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Se la guerra perde i suoi soliti sostenitori

La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. La massima di Von Clausewitz resta dopo due secoli la migliore sintesi teorica del ricorso statuale alla forza contro un altro Stato. Ma cosa accade quando – come nel caso dell’ormai prossimo attacco alla Siria – si muove guerra senza avere una politica?

Il dubbio attraversa ormai esplicitamente il campo degli alleati più fedeli e acefali degli Stati Uniti. Articoli densi di interrogativi appaiono su giornali insospettabili di simpatie per Assad o altri dittatori mediorientali. Quindici anni di guerre asimmetriche statunitensi e di “coalizioni dei volenterosi” – dal Kosovo a oggi – hanno permesso facili vittorie militari e zero successi politici. I “cambi di regime”, tranne in parte in Serbia (ma non certo in Kosovo), hanno lasciato situazioni indecifrabili, illegibili, inaffidabili persino per gli interessi spiccioli dell’imperialismo  stelle-e-strisce.

E i piani di guerra-lampo, senza scomodare il ricordo terrorizzante del blitzkrieg hitleriano, vengono accolti con sufficienza persino nelle redazioni giornalistiche più embedded. Che rispolverano addirittura l’avversario teorico di Clausewitz – von Moltke – per ricordare che “ogni piano di battaglia svanisce al primo contatto con il nemico”. Anche con quello “facile facile”, costretto a barcamenarsi tra rivolta interna, “brigate internazionali” integraliste e potenti nemici ai confini (Israele, Turchia, Arabia Saudita).

Questo è oggi l’imperialsimo occidentale a guida statunitense: un gigante militarmente potente, economicamente in crisi, politicamente senza strategia, futuro, obiettivi chiari. Pericoloso, assassino, ma proprio per i suioi limiti impossibilitato a “vincere”. Ovvero a ridisegnare il mondo secondo i propri interessi. Perché? perché il mondo attuale è già disegnato secondo i propri interessi. E non funziona più.

E un impero in crisi non può reinventare un nuovo mondo.

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Un’eccellente sintesi di tutti i dubbi circolanti entro la visione “liberal” dell’occidente è contenuta nell’editoriale di Barbara Spinelli, oggi, su Repubblica. Pone le domande giuste, ma naturalmente non avrà risposte.

Il castigo e l’oblio

Accusato di aver perpetrato un massacro con armi chimiche, mercoledì scorso in due sobborghi di Damasco, e di aver forse bombardato il proprio popolo col gas nervino, il Presidente siriano Bashar al-Assad si è rivolto all’America e ai governi europei con parole sprezzanti, colme di scherno.

Ha ricordato loro i disastri delle recenti guerre contro il terrorismo globale e ha detto: «È vero, le grandi potenze possono condurre le guerre. Ma possono vincerle?» Ecco il dilemma che sta di fronte agli Occidentali, nel momento in cui alzano la voce contro Damasco, denunciano l’»oscenità morale» delle armi chimiche contro cittadini inermi (le parole sono di John Kerry, segretario di Stato), e affilano i coltelli nella convinzione che un intervento punitivo sia a questo punto necessario, dunque legittimo. Il dilemma esiste perché sulle conseguenze di un’offensiva nessuno pare avere idee chiare. Neppure sull’obiettivo c’è per la verità chiarezza, il che inquieta ancor più: in nome di quale disegno aggredire Assad? Ed esistono prove credibili che quest’ultimo abbia usato i gas, oppure Kerry ha dedotto le sue certezze consultando, come ammesso lunedì, i social network?
È il motivo per cui, anche quando le prove spunteranno (ieri il portavoce di Obama le ha promesse fra breve), non è a una guerra che si pensa in America ma a un gesto simbolico, a un’affermazione di forza. Giusto per dire «Eccoci», e poi andarsene. Evitando, a parole, il cambio di regime a Damasco.

È quanto fa capire l’ex capo di Stato maggiore Usa, Jack Keane, che da mesi preconizza più decisivi interventi ma che li ritiene improbabili. Intervistato dalla Bbc, dopo le parole di Kerry, il generale ha specificato che un semplice segnale castigatore, un
colpo di avvertimento, lascerebbe le cose come stanno. «Il giorno dopo Assad ricomincerà i bombardamenti sulle popolazioni civili, con armi chimiche o senza. I rapporti di forza fra regime e ribelli nella sostanza non muteranno». La coalizione dei volonterosi che Obama sta provando a raggruppare avrà detto la sua, ma l’ultima parola molto probabilmente non sarà lei ad averla e il controllo su quel che accadrà dopo neppure.

Lo stesso Keane ha detto in passato che la Siria di Assad non è la Libia di Gheddafi. Dispone di armi più sofisticate, le sue truppe di terra e di aria combattono i ribelli con notevole successo da due anni. E ha alleati assai potenti: l’Iran, la Russia, e dietro le quinte la Cina che come sempre sta a guardare, gigante che aspetta infinitamente paziente che l’America si rompa un osso dopo l’altro. Neppure il paragone con il Kosovo è pertinente. È vero, siamo davanti a un disastro umanitario la cui oscenità è evidente. Ma l’osceno avviene per sua natura «fuori scena »: non è visibile come lo fu in Kosovo, e la sicurezza esibita da Kerry è quantomeno labile, per ora.

Gli ispettori dell’Onu sono lì per verificare, come a suo tempo tentarono di verificare in Iraq l’esistenza di armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein. A un certo punto l’America decise di entrare in guerra comunque, e gli ispettori vennero scaricati senza essere ascoltati. Hans Blix, che guidava il team dell’Onu, non cessa di evocare con amarezza la sordità dell’amministrazione Bush. Si parla di un’operazione simile al Kosovo perché cominciò allora la pratica della
coalizione dei volonterosi, architettata sotto la guida di Washington per aggirare il Consiglio di sicurezza Onu e quindi Mosca. Ma Milosevic era già vinto quando scattò l’offensiva, mentre Assad no.

Sabato, sul New York Times, è intervenuto con un articolo singolare lo studioso di storia militare Edward Luttwak, a suo tempo difensore delle guerre antiterroristiche. Oggi scrive che meglio stare a guardare la Siria da fuori, aspettando che i contendenti si scannino a vicenda. Meglio lo stallo, prolungato ma tenuto in stato di continua incandescenza: aiutando massicciamente i ribelli anti-Assad, ma smettendo l’aiuto non appena questi diventino troppo forti e stiano per vincere. Il ragionamento si finge astuto, prudente. In realtà è perverso, e palesemente sprovvisto di ambizione politica. «L’America perde in ambedue i casi», conclude Luttwak. Nessun occidentale, e men che meno Parigi e Londra, ha in questa vicenda ambizioni politiche, oltre che intellegibili obiettivi. E quanto bluffano poi Parigi e Londra? Sarebbero pronte a intervenire senza America e a fianco di Israele, ripetendo la rovinosa spedizione contro Nasser a Suez, che Eisenhower provvidenzialmente bloccò nel ’56?

Questo significa che la Siria è un vespaio prima ancora che scatti l’eventuale attacco euro-americano. La questione morale apertasi con l’uso del sarin è innegabile, ma la catastrofe umanitaria non la si può combattere come la si è combattuta in Kossovo, o peggio in Iraq. E non solo perché mancano prove inoppugnabili che attestino le responsabilità di Assad, non solo perché i più forti, tra i ribelli, sono al momento le milizie di Al Qaeda, e la scelta è tra la peste e il colera. Solo forze di interposizione Onu potrebbero proteggere i civili siriani da nuovi attacchi (sferrati da Assad o dai ribelli) e agire in nome del divieto di ricorrere a armi chimiche. La coalizione dei volonterosi è incompatibile con la via dell’Onu, e si propone altro. Cosa, precisamente? Forse per questo il ministro Bonino si mostra dubbiosa: «L’Italia non prenderebbe parte a soluzioni militari al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu».

L’analista Yagil Levy, studioso del peso esercitato dai militari nell’edificazione dello Stato israeliano, enumera le tre ragioni per cui la questione morale non può esser risolta da interventi militari (Haaretz 26-8). In primo luogo perché farebbe un gran numero di vittime e distruggerebbe le infrastrutture del Paese, come già accaduto in Kossovo e Libia. In secondo luogo perché non placherebbe la guerra fra regime e ribelli ma la acuirebbe. Terzo motivo, cruciale: l’intervento tenderebbe a «favorire un cambio di regime artificiale». Dipendente da aiuti esterni, il futuro potere sarebbe senza radici.

La storia delle guerre negli ultimi 14 anni (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) conferma le inquietudini di Yagil Levy. Nessuna di esse ha creato nuovi ordini stabili, tutte sono finite in pantani diabolicamente gelatinosi, nei quali non si distinguono le persone fidate dalle inaffidabili. I costi in termini di vite umane, una volta sconfitto Gheddafi, sono già oggi enormi: i morti del dopo-guerra sono quasi equivalenti alla metà dei caduti prima dell’uccisione del rais.

Fanno bene le democrazie, fanno bene Parigi e Londra, a indignarsi per l’uso eventuale di gas. Ma l’indignazione morale suona falsa, quando non calcola le conseguenze delle proprie azioni e neanche sa bene chi sia il colpevole. Quando il passato non insegna nulla, e cadono nell’oblio le false prove date da Colin Powell contro Saddam, e sono senza peso le sconfitte cui sono andate incontro le guerre umanitarie lungo gli anni. Non si esportano la democrazia e la stabilità, quando a uno Stato fallimentare si sostituisce uno Stato ancora più sfasciato di prima. Non si esporta neppure la morale, con attacchi simbolici che soddisfano solo l’orgoglio di chi li sferra e non aiutano i veramente minacciati. Se il pericolo in Medio Oriente è la degenerazione siriana, e al tempo stesso il potere esercitato nell’area dall’Iran o da Hezbollah in Libano, se è la fatiscenza del regno giordano, la rigidità di Israele, il ritorno in Egitto di un regime corrotto che si gloria di abbattere nel sangue l’integralismo dei Fratelli musulmani: se tale e così vasto è il nodo cui si pensa in America ed Europa, non è con un mortifero bel gesto contro Assad che lo si scioglierà.

da Repubblica

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