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Forconi. Continua il dibattito/3

Il Movimento dei forconi è di destra o di sinistra? È un movimento anticapitalista!

di Michele Castaldo

Mettiamo subito le cose in chiaro: chi si dovesse chiedere se il Movimento dei forconi sia di destra o di sinistra, sarebbe fuori strada. Per capire la natura di qualsiasi movimento sociale bisogna sempre analizzare le cause materiali che lo hanno prodotto e la prospettiva nella quale esso si inserisce. Si tratta di ceto medio produttivo e non: piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, autotrasportatori, commercianti e cosi via che strozzati dalle banche, dai grandi monopoli, dai grandi gruppi finanziari, dai grandi centri di distribuzione ecc. ecc. vengono buttati sul lastrico in quanto attività economiche, unitamente  alle loro famiglie. Si  tratta di un movimento anticapitalista, seppure i “soggetti” in campo sono individualmente capitalisti, per una semplice ragione: in una fase di capitalismo ascendente, i piccoli capitalisti sono conservatori e reazionari, tendono all’arricchimento in una prospettiva generale di crescita del capitalismo; in una fase discendente dell’accumulazione del capitale in quanto Sistema Mondiale, imboccano la strada dell’insubordinazione e alimentano il caos che ne favorisce ulteriormente la crisi. Erano – per certi aspetti – conservatori e reazionari i contadini in Russia nel 1905 e nel 1917 sia rispetto alla rivoluzione proletaria che rispetto all’accumulazione del capitale che aveva la necessità di centralizzare le risorse per sviluppare il capitalismo industriale e mettersi al pari con le altre potenze economiche che crescevano a ritmi vertiginosi. Furono – sempre i contadini russi – rivoluzionari rispetto all’apparato autocratico dello stato zarista. Volevano crescere come accumulatori e furono stroncati sul nascere in modo particolare i più piccoli. Scrive R. Luxemburg: << La riforma agraria di Lenin ha creato nella campagna un nuovo e potente strato popolare di nemici del socialismo, la cui resistenza sarà molto più pericolosa e tenace di quella dei grandi proprietari aristocratici>>. Come darle torto alla luce dei fatti storici?

Oggi, tanto gli autotrasportatori quanto la piccola azienda industriale, agricola o commerciale è soffocata dai gangli del mercato finanziario e dai grandi gruppi monopolistici. Non hanno nessuna possibilità di riprendersi in quanto a settori e categorie, sono destinati al fallimento, nonostante che negli ultimi 20/30 anni hanno usufruito di mano d’opera a buon mercato per l’immigrazione dall’Est europeo e una relativa pace sociale dovuta alla sonnolenza della classe operaia che si è cullata sugli allori di quanto aveva precedentemente guadagnato sia dal punto di vista economico che normativo. E’ da qui che è partito il primo vero e grande distacco generazionale nei confronti del nuovo proletariato, soprattutto per quanto riguarda quello di prima immigrazione. La  rivolta dei ceti che confluiscono nel movimento dei forconi è rivoluzionaria perché va ad alimentare quel caos sociale nemico giurato dell’accumulazione di questa fase. Che gli autotrasportatori o altre categorie manifestino con la bandiera nazionale non vuol dir nulla (tra l’altro lo hanno fatto e tuttora lo fanno anche gli operai), le loro idee contano ancor meno. E’ la loro azione ad essere rivoluzionaria, in quanto tale, perché contribuisce a trasportare una intera comunità nazionale – quella avvinghiata  nella complicatissima rete del Sistema del Capitale – verso la catastrofe e siccome il Sistema odierno non funziona per compartimenti stagni, si potrebbe innescare un processo atomico di reazione a catena dagli esiti imprevedibili. Questo è quanto abbiamo dinanzi, non una nuova accumulazione capitalistica mondiale e nazionale così come avvenne nel primo e secondo dopoguerra. Insomma potremmo dire: mentre nel 1917 i contadini russi furono  rivoluzionari e conservatori ad un tempo, oggi le categorie del movimento dei forconi sono conservatori e rivoluzionari al tempo stesso; nel senso che mentre per i primi c’era una prospettiva all’orizzonte per i secondi quella prospettiva è stata bruciata dallo stesso movimento del modo di produzione capitalistico.

Le prime avvisaglie si erano già avute con il movimento leghista oltre venti anni fa, quando gli stessi settori che oggi si mobilitano contro il governo Letta si organizzarono con Bossi il senatur per poi finire in braghe di tela. Si trattava di una illusione che doveva essere bruciata, ovvero la possibilità che appoggiando il liberismo in economia avrebbero avuto salva la pelle. Sono finiti dalla padella alla brace ed oggi, dopo aver tentato con il voto al M5S di risalire la china, sono alla disperazione, sono contro tutto e tutti. E’ esattamente il prodotto di un Sistema in crisi, che non offre nessuna prospettiva ai settori che per secoli ha alimentato.

Diciamola tutta e fino in fondo: il ceto medio, sia produttivo che commerciale, ha vissuto gli ultimi trenta e più anni nell’illusione della bella vita all’infinito  con ville,  suv, vacanze nei paesi esotici, sniffando cocaina e godendo pagando la carne fresca della prostituzione giovanile proveniente dall’Est Europeo. Non poteva durare a lungo, la crisi dello stesso Sistema che li ha illusi li sta bruscamente e drammaticamente risvegliando e li sta ponendo di fronte ad una realtà che mai potevano immaginare di dover vivere: i monopoli che li bruciano nella concorrenza e le banche che succhiano loro di interesse in interesse il restante ossigeno necessario alla sopravvivenza. Si stanno mobilitando all’insegna di un antico arnese ormai in disuso dei contadini, il forcone,  proprio a dimostrazione di quanto siano antiquate le loro aspirazioni: il ripristino di uno status quo ante, ovvero di un ritorno all’antico. Che in dette manifestazioni affluiscono giovani e giovanissimi definiti ultras delle tifoserie dagli organi di informazione per discreditarne l’azione non deve meravigliare, resta il fatto che si tratta di una marea montante di malessere che come un fiume in piena si riversa negli alvei casuali che incontra. I giovani, di cui si parla, sono privi di prospettiva allo stesso modo dei settori economici buttati sul lastrico, è perciò ovvio che confluiscano nelle stesse manifestazioni con la stessa rabbia. Dunque fanno benissimo quei gruppi di compagni, circoli e singoli militanti che stanno scendendo in piazza contro il governo e contro le forze repressive dello stato democratico che si fa garante di un Sistema in crisi che colpisce – per tenersi in vita – tutti i settori sociali, compresi quelli che avrebbe dovuto allevare. Essi danno l’indicazione al proletariato tutto di destarsi da uno stato di sonnolenza nel quale è  caduto e di cominciare ad affrontare allo stesso modo di questi settori lo scontro sociale che si va delineando come obbligato dalla crisi.  

Il Comunismo materialista addita nel Sistema del Capitale e nella sua crisi la causa dell’impoverimento e della loro disperazione; ne incoraggia l’azione tendente a far dimettere il governo e mandare a casa tutto quel sottobosco politico e sociale annidato nelle istituzioni democratiche dello stato che è proliferato negli anni di vacche grasse. A questo punto molti compagni si potrebbero chiedere: e  dopo? La risposta deve essere in questo modo articolata: c’è innanzitutto un ‘prima’ da capire, solo sulle macerie del ‘prima’ si costruirà il ‘dopo’; in base ai rapporti di forza che si andranno successivamente a determinare fra le classi. A chi troppo si chiede del ‘dopo’ sfugge di capire il ‘prima’, ovvero quello che sta succedendo sotto i nostri occhi. Si tratta di una crisi generale, di Sistema, è l’intero edificio che incomincia a scricchiolare dalle fondamenta. E’ del tutto naturale che quando un sistema si avvia verso il crollo c’è caos, confusione, disordine, un sovrapporsi e intrecciarsi di tendenze e controtendenze ecc. ecc., insomma un magma che strada facendo si connoterà ed assumerà le caratteristiche di un nuovo prodotto sociale oggettivamente determinato. Si tratta del cammino della rivoluzione anticapitalista, non può che essere così come si sta mostrando. Il proletariato non potrà continuare a rintanarsi passivamente nelle fabbriche perché non potrà in alcun modo sottrarsi ad uno scontro antisistema di portata epocale.

Titola la Stampa, quotidiano di Torino della Fiat:  << Forconi, la protesta fa paura! >> A chi fa paura questo tipo di protesta? Fa paura a tutti coloro che si ostinano a difendere un Sistema sociale che fila dritto verso la catastrofe, fa paura a banchieri e grandi monopoli, consorzi di multinazionali, finanzieri e speculatori, fa paura a una cricca di parassiti allevati nelle burocrazie dei partiti. Insomma fa paura – questo tipo di protesta – a chi non subisce al momento i colpi della crisi o che la scarica sui settori che messi alla fame si stanno ribellando.  Scrive Michele Brambilla su La Stampa del 11/12 << Le manifestazioni di questi giorni [….] si tengono con la testa piena (di paura) per una pancia che potrebbe essere presto vuota (di cibo)>>. Ecco la serpe allevata in seno da un Sistema che si riteneva eterno, democratico, progressista, audace, insomma il miglior mondo possibile e che invece come tutti i fenomeni materiali si va esaurendo. Venendo meno le ragioni che li hanno prodotti si avviano inesorabilmente al declino; con i tempi necessari, ma in maniera irreversibile. Insomma abbiamo dinanzi una prospettiva di caos totale, di disordine sociale. Ma nessuna rivoluzione si è mai presentata nella storia come omogenea. Solo gli ingenui possono ipotizzare una rivolta a propria immagine. Le rivoluzioni hanno il loro corso obbligato da fattori storicamente determinati. La rivoluzione in corso di questi anni  ha i suoi connotati di natura capitalistici. Confusa, disordinata, disomogenea, discontinua ecc. ecc., sono i caratteri propri delle rivoluzioni.

Un dettaglio su cui riflettere.

I mezzi di informazione hanno dato ampio risalto al fatto che a Torino alcuni agenti della celere si siano tolti il casco quale gesto di solidarietà e di fraternizzazione con i manifestanti. Si potrebbe essere indotti a notare – così come fanno certi ingenui e schematici compagni – la differenza tra l’agire dei reparti della celere nel 2001 a Genova e questo gesto di Torino per affermare un diverso atteggiamento motivato dal fatto che si tratta di piccoli capitalisti e per questa ragione protetti dalle alte cariche dello stato e degli apparati di polizia. Sarebbe un giudizio molto superficiale che non coglierebbe il segno dei tempi. La polizia è composta di uomini in carne e ossa che rispondono a  impulsi che la società nel suo complesso trasmette loro, non sono macchine, non sono bionici e fiutano l’aria, sanno capire e adeguarsi alle circostanze, insomma sono influenzati anch’essi  dalla crisi di Sistema e offrono il ramoscello d’ulivo togliendosi il casco.  Non si è trattato di <<Un comportamento ordinario collegato al venir meno dei problemi di ordine pubblico>> come si affretta a dichiarare qualche solerte vicequestore per negare l’influenza avuta dalla determinazione di forza dei manifestanti nei confronti dei poliziotti. A Torino il casco lo hanno tolto quando il rapporto di forza si è determinato a loro sfavore.  La massa dei manifestanti – che ha un istinto ferino – dal momento che non intende scontrarsi con la polizia come fine a se stesso, ha applaudito e in un certo qual modo fraternizzato. Questo dimostra quanta strada è stata fatta da quel luglio 2001 in una gelida  Genova ad oggi. Non è una rondine che fa primavera, certo, non si tratta di una inversione di tendenza definitiva, molte altre prove dovranno superare le forze dell’ordine democratico al servizio del capitale, ma quando si apre una crepa è segno che la tenuta generale non è più garantita. Il segnale va colto e non respinto da parte di quanti si richiamano agli interessi degli oppressi senza abbassare la guardia e ritenere le forze repressive dello stato amiche della causa del proletariato. Si tratta di una prima crepa, per arrivare alla frana ce ne vuole.

In ultimo una annotazione di ordine per così dire teorico da parte di chi – come chi scrive – si richiama al materialismo storico e dialettico. Federico Engels nel famoso libro ‘Antidühring’ sostiene che  è l’economia che crea e determina la forza, non viceversa; che la forza prodotta dall’economia viene ad essere utilizzata in maniera concentrata nello stato come guardiano dei rapporti economici esistenti di natura capitalistici. Dunque se rallenta l’economia, si riduce necessariamente la quota di investimenti nel mantenimento della ‘forza’ a guardiano dell’economia stessa.  Non è perciò lo stato che investe meno sulla polizia, ma è l’economia che riducendo la sua crescita riduce la quota parte da far affluire allo stato per il mantenimento della forza necessaria a sorreggerlo. Di conseguenza, i turni “massacranti” dei poliziotti, la mancanza di maggiori mezzi, l’impossibilità di pagare ore straordinarie ecc. ecc. sono l’effetto di minori entrate nelle casse dello stato da parte del volume generale dei rapporti economici in un paese imperialista come l’Italia. Il fatto che il poliziotto si tolga il casco antisommossa di fronte ai manifestanti è la raffigurazione plastica  di un mutato rapporto tra l’economia, la sua forza con lo stato e questo con alcune  classi sociali che impoverite si ribellano e trovano traballanti i poliziotti. 

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Sinistra, svegliati!

di Mimmo Porcaro

Il movimento dei forconi è ambiguo, rozzo, largamente influenzato dalla destra estrema. Certo. Ma se sono vere le cose che da tempo diciamo sugli effetti della crisi, sulle trasformazioni (e disgregazioni) del mondo del lavoro, sulla chiusura del sistema politico, sulla natura liberista del PD e sulla subalternità dei sindacati maggioritari, se sono vere tutte queste cose, è allora inevitabile che ogni radicale protesta popolare assuma forme ambivalenti e diventi oggetto di una contesa tra destra e sinistra riguardo agli obiettivi ed ai modi dell’azione. Ed è inevitabile quindi assistere ad un crescere di proteste senza vero e proprio conflitto, di conflitti senza un vero e proprio movimento, di movimenti decisamente segnati dal populismo, ossia dall’illusione del “tutti a casa”, dall’incapacità di individuare gli avversari, dalla tendenza a prendersela con altri poveracci, dalla fascinazione per un capo ed uno stato autoritari. Sarà certamente questione di gradi, di analisi fattuali, di valutazioni fatte caso per caso, e magari quello del “9 dicembre” risulterà essere un caso particolarmente ambiguo. Ma nessun movimento potrà più essere giudicato “prima”, senza parteciparvi o senza aver tentato di farlo, senza attraversarlo e senza averne separato il buono ed il cattivo: senza aver proposto dall’interno un’altra definizione dei fini e dei mezzi. D’ora in poi snobbare o contrastare una mobilitazione perché è in odore di populismo significherà snobbare o contrastare qualunque mobilitazione. Tranne quelle sindacali, che però (e non è un caso) latitano, o quelle studentesche, che però (e non è un caso) alla lunga sono inefficaci.
Se la sinistra vuol tornare ad essere sinistra e a contare qualcosa deve quindi allontanarsi dall’atteggiamento che oggi sembra prevalere al suo interno. Se vuole essere una soluzione per il Paese deve pima riconoscere di essere, essa stessa, una parte del problema. Perché la sua componente maggioritaria è da tempo passata al nemico ed è corresponsabile della distruzione neoliberista della democrazia e dello stato sociale (altro che “pericolo di destra”… la destra più pericolosa c’è già ed è già al potere, si chiama “larghe intese”, si chiama “Grosse Koalition”, si chiama PD e sedicente “socialismo europeo”…). Perché l’alternativa della democrazia partecipata proposta da ciò che resta del movimento altermondialista è debolissima rispetto all’esigenza ormai acuta di trasformare i rapporti di proprietà, e soprattutto è incomprensibile per quella larga parte del popolo che non ha il tempo e le risorse per partecipare ad alcunché. E infine perché la stessa sinistra radicale, forse spaventata dalle conseguenze delle proprie migliori analisi, non riesce ad emanciparsi dalla trappola dell’europeismo (e dell’euro), non riesce a proporre fin da oggi soluzioni neosocialiste in grado di traghettare il Paese fuori dalla subalternità al capitalismo atlantico, non riesce a costruire un discorso “nazionaldemocratico” capace anche di prevenire il diffondersi del nazionalismo di destra, non riesce a svincolarsi dall’idea che l’unica vera lotta popolare sia quella della CGIL, o di movimenti da sempre legati alla sinistra (come il benemerito movimento No Tav).
Bisogna smetterla con esitazioni ed illusioni. Bisogna svegliarsi. E cominciare magari a porre una buona volta il problema dei problemi: che è quello di rompere l’alleanza tra le frazioni sindacalizzate (e qualificate) del lavoro ed il capitalismo europeista, e l’alleanza tra le frazioni più deboli del lavoro ed il capitalismo protezionista, per costruire una vera unità del lavoro subalterno (dipendente o no). Come si può fare? Si può fare concentrando gli sforzi sulla rottura dell’oligopolio dei sindacati maggioritari, senza quindi accodarsi sempre alla Fiom e senza sperare sempre nel rinsavimento della CGIL. Si può fare costruendo comitati popolari contro la crisi (e quel “partito sociale” di cui spesso ci limitiamo a parlare) capaci di muoversi nel magma dei conflitti attuali. Si può fare elaborando idee forti, certo (nuovo socialismo, nazionalismo costituzionale e democratico…), ma anche idee apparentemente più prosaiche. Comprendendo, ad esempio, che la questione fiscale ha cambiato forma, perché se il piccolo evasore degli anni passati difendeva la propria ricchezza sottraendola allo stato sociale, quello di oggi – vista la durezza della crisi e visto il crescente dirottamento del denaro pubblico verso il pagamento del debito – si difende dalla miseria sottraendo denaro alla speculazione. Non dobbiamo certo fare l’elogio dell’evasione, ma riconoscere che chiedere oggi la normalizzazione fiscale è condannare la gente alla fame. Riconoscere che la durezza delle sanzioni sui “piccoli” è effetto della scelta di non chiedere denaro ai “grandi”. E riconoscere che se i lavoratori sindacalizzati proponessero, invece della generica lotta all’evasione, una riduzione del carico e delle multe per i “piccoli” ed un deciso aumento della tassazione delle rendite e delle plusvalenze, riuscirebbero finalmente ad attrarre a sé sia le “partite IVA per forza”, ossia gli strati dequalificati del lavoro, sia i lavoratori autonomi di seconda generazione e di alta qualificazione. E soprattutto incrinerebbero quella loro nefasta alleanza col grande capitale che, riflessa nelle incapacità e nelle colpe della sinistra attuale è, ad oggi, il principale ostacolo ad una soluzione democratica della crisi italiana.
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Due brevi note sui forconi e sulla composizione di classe
di Nico Macce

1. Il fatto che questo “movimento” si sia spaccato sul “rischio di violenze” e le componenti riferite a Ferro abbiano disdetto la manifestazione di Roma, non credo che riveli una volontà di uscita dalle ambiguità e dalle collusioni con i neonazi. Ma anche se fosse, tricolori oppure no, occorrerebbe andare oltre le ragioni di superficie nel definire questo movimento, la sua direzione principale come reazionari. Ed occorre. Le componenti che hanno dato vita al movimento (non parlo quindi delle aggiunte successive, studentesche e più proletarie), non puntano a una sollevazione in senso collettivistico, ma a una restaurazione delle precedenti condizioni, quando fare piccolo commercio, essere padroncini e artigiani dava margini di profitto adeguati a una vita di benessere. Ora che questi settori sociali, di lavoro autonomo e piccola imprenditoria sono massacrati dall’economia del debito e dalle politiche dell’austerità, non accettano l’impoverimento e rispondono con tutto l’egoismo di parte che hanno sempre avuto e che esiste sottotraccia. Non lo sanno, ma si stanno proletarizzando, ossia stanno diventando funzionali al grande capitale, agli oligopoli industriali e finanziari che hanno bisogno di una massa precaria da utilizzare alla bisogna e alle condizioni salariali imposte. Bisogna spiegarglielo, ma a monte, nei luoghi di lavoro, sul territorio, piuttosto nel bar. Non nelle piazze forcaiole. Bisogna spiegarlo, certo, ma non a tutti, questo si è capito, perché le condizioni d’esistenza e di lavoro e le ricadute di questo attacco capitalista non sono uguali per tutti, non siamo di fronte a un operaio massa omogeneo per condizioni.

2. Tutta l’architettura del cognitariato come soggetto rivoluzionario centrale, va a farsi benedire (non ci volevano i forconi per capirlo, bastava vedere meglio nelle nostre periferie). Molti degli studenti in piazza a Torino, per esempio, non accederanno mai all’università, il proletariato giovanile, gli elementi da stadio, i soggetti che vivono il degrado delle nostre banlieu usano il cellulare solo per parlare della Juve. In Italia viviamo un analfabetismo di ritorno, perché così come sono stati attaccati i cicli produttivi in cui l’operaio massa esercitava tutta la sua rigidità, è stata attaccata anche l’università e tutto il sistema dell’istruzione, anche, non solo, ma anche per gli stessi motivi. Quindi possiamo dire non di vivere proprio un post-cognitivismo (il quale c’è ed è parte della classe), ma comunque un’allargamento della base sociale frammentata e scomposta nei cicli della riproduzione sociale del capitale.

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Contraddizioni e composizione viste da dentro

 Collettivo La Sciloria (MI)

In questi giorni  e’ in corso la mobilitazione denominata dai media, dei forconi. Una mobilitazione nata da alcune organizzazioni corporativiste e fasciste che dopo una promessa di incontro con il governo si sono tirate indietro. Gli annunciati blocchi di autotrasportatori  e agricoltori non si sono quindi verificati se non in minima parte e in zone ristrette.

Il primo dato oggettivo da considerare è che attraverso la rete questa mobilitazione ha avuto larga presa tra quei proletari costretti a fare i conti con disoccupazione, precarietà e povertà reale.

Infatti, nell’ultimo periodo, durante le nostre iniziative, volantinaggi e presidi, ci è stato spesso chiesto cosa pensassimo in merito a quest’appello del 9 dicembre e se ci avremmo preso parte.
Come tanti compagni, anche le nostre conclusioni al riguardo liquidavano la questione semplicemente come una mobilitazione diretta da settori piccolo e medio borghesi, da fascisti e reazionari, tra autotrasportatori, agricoltori e bottegai, che nessun interesse certo nutrivano nei confronti dei proletari. 

Indubbiamente la mobilitazione nasce da questi settori ed è palese che le parole d’ordine che oggi guidano le mobilitazioni sono assolutamente reazionarie.
Altrimenti non accadrebbe che la Polizia lasci fare i blocchi senza intervenire, che il Siulp esprima solidarietà verso le mobilitazioni e che i media diano tanto spazio ad un movimento comunque limitato nella portata reale.

Premesso che ogni città ha espresso modalità e componenti diverse tra loro, in base alla nostra esperienza, crediamo che sia esagerato e sbagliato parlare con leggerezza di colpo di stato e siamo convinti che non ci sia una regia dall’alto alla guida delle proteste ma tante micro realtà politiche di destra che stanno provando a egemonizzare politicamente e strutturalmente la piazza.
Insomma ci sono mille contraddizioni e mille modi di vedere quello che sta succedendo, ma crediamo che il metodo migliore sia di andare a toccare con mano senza accontentarsi di quello che viene scritto in rete o sui media, superando gli steccati ideologici nel vedere una bandiera italiana o sentire slogan che non sono i nostri. Tutte cose che, ripetiamo prima di essere accusati di essere rosso-bruni, fanno schifo anche a noi. Precisiamo anche che non vogliamo né esaltare né minimizzare la mobilitazione.

Per questo spinti dal rapporto quotidiano con i disoccupati sul territorio, che da subito hanno preso parte al blocchi di Rho-Pero, abbiamo “immerso le mani nella merda” tappandoci il naso e siamo andati a vedere la reale composizione di questo movimento.
E quello che abbiamo riscontrato e’ una situazione sicuramente diversa da quelle a cui siamo abituati, ma con un presenza di disoccupati e proletari giovani molto forte. Non abbiamo visto fascisti organizzati, pochi sono i bottegai che hanno partecipato alla protesta così come il razzismo e il fascismo culturale e’ relegato a singole persone ma non poteva egemonizzare la piazza. Anzi ci sono anche extracomunitari all’interno del presidio e nei discorsi tra i giovani disoccupati e precari emergeva chiaramente che dobbiamo stare uniti italiani e stranieri senza divisioni.
Certo gli slogan sono quelli lanciati dal movimento dei cosiddetti forconi e le bandiere italiane sono il collante della piazza. Ma in questo caso, sbagliano tutti quei compagni che accomunano la bandiera italiana o gli slogan a difesa dell’Italia ai fascisti, non e’ nulla di tutto questo.
L’impressione che si ha e’ quella di una mobilitazione che è’ montata e ha stravolto tutto il pacchetto costruito dagli organizzatori.
Una piazza spontanea, non guidata da nessuno e in cui i giovani (200/300) disoccupati dei paesi intorno a Rho hanno voluto esprimere la rabbia per un futuro che non c’è, giovani che non hanno mai partecipato in precedenza a cortei o blocchi.
Ma attenzione non perché condividano le parole d’ordine lanciate o siano fascisti, ma semplicemente perché una serie di circostanze li ha fatti confluire in questo momento su questa piazza.

Allora ci chiediamo cosa sarebbe successo se un corteo di centinaia di compagni avesse portato solidarietà al presidio? O se le realtà di compagni avessero lanciato obbiettivi e parole d’ordine di un certo tipo? Non lo sappiamo la domanda è aperta a tutti/, sicuramente avrebbe messo in moto ulteriori contraddizioni e forse avrebbe egemonizzato la piazza portando parole d’ordine che difendono realmente gli interessi di disoccupati e precari.
Invece questi giovani e meno giovani disoccupati sono in balia di illusioni dentro una mobilitazione senza obiettivi, che tra poco molto probabilmente rifluirà e non sappiamo cosa lascerà dietro di se.

A ognuno la scelta di rimanere fermi nei salotti o di riuscire a entrare anche nelle mobilitazioni che non sono affini a noi ma che hanno potenziale di prospettiva nella composizione.

Collettivo la Sciloria – Rhodense/Altomilanese

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Nota sul movimento dei forconi

di Paolo Ferrero

A sinistra la valutazione del movimento dei forconi è stata ed è assai differenziata. Per semplificare, da chi ha sostenuto che era un movimento fascista e golpista a chi ha sostenuto che si tratta di un genuino movimento di ribellione contro il neoliberismo. Non concordo con queste interpretazioni e provo qui di seguito a dare una prima lettura di cosa sta succedendo e di cosa è opportuno fare.

Innanzitutto considero necessaria una nota metodologica: di fronte a movimenti compositi, propri di una fase di guerra di movimento in cui tutto si muove rapidamente, è assolutamente necessario distinguere i fenomeni sociali dai fenomeni politici e distinguere all’interno di questi tra i comportamenti politici antagonisti (di vario colore e natura) dai comportamenti del potere costituito. Senza questa elementare distinzione sul piano analitico a mio parere non si capisce letteralmente nulla perché si tendono a fare delle equivalenze che forse potevano avere una loro validità nella fase precedente ma che oggi risultano false.

Utilizzando questa griglia di lettura mi pare di poter dire che:

1)      Gli organizzatori del movimento dei Forconi non sono un corpo unico e hanno al loro interno significative forze di destra. Abbiamo il movimento dei Forconi vero e proprio, guidato da Ferro, come alcune aggregazioni degli autotrasportatori, di agricoltori o di artigiani. Abbiamo poi Forza Nuova e i gruppi ad essa contigui – o a cui essa ha dato vita come vere e proprie organizzazioni collaterali – giocano un ruolo significativo, così come altre sigle di destra – a partire da casa pound – sono bene presenti nell’organizzazione del movimento. In alcune realtà territoriali si sono poi aggregati nell’organizzazione degli eventi parti di ultras, generalmente legate a realtà di destra. Così come in talune realtà vi sono state significative presenze della malavita locale, che ha dato un supporto significativo all’organizzazione dei blocchi, al controllo del territorio, al carattere maschile ed autoritario di varie azioni.

Da questo punto di vista non è certo sbagliato dire che l’organizzazione della Rivolta dell’immacolata – come viene chiamata da Forza Nuova – ha una indubbia impronta di destra estrema, nonostante i riferimenti di fedeltà alla Costituzione repubblicana.

 

 

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