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Storie di ordinaria detenzione. Rebibbia, oltre il 19 ottobre

Le compagne di Napoli arrestate alla manifestazione del 19 ottobre raccontano quello che hanno visto e sentito in carcere.

Ormai sono giorni che sulle prime pagine dei giornali campeggia il “caso Cancellieri” e si esalta la presunta umanità del ministro. Un dibattito, ovviamente strumentale a tutt’altro, che risulta stucchevole quanto irrispettoso nei confronti delle persone costrette tra le mura carcerarie, private della propria libertà e non solo di questa…

In seguito al corteo del 19 ottobre a Roma ci siamo trovate, insieme ad altri 4 compagni, ad annusare l’aria stantia di Rebibbia e Regina Coeli, quell’aria umida che non sa di nient’altro che di carcere, uguale a se stessa e forse alla puzza di “chiuso” di tutte le altre gabbie del mondo. La nostra è stata un’esperienza sicuramente parziale: 4 notti e 4 giorni probabilmente ti danno solo la percezione di cosa possa significare passare le proprie giornate come se tutto fosse sospeso, mentre sei costretto ad eseguire distrattamente un canovaccio in cui ti resta ben poco da improvvisare. Tuttavia resti l’attore principale, il tuo spazio scenico è un corridoio lungo 20 metri. Ci sono tante telecamere e chi si gode lo spettacolo. Non esistono retroscena dietro le quinte. Non puoi sbagliare: dalla finestrella della porta della cella le guardie ti possono osservare perfettamente anche quando stai sul cesso.

Ma c’è qualcosa che sfugge al controllo dei quotidiani rituali, che ti restituisce margini entro cui ti è ancora concesso ritrovare quell’intimità tutta umana di cui sembrano privarti al’ufficio valori, insieme ai lacci delle scarpe e al cellulare.
Attraversando i corridoi infiniti che dividono il “reparto isolamento-nuove giunte” dal cancello d’ingresso non c’è nulla che può distrarti dall’incrociare sguardi ormai ordinari di quei posti. Le detenute si fermano a parlare, pronte a capire quando è il momento giusto per raccontarsi, perché se non è possibile per loro, almeno cercano una via di fuga per la propria storia.
Ci chiedevano di non dimenticarle, di portare fuori le loro voci che, per quanto forti, restano a rimbombare tra quelle mura, al di qua delle recinzioni e delle torrette di sorveglianza.
Quello che rispondevamo “passeggiando”, durante l’ora d’aria, quando sei “chiuso fuori” e l’unica differenza tra la cella e quei cortili cementati è l’assenza del soffitto, è che sarebbe stato impossibile cancellare quei giorni e il loro portato.
Allora cogliamo l’occasione del “caso Cancellieri” per raccontare storie di persone, non di numeri, non di belve, non di malvagi criminali. Persone che con i propri modi di fare conservati nonostante le pratiche disumanizzanti a cui sei sottoposto, ci hanno accolte con quell’umanità che il Ministro Cancellieri non conosce affatto.
Si avvicinavano, si informavano, ci esprimevano la loro vicinanza, ci restituivano con sorrisi, parole e strette di mano quel calore umano che fai fatica ad immaginare possa esistere in un posto freddo e asettico come quello. Ci hanno dimostrato la loro vicinanza e solidarietà domenica sera quando ai cori del presidio hanno risposto con la “battitura”, che per loro significa protesta. Non è consentito , infatti, parlare durante le visite del politico di turno o provare ad espugnare la scorta intorno al direttore durante le visite ai reparti per accertarsi che va tutto bene, “ci sono persino i distributori” (per le guardie e che tu puoi solo guardare, ovviamente). Allora se nessuno vuole ascoltarti provi a farti “sentire”, “col cazzo che la battitura è solo per ottenere docce calde”. Solo 3 docce fredde per più di duecento persone, ormai da un anno.
Ascoltando una ragazza giovanissima, di 23 anni, messa dentro per furto e parcheggiata in cella da mesi in attesa di processo, come la maggior parte delle detenute che abbiamo conosciuto, (molte delle quali immigrate e alle quali viene arbitrariamente negato un interprete) abbiamo avuto modo di approcciare ad un primo aspetto: la questione “maternità”. Ci ha messo a conoscenza della “legge sulle mamme”, secondo cui le detenute con figli piccoli, che non hanno mai commesso il “reato di evasione” hanno il diritto di scontare la propria prigionia agli arresti domiciliari. “Anche mio marito ha 23 anni”-ci raccontava- “non sa cambiare un pannolino, i nostri genitori ci hanno abbandonati, non può lavorare perchè deve badare alla bambina, non può permettersi l’asilo perchè non lavora. Le mie richieste per i domiciliari non si sa che fine hanno fatto. Ho fatto inoltre più volte richiesta di lavorare qui dentro, sperando di potergli mandare dei soldi, ma anche quelle saranno finite nel nulla. Come possono sopravvivere?”. Emerge qui un secondo aspetto interessante, poi affrontato con altre detenute: “il lavoro” in questi luoghi-non luoghi. Non ci è sembrata strana la perfetta corrispondenza con quello che succede fuori: il lavoro non è altro che uno dei tanti modi per disciplinarti e fare profitti sul tuo sudore. Molte detenute vengono “assunte” come “scopine”. Come suggerisce il nome, si occupano delle pulizie di reparti e uffici. Dovrebbero lavorare 2-3 ore al giorno, ma in realtà lavorano intere giornate e delle centinaia di euro mensili che ricevono almeno la metà sono trattenuti per le spese di “mantenimento”: un “contributo” per acqua, luce e posto letto, come ci ha raccontato una guardia. Non solo ti rinchiudono, ti fanno pagare anche il vitto e l’alloggio, insomma. Molte di loro sono costrette ad accettare queste condizioni perché quando entrano possono non avere più di 5 euro in tasca che devi usare per comprarti tutto quello che ti serve. Hai a disposizione solo 4 rotoli di carta igienica al mese e un pacco di assorbenti per 5 persone. E ti deve bastare: sei una carcerata, te lo meriti. Non basta mica un corpo a fare di te una persona e della tua mente, stai tranquillo, se ne occuperanno loro.
Una ragazza si avvicina a noi e indicandoci un’altra detenuta ci dice “la vedi quella? Stava meglio di me e te messe insieme quando è entrata. L’hanno riempita di sedativi e adesso è in depressione ed è anoressica. Non parla con nessuno, è un automa”. Effettivamente in carcere sembra molto più facile ricevere farmaci che una bottiglia d’acqua. Ogni sera, dopo la “chiusura” delle 20, passano con un carrello chiedendoti se vuoi “la terapia”. Anche la psicologa ci ha avvertite:” Soffri d’attacchi d’ansia? Tietteli. Soffri d’attacchi di panico? Tietteli. Non riesci a dormire? Leggiti un libro. Sei entrata normale, vedi di rimanerci”. Se ti permetti di rispondere male agli assistenti ti sbattono in cella “liscia”, se sei fortunato. Non sono mancati neanche i racconti sui suicidi, che rimangono sistematicamente nel silenzio. Tutte, inoltre, conoscevano, ci parlavano e avevano a cuore la storia di Stefano Cucchi. Ci dicevano “quel ragazzo così come tante e tanti altri non tornerà in vita grazie ad un risarcimento”. Di sicuro erano di altro parere le guardie penitenziarie che ci sorvegliavano prima dell’interrogatorio di mercoledì pomeriggio, dopo il quale siamo tornati in libertà. Sostenevano che Stefano “doveva morire con una siringa nel braccio”.
Qualcun’altra ci raccontava che gli abusi di potere nei momenti degli arresti sono una costante: figli piccoli che vengono svegliati apposta per farli assistere all’arresto della madre. “Mi hanno chiesto di aprire un cassetto per controllare cosa ci fosse” ci ha raccontato una ragazza “e poi mi ci hanno schiacciato le dita dentro”, e ancora insulti e pestaggi. E poi le storie a metà tra l’interno e l’esterno del carcere: molti dei poliziotti presenti nei momenti degli arresti, quindi ovviamente ancora in servizio, erano pubblicamente conosciuti come colpevoli di violenze sessuali. Ormai famosa la vicenda che coinvolgeva alcuni di loro come stupratori di una ragazza agli arresti domiciliari o come “il caso” della ragazza portata in questura perchè fermata con dell’erba addosso, ricattata e violentata più e più volte durante la notte del fermo.

A prescindere dai ruoli che abbiamo in questa società, anche queste cose ci ricordano che no, noi e quelli che ci comandano e sfruttano non siamo fatti della stessa pasta.

Scritte queste righe non possiamo che rivolgere il pensiero a tutte le compagne di carcere incontrate in quei giorni, a tutte quelle che non abbiamo avuto modo di conoscere, ai compagni che sono ancora dentro per motivi simili ai nostri o per questioni molto più pesanti e complicate, alle persone che di carcere ci muoiono e a quelle che combattono là dentro per mantenere la propria umanità, nonostante cerchino di annullarti in qualunque modo, a tutte quelle persone sole, abbandonate a loro stesse e che non hanno la fortuna di avere fuori tantissime compagne e compagni, le famiglie, gli amici che ti aspettano, che ti pensano, che ti scrivono lettere e telegrammi, che si attivano per la tua liberazione e che all’esterno continuano a portare avanti la tua stessa lotta. Questo non è un documento sul carcere, né vogliamo trarre n questa sede sofisticate conclusioni politiche, consapevoli di quanto sia complessa la questione e soprattutto l’individuazione di giuste risoluzioni. Quel che è certo è che da questa esperienza ce ne usciamo rafforzate, nonostante il palese tentativo di intimorirci e demoralizzarci da parte di politici, questure, caserme e giornalisti di tutta Italia. Continueremo a lottare sempre più convinte di voler abolire lo stato di cose presente, fino a quando non esisteranno più oppressi e oppressori, in un mondo che può essere costruito da noi e solo da noi, un mondo davvero giusto e umano, un mondo senza galere.

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