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Conquistare un vocabolario comune. Note dall’assemblea di sostegno alle lotte della logistica a Roma

Il Lucernaio è uno stabile che la prima Università di Roma ha lasciato all’inedia per oltre un decennio. A ridosso delle mobilitazioni del 18 e 19 Ottobre, un gruppo di studenti e studentesse riuniti sotto il nome di “Sapienza Clandestina” ha occupato e riaperto questo spazio con l’intenzione di farne un riferimento per tutti coloro che stanno finalmente alzando la testa per contrastare il dilagare della miseria di molti e ricchezza di pochi chiamato “austerity”.

Questi giovani compagne e compagni saranno pure studenti, ma hanno ben chiaro che la loro lotta non si ferma all’università. Anche perché molti di loro già sono costretti a consegnarsi a logoranti e malpagati lavori precari o in nero per permettersi i servizi sempre più costosi e carenti dell'”università riformata”. Gli altri sanno invece che quando finiranno gli studi ad aspettarli sarà probabilmente la disoccupazione o salari da fame.

E’ stato quindi naturale per loro guardare a ed intrecciare le proprie voci con quei lavoratori che, con la lotta, stanno facendo valere la propria dignità ospitando, l’8 Novembre, un’iniziativa in sostegno alle lotte dei lavoratori della logistica, lotte che da tempo infiammano i magazzini del Nord Italia ma che si stanno estendendo fino a contagiare la capitale.

Come recitava la chiamata di partecipazione all’iniziativa in “questi magazzini, il sistema che sorregge questo super-sfruttamento è quello consueto del ‘subappalto’ per mezzo delle cooperative di facchinaggio, in questo caso il consorzio Gesco Centro, un vero e proprio ‘caporalato’ che consente ai padroncini di organizzare il lavoro senza alcuna tutela normativa, né contrattuale, con la turnazione degli orari di lavoro e la ripartizione delle ore lavorate e quindi del salario, fatte in maniera diversificata, arbitraria e clientelare. Le cooperative, grazie alla copertura delle multinazionali committenti, praticano la discriminazione, il lavoro a chiamata, perfino il furto di ore di lavoro.”

A Roma, nelle aree di via Salone (periferia Est) e di Fiano Romano, i lavoratori delle cooperative del consorzio Gesco, azienda terzista per conto di TNT, e della DHL, hanno scioperato per ben due volte nel solo mese di Ottobre, il primo ed il 25. La repressione ovviamente non si è fatta attendere, innanzitutto sospendendo 14 dei lavoratori coinvolti nelle lotte. Sospensione illegale che i padroni sono stati costretti a ritirare di fronte alle minacce di aprire lo stato di agitazione permanente da parte dei SI Cobas, rinforzata dalla diffusa solidarietà ricevuta dai lavoratori.
Rafforzare a sua volta questa solidarietà era lo scopo dell’iniziativa. Il primo modo in cui farlo è stato dare voce agli stessi lavoratori, rompendo così l’isolamento che ci rende vulnerabili. Ma anche far parlare altre esperienze di lotta, come quelle vincenti del Bolognese, oltre ai sindacalisti ed ai militanti che hanno dato e stanno dando il loro sostegno. Per questo all’iniziativa erano presenti i lavoratori della TNT di Roma, delle cooperative di Bologna, sindacalisti del Si Cobas, compagni e compagne della neonata Assemblea di supporto ai lavoratori della logistica di Roma e del Laboratorio Crash! di Bologna.
Che ci hanno innanzitutto raccontato le terribili condizioni di lavoro e le strategie con cui il capitale riesce ad imporle.

Quando la paura è padrona

Tanto a Roma quanto a Bologna la situazione dei lavoratori era, ed è, tragica: salari che non arrivano agli 800€ al mese per carichi di lavoro massacranti, con turni che raggiungono le 15-17 ore di seguito e carichi di lavoro spropositati (un lavoratore ha detto “il lavoro di 4 lo facciamo in 2″… non è un caso che quasi tutti i facchini si ritrovano con almeno un’ernia del disco!), tredicesime non pagate, niente ferie, malattia, ecc. A Roma poi era particolarmente sentito il problema dell’intermittenza di un lavoro erogato per lo più a chiamata, che non consente la minima programmazione della propria vita. Quasi tutto accade inoltre nella più completa violazione del CCNL “Trasporto, spedizioni e logistica”.
D’altronde questo rappresenta un settore strategico per il capitale, a cui risulta fondamentale spremere i lavoratori che ne fanno parte per risparmiare il più possibile sui costi. Come è infatti stato spiegato bene, negli ultimi trent’anni, da quando le grandi aziende produttive hanno cominciato ad affidare a terzi la gestione dei magazzini e delle scorte, il mondo della logistica è letteralmente esploso (è stato fatto l’esempio del rapporto stretto tra TNT e Fiat), coinvolgendo attualmente 450.000 lavoratori ufficialmente riconosciuti e fino a 700.000 reali.

Una forza lavoro frammentata e dispersa, considerato che gli unici due grandi poli in cui è concentrata sono gli interporti di Piacenza e Bologna. Frammentazione ulteriormente rinforzata dal complesso sistema di cooperative terziste che si è via via andato costituendo negli anni, che ha permesso il ricorso a lavoro nero e “grigio” e ha generato nuove forme di caporalato. Una manodopera a maggioranza straniera, su cui il ricatto del permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro pesava e pesa nel costringere ad accettare condizioni al limite della sopportazione. Addirittura, durante gli scioperi, i caporali passavano davanti a strutture quali i CARA (dove risiedono i richiedenti asilo) a recuperare crumiri. Anche le difficoltà linguistiche pesavano e pesano, facilitando le frodi sulla busta paga e le violazioni del contratto nazionale da parte dei padroni. Anche perché, stando ai racconti dei lavoratori, la CGIL e gli altri sindacati confederali non hanno mai aiutato quelli che a loro si sono rivolti, liquidati sbrigativamente dicendo che “le cooperative funzionano così”.

Non mancano poi i classici ricatti con cui il capitale è da sempre in grado di imporre le sue logiche spietate: le ristrutturazioni e la crisi.
Come ha detto un lavoratore di una cooperativa del Bolognese: “più la tecnologia cresce e più la crisi avanza, più cresce lo sfruttamento. I capitalisti hanno capito che possono automatizzare parte del processo e possono utilizzare meno facchini. Ma questo non serve a far diminuire i carichi di lavoro, a ridistribuirlo mantenendo lo stesso numero di occupati. No: serve a licenziare i lavoratori e ad intascarsi il resto!”. Grazie a questa minaccia poi le macchine diventano uno strumento per intensificare ulteriormente il lavoro di chi scampa al licenziamento.
Proprio la crisi è la spada di Damocle agitata dalla dirigenza della grande multinazionale TNT, intenzionata a ridurre di 1/3(!) la manodopera impiegata nei magazzini, proprio in virtù di paventate “difficoltà economiche”; che esisteranno sicuramente – la concorrenza capitalista mica è uno scherzo –, ma saremmo curiosi di vedere il tipo di difficoltà in cui versano i conti in banca dei dirigenti.
Minacce come queste spaventano ulteriormente lavoratori già irretiti dalla paura quotidiana di rimanere a casa perché non chiamati a lavoro, vera ragion d’essere delle forme contrattuali -sempre meno- “atipiche” (in realtà, comunque la gran parte dei lavoratori hanno formalmente un contratto a tempo indeterminato che però viene applicato come fosse a chiamata).

Quando i padroni hanno paura

I lavoratori hanno però dimostrato di saper rompere il ricatto della paura. Cominciando proprio dai lavoratori migranti, che si sono dimostrati ben più pronti alla mobilitazione dei loro equivalenti italiani.
D’altronde per capire questo bastava sentire le parole e l’entusiasmo del lavoratore del Bolognese di origine marocchine, in cui riverberavano le mobilitazioni del movimento del “20 Febbraio”. Dopo lo sciopero all’Ikea ci ha detto che nel suo magazzino i lavoratori hanno preso una tale fiducia, e il padrone un tale spavento, che al primo sciopero tutte le loro richieste sono state accolte in blocco! Da quando hanno capito cosa vuol dire scioperare, cioè “lasciare stare tutta quelle merce ed uscire fuori. Basta, il padrone perde un sacco di soldi e si mette a trattare!” – da quando hanno capito questo “sono i padroni ad avere la testa china”. Addirittura, con l’introduzione di un nuovo macchinario, sono riusciti a ridurre i carichi di lavoro, mantenendo lo stesso organico e lo stesso salario venendo così pagati “8 ore per il lavoro di 6”.

Nel ribaltare la situazione è stato fondamentale il protagonismo di questi lavoratori ed il loro reciproco sostegno e solidarietà. Altrettanto prezioso è stato però il contributo innanzitutto del SI Cobas, nonché di tutti i militanti che hanno dato il loro supporto, di quelli che “sanno già come si lotta”. A dir la verità il compagno del Crash che è intervenuto ci ha tenuto a dire che se hanno imparato a lottare è stato proprio davanti a quei cancelli. Il loro, e di altri, contributo ha più che altro permesso di dare risonanza alla lotta, di farle trovare sostegno anche nelle università e nelle piazze. Sostegno poi ricambiato, come quando più di 30 facchini hanno partecipato ai famosi eventi di piazza Verdi.
L’importante è che attraverso gli scioperi e i duri picchetti per ostacolare i crumiri, le manifestazioni e le campagne di boicottaggio, si è dimostrato che si è pronti a cogliere la sfida lanciata dai padroni, anzi a ribaltargliela, mostrando di non farsi intimidire. Per questo è stata sottolineata l’importanza della lotta alla Granarolo, azienda che ha provato in tutti i modi a dividere i lavoratori, minacciando il licenziamento immediato per gli iscritti al SI Cobas, ricorrendo all’infame pronuncia della commissione di garanzia per rendere illegali gli scioperi ed infine alle recenti denunce ed illegali minacce di ritirare il permesso di soggiorno. Mostrare di non farsi intimidire di fronte a questo vuol dire cominciare ad intimidire seriamente la controparte (tanto che la Granarolo è stata definita “la nostra Stalingrado”).

Certo questo non spiega tutto. Come abbiamo scritto a proposito della lotta all’Ikea, le condizioni strutturali sono determinanti per garantire ai lavoratori il potere necessario a far valere le proprie condizioni. E’ questo potere che sembra mancare a Roma, laddove pende la minaccia di una pesante ristrutturazione ed un’ondata di licenziamenti negli stabilimenti TNT. Qui i padroni sembrano avere il coltello dalla parte del manico. C’è però da dire che non è un caso che la TNT abbia paventato licenziamenti in tutti i magazzini ma ancora non abbia ufficializzato i tagli temendo la conflittualità dei lavoratori in specie nei grandi stabilimenti del Nord. La partita è quindi aperta, e anche qui i lavoratori non sembrano affatto stare a guardare, come dimostrano non solo i due scioperi citati, ma anche la voglia di confronto, nonostante le obiettive difficoltà linguistiche, espressa nell’assemblea. Che ha avuto innanzitutto il merito di metterli in comunicazione con i loro colleghi del Nord, ma che ha anche mostrato la solidarietà (sono stati anche raccolti soldi per la cassa di resistenza) di tutti i compagni e le compagne che si stanno mettendo in gioco per sostenerli.
Se veramente si riuscisse ad aiutare i lavoratori a resistere, e se soprattutto questi dimostrassero di poter tenere duro ad un attacco così acuto – magari il tempo giusto perché la protesta possa dilagare in altri stabilimenti – allora, come è stato detto durante l’assemblea, la TNT da punto debole delle lotte potrebbe rivelarsi punto di svolta. Anche perché si riuscirebbe ad arginare una catastrofe che è in procinto di toccare anche gli italiani più “garantiti”, creando le condizioni per una vera generalizzazione di una rivalsa collettiva di cui c’è sempre più bisogno.

Uno dei lavoratori, di origine straniera, ha detto che è nella lotta che ha “conquistato un vocabolario”. Noi crediamo che la necessità di farlo non riguardi solo chi sembra meno padrone della lingua scritta o parlata. Iniziative come questa ci aiutano allora proprio a conquistare quel vocabolario comune di cui le varie anime che si sono espresse nelle manifestazioni del 18 e 19 hanno disperatamente bisogno per tornare ad incidere e riprendersi la dignità negata.

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