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Salario o reddito?

Quello che segue è un primo nostro contributo al dibattito su salario e reddito. Comprendiamo benissimo che potrebbe risultare un po’ ostico, anche per via della lunghezza, ma confidiamo nella pazienza di chi ci legge e facciamo nostre le parole di Gramsci quando ammoniva che a voler esprimere concetti difficili in maniera troppo semplice si corre solo il rischio di scadere nella demagogia.

Lottare per il salario o lottare per il reddito? E’ inutile girarci attorno, queste due parole d’ordine agitate con alterne fortune dalla sinistra anticapitalista alludono a concezioni politiche, pratiche sociali e analisi teoriche che se per molti aspetti coincidono per molti altri sono invece così distanti da risultare difficilmente conciliabili, tanto da destinare al fallimento ogni tentativo ecumenico di tener dentro tutto. Insomma, come spesso accade in politica, arriva un momento in cui un’organizzazione o un movimento si trovano di fronte ad un bivio in cui o si va da una parte o si va dall’altra. Oppure, ma è la peggiore delle opzioni, si resta fermi. A voler essere onesti fino in fondo oggi come oggi la lotta per il salario, sociale e globale (ossia diretto, indiretto e differito), non gode di particolare appeal, almeno non nel campo dell’estrema sinistra o quantomeno non a queste latitudini. Se è vero che l’egemonia che un pensiero o una corrente teorica esercitano su un dato campo politico si misura anche dal vocabolario che bene o male tutti sono portati/costretti ad utilizzare, allora basta guardare agli slogan sugli striscioni e sui manifesti e far caso ai termini adoperati, spesso anche impropriamente, su volantini e documenti per rendersene conto. E’ evidente come la parola d’ordine del reddito per tutti e tutte mostri ben altro fascino rispetto a quella del salario. Sempre nel campo della sinistra (questa volta anche un po’ meno estrema) e sempre a queste latitudini. Eppure, vista anche la nostra propensione a viaggiare in direzione ostinata e contraria, come comunisti continuiamo a ritenere centrale la lotta per il salario ritenendo invece l’idea del reddito politicamente sbagliata oltre che scientificamente evanescente. Prima di andare avanti e passare in rassegna quelli che riteniamo essere i punti deboli di questa proposta occorre però stabilire un punto di partenza sul quale crediamo che almeno nella prima parte possano convergere un po’ tutti, redditisti o meno.

Ci pare infatti di poter dire che sia opinione più o meno consapevolmente diffusa tra quanti sostengono la causa del reddito, al di la delle sue possibili declinazioni (sociale/di base/universale/di cittadinanza/ecc), considerare ormai obsoleta la teoria marxiana del valore. Detta in soldoni nell’attuale fase del Modo di Produzione Capitalista (MPC) la valorizzazione del capitale non si fonderebbe più (o non solo) sullo sfruttamento del lavoro salariato e sull’estrazione di plusvalore ma deriverebbe dalla semplice esistenza degli individui che in quanto tali verrebbero tutti indistintamente messi a valore dal capitale stesso. Prendiamo ad esempio quanto scrive Andrea Fumagalli nel suo “Lavoro male comune” uscito quest’anno per i tipi della Bruno Mondadori: Nell’attuale contesto economico, occorre avere il coraggio di affermare che se la vita (nei suoi vari tempi, che abbiamo denominato tempo di lavoro, di opera, di ozio e di svago) viene messa a valore e produce ricchezza, allora è la vita intera che deve essere remunerata. (…) per cui il reddito di base è remunerazione del consumo quando l’atto del consumo, ad esempio tramite una fidelity card, diventa nella grande distribuzione anche produzione di informazioni, sulla base delle quali ricontrattare i rapporti di fornitura; dell’atto di cura e/o di studio e formazione quando diventa fattore di incremento della produttività delle economie di rete e di apprendimento; del semplice fatto di guardare la TV quando il nostro ascolto modifica gli indici Auditel in relazione ai quali vengono negoziati i contratti della pubblicità; della partecipazione a un evento sociale e pubblico se la nostra partecipazione incide sulla costruzione dell’immagine di chi lo organizza; del nostro esserci semplicemente muovendoci, relazionandoci, in altre parole vivendo, dal momento in cui veniamo giocoforza inseriti in un processo di valorizzazione del quale spesso non abbiamo coscienza. Si tratta dell’esito di un processo epocale di cambiamenti strutturali dei processi di produzione e organizzazione del lavoro, che hanno segnato il passaggio da un capitalismo materiale fordista a un capitalismo cognitivo finanziarizzato.
In altre parole, come abbiamo sentito più volte affermare anche da alcuni autorevoli esponenti del BIN (Basic Income Network), andrebbe definitivamente abbandonata l’idea che sia solo il lavoro salariato a produrre valore e plusvalore, tanto che la ormai vetusta formula del ciclo del capitale monetario D-M..P..M’-D’ sarebbe ormai definitivamente superata e andrebbe “contratta” nella più semplice e diretta D-D’. Ossia nella valorizzazione del capitale emancipata dalla mediazione della produzione. Ma, ci chiediamo, è davvero così? Siamo davvero entrati nell’era di quello che alcuni definiscono il biocapitalismo cognitario? Sostenere una tesi, per quanto suggestiva, di per sé non basta, occorre dimostrarla oltre che su basi concettuali anche sulla scorta di analisi empiriche e statistiche, e qui ci pare che le prime incongruenze vengano al pettine. Soprattutto alla luce di una crisi che se può essere coerentemente spiegata attraverso categorie marxiane che fanno leva sulla teoria del valore, diviene invece incomprensibile con altri strumenti.

A costo di risultare pedanti e invitando chi eventualmente si fida di noi a saltare a piè pari questo paragrafo proviamo a ribadire schematicamente ciò che abbiamo scritto più volte nel corso degli ultimi anni. Ci troviamo immersi in una crisi sistemica di sovrapproduzione che ha inceppato i normali processi di valorizzazione e accumulazione del capitale e che si trascina non dal 2007 ma da circa quaranta anni. L’origine della crisi finanziaria si trova nella sfera produttiva e l’unica prospettiva per comprenderla è quella che poggia sulla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx individuava chiaramente nell’aumento della composizione organica del capitale (c/v) una delle leggi interne del modo di produzione capitalistico. Stiamo parlando, tagliando il ragionamento con l’accetta, della crescita proporzionalmente maggiore del capitale investito in mezzi di produzione e materie prime (capitale costante, c) rispetto a quello investito in forza lavoro (capitale variabile, v) sotto la continua spinta della competizione tecnologica. Il risultato di questa legge di movimento, che in quanto tale va letta per la sua natura “tendenziale” e non in maniera schematica, è l’aumento della produttività, la propensione ad una disoccupazione strutturale (il famoso esercito industriale di riserva di cui parlava il barbone di Treviri) e la diminuzione del plusvalore incorporato nelle singole unità di output. Attenzione però, perché come spiega bene lo stesso Marx, ciò che cade è il saggio di profitto e non necessariamente la massa dei profitti, né tantomeno il capitale variabile complessivamente impiegato. Mentre il primo decresce la massa dei profitti può infatti aumentare in funzione del volume di merci prodotte e vendute, così come può crescere la quantità di forza lavoro impiegata in funzione dell’allargamento della base produttiva. Ed è proprio questo ciò che (in totale accordo con la legge) è accaduto nei decenni che vanno dal secondo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’70, periodo che ha coinciso con il dispiegamento e lo sviluppo del ciclo di accumulazione ford-taylorista.

Come mostra chiaramente il grafico (Carchedi, 2010) l’analisi empirica dell’andamento del tasso medio di profitto (ARP) da una parte e della composizione organica (C/V) del capitale dall’altra mostra chiaramente la caduta secolare del primo rispetto alla crescita di quest’ultima e ribadisce come sia solo il lavoro (e non i mezzi di produzione) a creare valore e plusvalore. All’interno del lungo ciclo che arriva dal secondo dopoguerra fino ad oggi sono poi distinguibili due cicli più brevi anche se relativamente di lungo periodo: uno che va dal 1948 al 1986 ed un altro che va dal 1987 fino ad arrivare ad oggi. Dall’immediato dopoguerra il saggio di profitto nei settori produttivi è sceso dal 22% fino ad arrivare ad un minimo del 3% nel 1986 per poi risalire fino al 14% del 2006 e cadere al 5% del 2009. Gli elementi di controtendenza che nell’ultimo ventennio hanno nascosto la crisi e permesso questo enorme recupero di profitti da parte del capitale sono stati essenzialmente l’aumento del tasso di sfruttamento della forza lavoro e la migrazione del capitale verso settori non produttivi come quello commerciale, finanziario e speculativo. Dunque la finanziarizzazione e l’intensificazione dell’estorsione di plusvalore assoluto e relativo che hanno caratterizzato il ciclo neoliberista non hanno causato la crisi ma ne hanno semmai rallentato, almeno per qualche anno, l’emersione.

Ci siamo soffermati su questo punto perché sostenere che la teoria del valore sia superata porta con se alcune evidenti ricadute pratico-politiche di cui non possiamo non tener conto, come ad esempio la paradossale estinzione del lavoro salariato nel quadro del sistema capitalistico a cui neanche troppo velatamente alludono alcuni autori. In ragione di questa perdita di centralità della contraddizione capitale/lavoro viene così dismessa ogni critica del MPC sulla base dei rapporti di produzione e con essa perde di forza il concetto stesso di una società divisa in classi con interessi tra loro inconciliabili per far posto all’idea postmoderna di ceto sociale, modulato quasi esclusivamente sulla base dell’accesso ai consumi. Si legga ad esempio quanto scriveva Gorz nel suo “Addio al proletariato, oltre il socialismo”: il regno della libertà non risulterà più dai processi materiali: può essere instaurato solamente con un atto fondante di libertà che, rivendicandosi come soggettività assoluta, si autoproclama fine supremo di ciascun individuo. Solamente la non-classe dei non produttori è capace di questo atto fondante, perché solo essa incarna, allo stesso tempo, il superamento della produttività, il rifiuto dell’etica dell’accumulazione e la dissoluzione di tutte le classi. Una delle conseguenze più significative di questo filone di pensiero, sia sul piano teorico che su quello simbolico, è stata proprio la sostituzione del proletariato in quanto classe storica con una più indefinita moltitudine (o il tanto citato 99% in salsa “occupy”) all’interno della dialettica dominati/dominanti. E non più, si badi bene, sfruttati/sfruttatori! Ma anche in questo caso ci chiediamo: è davvero così? Questa lettura delle innegabili trasformazioni del MPC e del salto di paradigma dall’accumulazione fordista a quella flessibile che ha coinciso con la globalizzazione ha poi retto l’urto della realtà? Siamo davvero diventati tutti precari cognitivi? Il lavoro salariato è diventato un fenomeno residuale destinato a scomparire? A questi interrogativi abbiamo provato a rispondere già in altra sede per cui per non farla troppo lunga rimandiamo a quel contributo chiunque voglia approfondire (qui). Aggiungiamo solo che se per una buona volta riuscissimo a liberarci da quel pregiudizio eurocentrico che ci spinge a considerarci l’ombelico del mondo e provassimo invece ad allargare lo sguardo a quanto avviene sul piano internazionale, forse ci renderemmo conto degli enormi processi di proletarizzazione che stanno investendo le aree coinvolte dalla ridislocazione dei centri manifatturieri. Potremmo così finalmente cominciare indagare la nuova composizione di classe prodotta dalla mondializzazione capitalistica, i nessi internazionali che discendono dalla catena del valore e magari provare a comprendere meglio i lineamenti dell’attuale fase imperialista e i compiti che ne conseguono.

Ma smettiamo di divagare e torniamo a noi. Come scrivevamo sopra i fatti e la loro testa dura sembrerebbero dimostrare incontrovertibilmente la validità della teoria del valore, alla luce di ciò l’idea del reddito di base incondizionato è comunque realizzabile? Ponendo la questione in altri termini: se domani mattina per una beneaugurata ipotesi riuscissimo a prendere il potere, saremmo poi in grado di realizzare quanto oggi andiamo reclamando? E in tal modo riusciremmo ad assicurare quella che Marx chiamava la riproduzione sociale? Ovvero, molto banalmente, a garantire che se fossimo costretti ad andare in un ospedale ci troveremmo dentro medici, paramedici e farmaci, che se entrassimo in un supermercato troveremmo sugli scaffali quello che cerchiamo o che fermandoci ad un distributore di benzina saremmo i grado di fare il pieno. Secondo noi a queste domande non si possono dare risposte univoche. La proposta per mantenere i crismi dell’attuabilità dovrebbe spogliarsi di quella “universalità” a cui gran parte dei suoi propugnatori sembrano tenere. Per contro se invece si volesse far prevalere questo aspetto essa finirebbe con l’assumere dei tratti alquanto utopistici. Proviamo a spiegarci meglio. Se come abbiamo cercato di dimostrare il ciclo del capitale continua a rimanere D-M…P…M-D’ (comprare per vendere) quello della semplice circolazione delle merci è M-D-M (vendere per comprare). Nel caso specifico di un proletario, la cui forza-lavoro rappresenta l’unica merce di cui dispone, egli deve vendere la suddetta merce scambiandola con il denaro (merce particolare in cambio di merce universale) per poi tornare ad acquistare le merci di cui ha bisogno per sopravvivere. Ci occorre ribadire che questo ciclo non genera nuovo valore, le merci ai due estremi sono diverse tra loro ma hanno la stessa grandezza di valore, al contrario del ciclo precedente in cui i due estremi hanno la stessa forma ma grandezze differenti. La proposta del reddito per tutti di fatto mira a bypassare la prima trasformazione M-D emancipando chi lo percepisce dalla necessità di dover vendere la propria forza lavoro. I “cittadini” potrebbero così essere messi nelle condizioni di consumare merci senza essere in alcun modo chiamati o costretti a produrle. A ben vedere questo è uno dei passaggi più avveniristici della proposta, Come affermano gli stessi sostenitori del reddito universale l’individuo verrebbe finalmente svincolato dalla coercizione al lavoro e potrebbe liberamente e volontariamente contribuire al processo di riproduzione sociale assecondando le proprie inclinazioni attraverso forme di cooperazione spontanea. Insomma attraverso il reddito si arriverebbe alla soppressione del rapporto di merce e dritti dritti al comunismo. Solo che tra il sognare l’altro mondo possibile ed il lottare concretamente per la trasformazione del presente c’è uno scarto enorme. Come ha già scritto qualcuno prima di noi il futuro si costruisce con i mattoni che si hanno e con quelli che si possono produrre in un determinato momento storici, senza scorciatoie.

Nella società in cui domina il MPC il produttore di merci produce privatamente e verifica solo a posteriori, attraverso la riuscita o meno della vendita (M-D), l’utilità sociale di ciò che ha prodotto e quindi anche l’utilità sociale del lavoro in esso cristallizzato. Il lavoro umano in esse impiegato vale solo in quanto è speso in forma utile ad altri. Ma solo il suo scambio può provare  se esso è utile ad altri e di conseguenza se il suo prodotto appaga bisogni di altre persone (Marx, Il Capitale, Libro 1) E’ dunque in ossequio a questo vincolo esterno che viene mediata la riproduzione sociale e che la classe proprietaria dei mezzi di produzione decide cosa, come e quanto produrre. In quanto capitalista io produrrò se, e solo se, avrò la ragionevole certezza che il capitale da me anticipato mi tornerà indietro aumentato di un profitto, ma il valore contenuto nelle merci che produco potrà realizzarsi solo se le merci stesse rappresenteranno dei valori d’uso per qualcuno, se saranno cioè in grado di soddisfare dei bisogni. Che poi questi bisogni siano reali o indotti, materiali o virtuali, questo poco importa. Si tratta di una forma di organizzazione della vita sicuramente incoerente e irrazionale ma che a tutt’oggi rappresenta l’unica forma plausibile per gran parte dell’umanità e lo rimarrà fin tanto che le masse non saranno in grado di “pensare” e prospettarsi come concretamente realizzabile una forma d’organizzazione più evoluta. Riconoscere la centralità del lavoro salariato nel sistema capitalistico non significa accettarne l’esistenza, al contrario, proprio dalla consapevolezza del suo essere al tempo stesso alienato e sfruttato nasce l’esigenza della liberazione del lavoro dal suo involucro capitalistico. Lo ripetiamo, liberazione del lavoro e non dal lavoro. Occorre infatti avere ben chiaro che anche in una società di transizione il vincolo di cui sopra non potrà venir meno ma sarà posto a priori mediante forme di pianificazione collettiva. Immaginare una società che sia immediatamente capace di liberarsi da tali vincoli e dominata dalla completa autoregolamentazione significa relegare la propria idea di società, ammesso che se ne abbia una, nel campo del velleitarismo.

Tutt’altra consistenza mostra invece l’idea di un reddito di base erogato esclusivamente a chi per varie ragioni non riesce a vendere la propria forza-lavoro o lo fa in maniera precaria e intermittente. Proprio la “praticabilità” di questa proposta richiede un surplus di analisi e sposta la critica da un piano economico ad uno preminentemente politico. Si tratterebbe in questo caso di un reddito non più “universale” ma “particolare”, poiché destinato ad una sola parte dei “cittadini”. Un istituto che per molti versi appare simile ad un’indennità di disoccupazione, e che nella sostanza non potrebbe che trovarci d’accordo, se non fosse che per chi lo propone dovrebbe comunque essere sganciato dalla propria disponibilità a svolgere un lavoro. In tal caso una parte più o meno estesa della società godrebbe incondizionatamente della possibilità di consumare quello che la restante parte della società sarebbe comunque chiamata a produrre, lasciando quantomeno inalterato il grado di sfruttamento e di alienazione di chi in buona sostanza dovrebbe pagare questo reddito attraverso il proprio lavoro salariato. Invece di ricomporre ciò che quotidianamente il Capitale divide, invece di mettere in discussione le forme della messa al lavoro, si correrebbe il rischio di aumentare la frammentazione del lavoro stesso sancendo un dualismo inesorabile. Questo elemento rappresenta, a nostro avviso, il limite politico maggiore di questa specifica declinazione del basic income. Aggiungiamo poi che dal punto di vista macroeconomico non si tratterebbe, né più né meno, che di una misura keynesiana di sostegno alla domanda. Una richiesta di welfare forte fatta però fuori tempo massimo. Nello specifico ciò che balza agli occhi è la scarsa comprensione o la scarsa considerazione di che cosa abbia realmente rappresentato il welfare state e di come questo fosse legato ad un paradigma produttivo e ad una fase imperialista che ci siamo lasciati ormai alle spalle.

E’ singolare che proprio chi spesso ha rimproverato ai comunisti di essere “novecenteschi” abbia di fatto ancora la testa immersa in un contesto che viene meno ogni giorno che passa. Il patto sociale socialdemocratico, che è bene ricordare ha interessato una minoranza del proletariato internazionale e per un periodo relativamente breve se rapportato alla storia del capitalismo, ha avuto come sostanziale obiettivo quello della pacificazione interna (attraverso l’innalzamento dei consumi) dei territori dei paesi Nato europei e della Repubblica federale tedesca in particolare in virtù della loro posizione geografica strategica rispetto al blocco sovietico. Un “compromesso” che non è stato frutto della generosità padronale ma che è stato strappato con un ciclo di lotte che aveva finito per mettere in discussione i rapporti di potere in alcuni paesi a capitalismo avanzato e che faceva leva tanto sul “potere associativo” quanto su quello “strutturale” della classe (Wright, 2000). Dopo il 1989  e con l’affermarsi della nuova fase imperialista tutto questo viene meno

Occorre tenere bene in conto gli elementi di discontinuità dell’imperialismo contemporaneo rispetto alla fase precedente e provare ad inquadrare i profondi cambiamenti occorsi alla struttura produttiva globale.
Già durante gli anni ‘70 e ’80 fu avviato un profondo processo di ristrutturazione economica nel cuore della metropoli imperialista. Il capitale tentò in tal modo di dare una risposta alla crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, alla crescente conflittualità operaia di alcuni paesi (tra cui l’Italia) e all’esaurimento del ciclo di accumulazione fordista. Sulla scorta dell’esempio dell’industria automobilistica giapponese si andò imponendo il paradigma  di quella che Harvey per primo ha definito “accumulazione flessibile”, con il progressivo abbandono dell’integrazione verticale a vantaggio di sottosistemi interdipendenti e di forme di approvvigionamento just in time. Mentre il toyotismo si diffondeva nei paesi del centro, anche se in forma spuria rispetto al sistema nipponico, nelle periferie veniva invece “esportato” il fordismo. Si è così assistito ad una articolata “combinazione” di varie strategie organizzative che convivono su scala nazionale e mondiale fino alla costituzione di vere e proprie filiere produttive internazionali. Questa evoluzione dell’impresa multinazionale in impresa globale ha poggiato tanto sulla rivoluzione informatica quanto su quella dei trasporti, ovvero su innovazioni di processo che hanno permesso la realizzazione di modelli produttivi a rete senza per questo pregiudicare l’unità gerarchica dell’impresa stessa.
Un salto in avanti a cui è stato dato l’approssimativo nome di globalizzazione e che ha avuto ricadute enormi sulla vita di milioni di proletari che hanno visto universalizzare al ribasso le proprie condizioni di vita. Però gli elementi di discontinuità, a nostro modo di vedere, non si limitano a questo. Nella precedente fase imperialista il ciclo della merce rimaneva tutto interno ai paesi industrializzati. Il know how tecnico e tecnologico rimaneva saldamente e gelosamente nelle loro mani e la produzione delle merci era di loro esclusiva competenza. Questo permetteva di distinguere nettamente il “dentro” dal “fuori” rispetto alla metropoli, e i profitti e le rendite che i blocchi imperialisti erano in grado di rastrellare consentivano loro di redistribuirne una parte a quote importanti di masse subalterne occidentali, legandole di fatto alle loro politiche di dominio. Lo scenario attuale racconta qualcosa di radicalmente diverso. Inseguendo i bassi salari la borghesia imperialista ha trapiantato il grosso della produzione globale proprio nelle aree geografiche dei paesi dominati, ma gli sbocchi per quelle merci sono nel mercato globale, senza protezioni per nessuno. Le ricadute sono rilevanti. In primo luogo salta la contrapposizione tipica della fase imperialista precedente (tra borghesia nazionale e frazione internazionale della borghesia imperialista) poiché il carattere internazionale dell’attuale fase imperialista lega immediatamente a se i comparti delle borghesie nazionali. In secondo luogo diventa sempre più difficile cogliere la rigida suddivisione tra primo e terzo mondo. Nelle metropoli globalizzate, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, primo e terzo mondo convivono fianco a fianco dando vita, all’interno di un territorio apparentemente comune, alla messa in forma di situazioni sociali decisamente contrapposte. Come scrivevamo poc’anzi il portato di questa trasformazione è l’estinzione di ogni possibilità, ma anche di ogni necessità da parte della borghesia, di una qualsivoglia ipotesi “socialdemocratica”. Le sorti delle masse sembrano diventare per lo più inessenziali allo sviluppo e al consolidamento della potenza dei blocchi imperialisti, e non rappresentando più un’importanza strategica rendono inutile la costruzione o il mantenimento di un patto sociale.

E qui arriviamo ad un altro elemento di novità di questa fase imperialista di cui i sostenitori del reddito non sembrano tener conto, ossia la progressiva trasformazione dello Stato Nazione da spazio deputato alla mediazione dei conflitti sociali e alla costruzione del consenso, almeno nel mondo occidentale, a macchina burocratica e militare sempre più finalizzata al controllo disciplinare e militare del “nemico interno”. Attenzione, non stiamo parlando dell’estinzione dello Stato ma della sua trasformazione in gendarme sociale. Uno Stato “scisso” che ai proletari, ai poveri e gli esclusi delle banlieue e dei quartieri marginali si presenta nelle sue vesti repressive, mentre per i ricchi e gli abitanti dei quartieri bene appare ancora come  “democratico” e capace di garantire le virtù del contratto sociale. Alcuni indicatori di questa involuzione sono sotto i nostri occhi e, che lo si voglia o meno, saremo sempre di più costretti a farci i conti: progressiva perdita di potere da parte dei parlamenti, accresciuta concentrazione del potere nelle mani degli esecutivi, semplificazione coatta del quadro partitico, tendenza alla spoliticizzazione di massa e all’individualizzazione della società, crescente predominio dei grandi oligopoli nei mezzi di comunicazione di massa e nell’industria culturale e, per ultimo, crescente trasferimento dei diritti decisionali dalla sovranità popolare verso alcune delle agenzie amministrative e politiche dell’imperialismo. Se il quadro che abbiamo appena tratteggiato si approssima alla realtà ci chiediamo quali siano oggi i rapporti di forza attraverso cui strappare il reddito per tutti o come questa parola d’ordine possa essere utilizzata per ricostruirli, ci tornano così in mente le parole con cui nel 1935 Brecht aprì il congresso internazionale degli scrittori antifascisti: Compagni, parliamo dei rapporti di produzione!

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