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I processi di frammentazione nella crisi e la rappresentanza sindacale

Senza fare della frammentazione la parola chiave di questa fase di crisi sistemica sociale, economica e politica possiamo comunque utilizzarla per aiutarci a focalizzare determinati e differenti processi in atto.

Prima considerazione è che la crisi sistemica e la connessa “crisi da costituzione” dell’Europolo non dispiegano effetti omogenei nel tessuto economico e sociale. I vari settori produttivi e territori subiscono all’interno del nostro paese e dell’area europea effetti diversificati, la crisi come ormai è evidente non è uguale per tutti: non lo è tra i vari settori di padronato in Europa, come non lo è nei settori popolari e tra i lavoratori dei diversi paesi e all’interno degli stessi Stati dell’Unione, per semplificare, ben diversi sono in termini salariali i rinnovi dei contratti collettivi in Germania dai rinnovi che troviamo in Italia, cosa certamente non dovuta alla generosità del padronato tedesco ma ai diversi margini di profitto e di redistribuzione, soprattutto alla gerarchizzazione in atto a livello europeo tra i paesi centrali e i cosiddetti PIIGS[1].

Di fronte ad una frammentazione, anche interna ad ogni paese, tra settori produttivi e di servizi rispetto alla crisi, ha corrisposto l’esigenza padronale di adattare le relazioni sindacali e la contrattazione a questo scenario. La destrutturazione della contrattazione collettiva non è l’indebolimento del contratto nazionale collettivo ma un rafforzamento dello stesso in chiave di gestione di tali processi di diversificazione (voluta o subita dal padronato); i contratti collettivi così come vengono ridisegnati sono la cornice che rendono possibile e regolano la frammentazione delle condizioni contrattuali, salariali, normative dei lavoratori. Ricordiamo che una crisi dell’efficienza della contrattazione e della rappresentanza ha investito anche la stessa Confindustria ed ha avuto la sua “rappresentazione” con l’allora fuoriuscita non solo di Fabbrica Italia di Marchionne ma anche di altri importati pezzi della rete confindustriale e la minaccia di ulteriori defezioni.

Più volte in sede “tecnica” europea si è sottolineato la mancanza nel nostro paese di una chiara normativa sulla validazione dei contratti collettivi (la questione della validità “erga omnes”), un potenziale ostacolo al dispiegarsi di una politica contrattuale capace di “ritagliare” (altro termine utilizzato nelle sedi europee) le condizioni di lavoro alle varie esigenze sempre più diversificate tra settori e aziende che fino ad oggi sono ricomprese sotto le stesse norme contrattuali nazionali. La stessa ristrutturazione del modello di rappresentanza sindacale, con le regole capestro sull’accesso alle lezioni RSU e sulla incontestabilità degli accordi collettivi fanno parte integrante di questo processo.

Gli effetti sul ruolo sociale e storico delle organizzazioni sindacali

A livello di rappresentanza sindacale i processi in atto cominciano a segnare ulteriormente il ruolo e l’utilità delle organizzazioni sindacali rispetto ai lavoratori e ai disoccupati. Mentre è più chiaro il ruolo complice che i sindacati della passata stagione della concertazione assumono rispetto al padronato, quello che abbiamo visto emergere a livello di rappresentanza politica istituzionale nelle ultime elezioni non si traduce meccanicamente nell’ambito della delega e nella rappresentanza sindacale ma alcune spinte si possono cogliere e riguardano il ruolo del sindacato quale corpo sociale “intermedio” e quindi riguardano non solo i sindacati complici e collaborativi ma anche – potenzialmente – ogni forma di sindacato compreso il sindacalismo conflittuale e di base specie se svolge, anche con i suoi limiti, una funzione di massa.

Ci riferiamo a quello che in questi mesi si sta evocando come “tsunami” sindacale, mutuando un termine utilizzato dal Movimento 5 Stelle, si tratta appunto di una onda anomala che possa travolgere la “casta” sindacale, considerata a ragione come organica all’attuale sistema politico e sociale. Il problema da affrontare e se tale ondata è circoscritta alla casta presente nelle organizzazioni sindacali collaborazioniste oppure se si mette in discussione l’organizzazione sindacale – confederale e/o categoriale – in sé quale strumento di rappresentanza e di tutela dei lavoratori. Sottolineiamo che non si vuole affrontare la questione dal punto di vista programmatico formale del M5S ma dal punto di vista della cultura politica e sociale (e relativi settori sociali) che in questo movimento ha trovato oggi espressione.

Gli stessi movimenti sindacali di base, antagonisti o comunque critici nei confronti delle “rese” e tradimenti dei sindacati concertativi hanno avuto al proprio interno due opzioni fin dagli anni settanta.

Da una parte chi si è posto progressivamente la necessità di ricostruire, partendo da zero, organizzazioni sindacali concretamente conflittuali e autonome da quelle storiche esistenti, con tutte le difficoltà materiali e normative del caso, con tutte le ostilità politiche derivanti da impostazioni “entriste” nei sindacati esistenti di una parte del movimento dei lavoratori[2].

Dall’altra chi, prescindendo dalla questione dell’organizzazione, eludendo il problema o escludendone la reale fattibilità, si è posto come problema e caratteristica principale l’espressione di una rappresentanza diretta e immediata dei lavoratori a prescindere dalla creazione di una struttura sindacale vera e propria. Si pensi alle varie stagioni del movimento dei consigli, i vari coordinamenti di RSU, reti di delegati autorganizzati o autoconvocati e simili.

Senza volere approfondire le ragioni e conseguenze, successi e sconfitte di questa opzione “movimentista” specifichiamo che questa stessa tensione rispetto alla rappresentanza diretta dei lavoratori era comunque patrimonio anche di chi sceglieva un percorso sindacale organizzativo perché ritenuto passaggio funzionale e necessario alla espressione di una autonomia della classe dei lavoratori.

Con lo scemare dei movimenti espressione dell’autonomia conflittuale e politica dei lavoratori in Italia sono prima entrati pesantemente in crisi le esperienze “autorganizzate” ma successivamente anche percorsi già strutturati del sindacalismo di base hanno dovuto – non tutti, come sappiamo– prendere atto progressivamente che una stagione si era chiusa e che si doveva costruire un modello sindacale organizzato che potesse resistere e svilupparsi nel contesto della crisi sistemica, di assenza di movimenti generali e del pieno collaborazionismo sindacale.

Cogliere i pericoli e le necessità del momento

Un modello organizzativo che è oggi più che mai necessario definire e realizzare per rispondere alla “guerra dall’alto”, portata avanti dal padronato, con una controffensiva sindacale, sociale e politica tramite una confederalità generale che riesca a connettere “in alto” ciò che non è più connesso “dal basso” (ci riferiamo alla frammentazione delle condizioni lavorative e contrattuali, sociali e territoriali e alla dispersione di una coscienza e conoscenza patrimonio storico del movimento operaio).

Alla frammentazione e alla sconnessione tra i lavoratori come si reagisce? Dando voce alla frammentazione, rappresentando la frammentazione? Quella tendenza già interna al movimento sindacale alla rappresentazione non mediata dall’organizzazione esterna/interna al posto di lavoro trova nell’attuale contesto un possibile terreno per svilupparsi, ma con modalità e contenuti sostanzialmente arretrati. Tentiamo di schematizzarne alcuni elementi.

La contraddizione e la non conciliabilità strategica degli interessi tra padronato e lavoratori si traduce in un confronto/scontro tra, da una parte, un padronato disonesto e impreparato, dall’altra i lavoratori che sono comunque divisi tra produttivi e parassiti: un ipotetico dialogo tra un padronato “illuminato e produttivo” e la “meglio gioventù” dei lavoratori diventa auspicabile.

I lavoratori non si rappresentano come classe solidale nelle condizioni e nelle relazioni di sfruttamento con il padronato, ma come singolarità con un proprio e diversificato potere contrattuale e professionale. Il confronto “sindacale” e la rappresentanza si selezionano fuori dalle organizzazioni sindacali “di tendenza” per attingere direttamente e con la minor mediazione possibile tra i lavoratori più “competenti” e onesti. Stiamo semplificando ma il senso ampio è chiaro.

Nei contenuti sindacali non vi è una contrapposizione storica e generale tra le parti ma l’affermazione o meno delle “migliori soluzioni” tecniche e contrattuali per valorizzare le competenze (singole o di gruppo) alle condizioni sociali ed economiche date dal contesto generale, senza metterne concretamente in discussione l’impianto (al centro le singole idee e non le ideologie).

Il nodo dei rapporti di forza e del conflitto all’interno delle vertenze diventa secondario rispetto alla necessità di trasparenza e di percorso partecipato/democratico: per semplificare, un accordo discusso e trattato in maniera “trasparente” con le controparti e votato democraticamente a maggioranza, senza dare spazio e agibilità al conflitto (anche di minoranza, prima, durante e dopo) è un avanzamento del potere contrattuale e sociale dei lavoratori oppure un adeguamento ad una società pacificata e di larghe intese?

All’interno di questo schema l’organizzazione sindacale può non esistere o avere un ruolo di semplice “supporto” ai delegati eletti in maniera indipendente (e questo lo possiamo registrare quale tendenza anche all’interno di alcune esperienza di sindacalismo di base); il tema dell’organizzazione e delle risorse materiali per sviluppo della stessa viene o accantonato o risolto nel livello più basso (il delegato e l’azienda), quando non addirittura considerato come “spreco”, mutuando il tema del costo della politica.

L’organizzazione come luogo di formazione collettiva di un progetto generale, di una idea complessiva di trasformazione sociale diviene inutile di fronte alla sufficiente “selezione” delle migliori idee/persone. Il sindacato come corpo intermedio della società diventa, a prescindere dalla collocazione e dalle pratiche, inutile se non dannoso di fronte alle potenzialità di trasformazione ritenute in capo alla generale “società civile”, da liberare appunto da organismi (politici e sindacali) che ne possano dirottare una supposta e spontanea capacità di rinnovamento sociale.

Sottolineiamo come tali impostazioni possano fare a meno di misurarsi su un piano di rottura e fuoriuscita dall’attuale sistema di sfruttamento e massacro sociale, ma restano nell’orbita di un impossibile “aggiustamento” di certe storture (corruzione, speculazioni ecc); come le stesse possano essere infatti compatibili con le politiche di riorganizzazione della contrattazione e della rappresentanza che sono in corso[3]; anche perché tali politiche si pongono come obiettivo di gestire appunto sia la frammentazione esistente e sia quella da produrre nel mondo del lavoro: basti pensare al corto circuito tra l’aziendalismo sindacale (anche di base) con l’aziendalismo contrattuale padronale.

La connessione tra diritti e libertà sindacali personali (del singolo lavoratore) e la tutela della dimensione organizzativa e conflittuale deve essere ben chiara. La USB con la proposta di legge di iniziativa popolare denominata “Carta dei diritti democratici e di rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori”, e quindi non proponendo la via dell’accordo tra associazioni padronali e sindacali, restituisce i diritti e le libertà sindacali in capo alle lavoratrici ed ai lavoratori, che si scelgono liberamente i propri rappresentanti, definendo chi tratta e con quale mandato, con verifiche democratiche sulla contrattazione: ma nel rimettere ai lavoratori l’esercizio dei diritti si tutela e si rafforza però la legittimità delle organizzazioni sindacali che raccolgano più consenso, senza privilegi per i sindacati “firmatari” e collaborativi e senza meccanismi anti sciopero ed anti conflitto.

Il senso politico e sindacale della proposta è quello di rompere con l’attuale sistema che permette al padronato di selezionare le controparti sindacali a proprio favore, orientato alla esigibilità di accordi capestro, stabilire un meccanismo democraticamente proporzionale tra i lavoratori e la rappresentanza sindacale, dare diritti e libertà (e l’ultima parola sugli accordi) ai lavoratori in funzione però della loro esigenza di organizzarsi collettivamente e di poter esercitare così il necessario conflitto.

Un sindacato ricostituente

Nel concludere riportiamo l’attenzione sulla modificazione della condizione della soggettività della classe lavoratrice, vediamo come le lotte (che esistono perché nonostante tutto il conflitto è ineliminabile) rimangano slegate e limitate alla vertenza specifica, questo a fronte della tendenziale chiusura/riduzione delle possibilità reali di incidere localmente ed aziendalmente; nelle stagioni più intense di scontro e di avanzamento nelle conquiste del movimento dei lavoratori, la connessione (anche a livello individuale e locale) tra la lotta particolare e un progetto complessivo era patrimonio di interi settori sociali, di un quadro militante sindacale diffuso.

Per decenni in tanti hanno trascurato la centralità della questione di una organizzazione sindacale generale e soprattutto “ricostituente”, e lo si poteva fare intanto che era possibile dare voce ad una “autonomia” che aveva la propria dimensione collettiva e solidale in una coscienza di classe diffusa e connessa se non a livello strettamente sindacale a connessa al livello politico.

Oggi avremmo bisogno – più di ieri – di una organizzazione sindacale con i piedi ben piantati nei luoghi di lavoro e nei territori, ma dove un quadro dirigente e militante diffuso e capillare abbia una conoscenza e coscienza collettiva e condivisa delle dinamiche in atto, non solo nell’azienda e nel settore ma a livello generale: dalle politiche di austerity imposte dall’Europolo fino all’esigenza concreta di rimettere radicalmente in discussione lo stesso modello di società.

Oggi evidentemente non è ancora così: realizzarlo non è facile, rinunciarci significa nel peggiore dei casi dare voce alla sola frammentazione sociale e sindacale fino a scomparire in essa, significa nel migliore dei casi relegarsi a fare da amplificatore alle seppur importanti ma limitate esperienze di resistenza. Per questo è prioritario il massimo impegno perché si recuperino e si rinnovino le condizioni e gli strumenti per la generalizzazione di una opzione di trasformazione nel mondo del lavoro e del non lavoro.

* Osservatorio Sindacale – Cestes

[1] Su questi processi abbiamo realizzato come centro studi CESTES l’ultimo ciclo di formazione sindacale sulla “Crisi sistemica internazionale e ricadute sul mondo del lavoro”, sui temi vedi anche “Il risveglio dei maiali – PIIGS” di L. Vasapollo con R. Martufi e J. Arriola (edizioni Jaca Book).

[2] Vedi anche “Il movimento indipendente dei lavoratori nella crisi del capitale” Quaderni CESTES n. 17, novembre 2011, contenete i materiali utilizzati per il 1° ciclo di formazione sindacale CESTES USB.

[3] Vedi “Contrattazione collettiva in Italia nella riorganizzazione competitiva europea” nella rivista Proteo (CESTES) annuali 1/2012.


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