considerati (i corrotti come gli evasori fiscali e i finanzieri dediti ad allegre e incontrollate speculazioni)»7. Questo è il motivo principale per cui quello giudiziario non può essere il campo di battaglia privilegiato per i subalterni, né alla giustizia può essere delegata la funzione principale di emancipazione (tare immanenti al “giustizialismo” di sinistra degli anni recenti).

Tuttavia, se la difesa della Carta fondamentale non può oggi essere il terreno privilegiato di lotta dei movimenti subalterni, è pur vero che può essere uno dei piani del conflitto, restando immanenti alla Costituzione alcune possibilità di apertura a posizioni progressive che possono essere imposte da rapporti di forza nuovi, frutto di contro-poteri (costituenti) che, come nel caso di specie, rivendichino il diritto ad aggredire la proprietà privata inutilizzata o generatrice di grandi rendite, restituendole una funzione sociale che deve tornare ad essere prevalente.

È sul fronte dei beni comuni, poi, che bisognerà continuare a lavorare per comprimere sempre di più la proprietà privata tout-court dei beni di (ri)produzione.

1 Sul punto, di recente, si v. S. Chignola, “Stato e costituzione”, in G. Roggero, A. Zanini (a c. di), Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente, Verona, ombre corte, 2013. Si v. anche A. Rufino, G. Teubner, Il diritto possibile. Funzioni e prospettive del medium giuridico, Milano, Guerini & Associati, 2005.

2 L. Nivarra, “‘Così c’è stata la storia, ma ormai non c’è più’. La ‘funzione sociale’ dissolta e l’eterno ritorno della proprietà borghese”, in Questione Giustizia, n. 5/2012, p. 65. Sulle matrici neoliberiste, hayekiane dell’UE, si veda con profitto P. Gowan, “Friedrich von Hayek et la construction de l’Europe néolibérale”, in ContreTemps, n. 4/2009, pp. 81-90.

3 S. Rodotà, “Art. 42”, in G. Branca (a c. di), Commentario della Costituzione. Rapporti economici: Tomo II: Art. 41-44, Bologna, Roma, Zanichelli, Società Editrice del Foro Italiano, 1982, p. 118.

4 S. Rodotà, op. cit., p. 112.

5 S. Chignola, op. cit.

6 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli editore, 2001, p. 267.

7 L. Pepino. Forti con i deboli, Milano, BUR Rizzoli, 2012, p. 113.

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