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Forconi e dintorni. Alcune riflessioni

Qualche piccola riflessione di metodo e di merito con qualche spunto critico e autocritico.

Abbiamo letto e continuiamo a leggere molto del fenomeno “forconi” con alcuni ragionamenti che condividiamo e altri che, purtroppo, troviamo tendano a scadere nel sociologico e questo, crediamo, non sia una buona base di partenza per comprendere quello che sta accadendo.

Un altro elemento negativo che annotiamo è che, dopo un primo momento di confronto aperto ai contributi, ci sembra di assistere ad un arroccamento sulle proprie posizioni e questo è un ulteriore errore perché spinge l’acceleratore su uno sterile senso di autosufficienza ben poco foriero di prospettive. Un trascinare la verità come una coperta, però, sempre un po’ troppo corta da non riuscire a conformarsi a tutte le nostre analisi. Ci interessa di più, invece, provare piuttosto a comprendere le conseguenze e i presupposti oltre che la portata di fenomeni di piazza che blanditi e “pompati”, fin che serve, dal circo mediatico in maniera inverosimile, hanno invece trovato ogni tipo di mediazione e accondiscendenza da parte delle forze dell’ordine.

Un’operazione montata ad arte perchè contiguità imprenditoriali mafio-camorristiche, più vicini ad un’area politica della destra radicale, speravano in una reazione più forte del “popolo” italiano propedeutica ad una richiesta di governo “forte” se non addirittura di un “uomo” forte…

Possiamo tranquillamente dirci che, in Italia, gli anticorpi verso derive esplicitamente autoritarie si sono molto appannati ma, nonostante questo, ciò che ha smontato queste aspirazioni è il fatto evidente che già oggi una forma di democrazia autoritaria si sia affermata come sistema politico di dominio di classe e che questo non necessiti, almeno per ora, di “forconi incontrollati “ per le strade.

Le urla della piazza contro i politici ladri, contro la casta e il tutti a casa (di grillina memoria) sono state quindi utilizzate da chi vuole alzare la posta di ciò che è ottenibile da questo governo dal punto di vista della diminuzione del carico fiscale, di esenzioni di imposta, di agevolazioni corporative ecc….e cavalcate da chi, come la Confindustria, ha i suoi obiettivi precisi di riaccumulazione di margini di profitto erosi dalla crisi.

Queste piazze hanno però evidentemente espresso rivendicazioni diverse, in relazione alle singole diverse città e situazioni, unite dal collante di un disagio reale che il rullo compressore della crisi sta producendo. Forse alcune città sono state diverse dalle altre, ma è anche evidente che forse tutta questa “rivolta” è stata molto più circoscritta di quanto appaia.

Ma per, essere chiari, noi in questi bagno di “popolo” non ci siamo stati.

Giudichiamo anzi criticabile l’inseguire teorico e pratico dell’abbaglio di una “forza sociale” che non si è venuta a definire, da nessun punto di vista la si guardi, neanche come elemento embrionalmente antisistemico, come neanche ascrivibile all’appello alla legalità repubblicana incarnata da Di Pietro e la sua banda al tempo di mani pulite, ma piuttosto abbiamo rivisto i connotati della Lega lombarda prima maniera, il cui essere antistato esprimeva la pancia visceralmente anticomunista di settori sociali che vedono ogni forma di regola (e non solo una burocrazia parassitaria statale) contraria ai propri interessi individualistici e corporativi.

 Anzi, crediamo sia cadere in errore il trovarsi a rincorrere situazioni di “movimenti” interclassisti dove il baricentro (come interessi di classe) è stato un ceto medio una volta florido e ora compresso o marginalizzato da una crisi di sistema, anche se in quelle piazze si sono visti pezzi di classe espulsi dal ciclo produttivo e ritornati ad essere esercito industriale di riserva per una organizzazione capitalistica certamente mutata e riversata nei territori a tal punto da modificare la stessa composizione della classe.

E su questo, non ci soffermiamo perchè tutti noi abbiamo già riempito pagine di ragionamenti per attualizzare i nostri strumenti d’analisi traendo conclusioni anche molto diverse.

Questo però ci fa dire che non è vero che non sia successo niente.                

La tragedia orizzontale del quotidiano ha creato rabbia. Molta rabbia, moltissima rabbia diffusa. È innegabile che ci sia malcontento e che la crisi abbia trascinato tanti strati sociali fuori dalla compatibilità con l’euro e con la speculazione bancaria.

Come è anche vero che ciò non colpisca solo la classe operaia e che, anche se con proporzioni limitate, molti elementi si siano  sovrapposti e mescolati creando molti dubbi e confusione fino al porsi la domanda ….e se ci fossimo andati in maniera organizzata?

No, cari compagni e compagne, a costo di sembrare dogmatici, siamo ancora tra chi pensa che ci sia una centralità della classe, pur con tutta la sua diversa composizione, e che tocchi alla classe, senza alcuna scorciatoia, costruire un percorso autonomo di conflitto capace di attirare a sé e rappresentarsi come forza egemone rispetto altre classi in bilico e proletarizzate dalla crisi del sistema economico capitalista.         

Questa è e rimane la centralità dell’impostazione di chi pensa che lo sviluppo delle società sia il prodotto dello scontro tra interessi inconciliabili.

I soggetti che abbiamo visto per le strade sono parte di questa classe?

Certamente si, per quanto riguarda la parte di lavoro falsamente autonomo ma organicamente inquadrabile come dipendente mistificato da una contrattualistica che ha generato ulteriore precarietà.

Assolutamente no quando si parla del “cuore” organizzativo (la reale base sociale) che ha dato impulso alle piazze, che ne ha gestito l’immagine e che ha provato a produrre un “immaginario” buono per tutti.                                                 

 E questa parte più organizzata (non parliamo dei fascisti) non incarna certo una rabbia anche generica contro il potere per provare a sostituirlo con un altro che collettivizzi i mezzi di produzione, benessere e libertà. Anzi pensa di dover ritornare a un capitalismo che dispensa(va) privilegi, che tollera un’evasione fiscale non solo come condizione di sopravvivenza ma come elemento strutturale, che blandisce questi stessi ceti per assicurarsi stabilità elettorale (a destra). Una parte della galassia berluconiana che lì vorrebbe tornare ma è diventato impossibile.

E questa direzione è sbagliata prescindendo da chi ha attraversato queste piazze.

E in questo non vogliamo utilizzare alcun artificio dialettico per estremizzare una posizione diversa dalla nostra, non si tratta di fascismo o antifascismo e neanche di compatibilità o rivoluzione/sovversione.

Si tratta di non correre dietro ad ogni sasso lanciato perché è manifestazione di combattività nell’illusione di dargli una direzione antagonista (una volta avremmo parlato di egemonia politica ma ora sembra quasi un’imposizione autoritaria).

Si tratta soprattutto di stare con i piedi per terra senza cercare scorciatoie e senza convincersi, in mancanza di altre prospettive, che mille fuochi di colori diversi possano rappresentare l’inizio di un incendio e questo crediamo non sia parlare da una torre con supponenza.

Questa ultima considerazione ci pone davanti ad un problema serio e cioè, per dirla franca, che siamo ancora collettivamente proprio impreparati ad affrontare in termini complessivi la realtà in cui interveniamo.

Tanto siamo tesi a valorizzare ognuno il proprio pezzettino di conflitto.

Dalla sconfitta storica di fine anni ’70, come punto a capo di almeno un decennio di lotte che hanno immaginato un superamento della società capitalista, ci portiamo dietro o abbiamo consolidato nel passato prossimo, ancora un’incapacità di comprendere il futuro. In cerca di scorciatoie evocative che ci facilitino il lavoro (appunto scorciatoie) e ci garantiscano una provvisoria sopravvivenza politica, cadiamo a turno con i paraocchi nella definizione di classe operaia come tuta blu fordista, nel genericissimo siamo il 99 % e nell’ancor più generiche moltitudini, nel movimento dei movimenti, in ribellioni metropolitane, fuoco alla prateria e quanto più ci piace. Nello scambiare la radicalità con la quantità di sassi tirati. Per non parlare del cognitariato e della centralità della circolazione di capitali. Tutto quantomeno inadatto alla fase.

La verità è che tutte le formule in quanto tali sono deboli. Tanto più appoggiare una rivolta tanto per appoggiarla. Romanticamente (e criticamente) London richiamava il popolo degli abissi nel tallone di ferro. Rivolte “forti” e incapaci nella prospettiva. Ma la verità illuminante è questa. Siamo deboli e osserviamo o ci caliamo in rivolte deboli. Forti magari nelle vampate ma deboli e contraddittori se non profondamente negative nella prospettiva.

 Il problema è dato senza girarci intorno.

Siamo noi che senza via ci mettiamo in gioco nel quotidiano. Un quotidiano che però non è solo sperimentazione, che non può essere solo sporcarsi le mani nelle contraddizioni a cui tutti facciamo riferimento. Perché queste, la sperimentazione e l’inchiesta, hanno una loro importanza, coerenza e valenza anticapitalista anche se calate in un terreno difficile, solo se supportate e poste all’interno di un processo di verifica (prassi teoria prassi) senza il quale tutto si consuma senza lasciar traccia, nemmeno un gratificante “almeno ci abbiamo provato”.

Così siamo deboli nel capire che prima di tutto dobbiamo fare altro. Questo altro è difficile e non ammette scorciatoie per sradicare decenni di egemonia concertativa, questo altro è parlare con la classe. La nostra classe. I nostri interessi. In tutti rivoli che la trasformazione della struttura produttiva capitalista ha decentrato nei territori.

Riuscire a ricreare la forza ideale e sociale della nostra classe di riferimento.

Accentuare i conflitti, dargli una valenza che travalichi l’aspetto rivendicativo, tendere a inserire elementi ricompositivi dei vari settori di classe e di tutti i pezzi di conflitto sul territorio nazionale.

Questo è il primo imprescindibile passo: rimettere al centro la contraddizione primaria tra capitalismo e lavoratori. E non è solo una prospettiva che poniamo all’attenzione degli altri compagni e compagne ma è un qui ora subito da affrontare ognuno per le proprie specificità d’intervento.

Quanto il resto si possa legare a questo processo è direttamente proporzionale a quanta forza la classe in sé e per sé saprà dimostrare e anche, con tutta l’umiltà possibile, a quanto noi saremo in grado di essere interni a questi conflitti e quanto saremo capaci sviluppare e suscitare processi di autorganizzazione.

Perché l’oggettivo non coincide con il soggettivo e anche questo è qualcosa non per tutti scontato ed è un metodo che poniamo all’attenzione dei compagni e delle compagne e che ha a che fare con il presente e il calarsi nelle contraddizioni, il dare sostegno. Lo schierarsi a fianco non basta e non è sufficiente se non ci si dà una prospettiva.

Quando tutto questo sarà in moto – e non è un aspettando Godot, ma un provarci qui e ora – determinerà come organizzarsi in modo comunque nuovo rispetto al passato, e saremo noi a essere trascinati e/o messi alla prova dal nuovo contesto. Comprendendo anche che la classe oggi non sente le nostre parole anche per colpa nostra e quello che serve è altro. È il lavoro quotidiano di cui ha bisogno una prospettiva di trasformazione radicale della società: dei picchetti ai cancelli, a quelli in difesa del diritto ad una casa, della difesa dei territori, della messa in rete al di là dell’area di appartenenza.

Per uscire dalla nostra residualità senza viaggiare di volta in volta interni a qualcosa che proporrà comunque cose non nostre. Per pianificare un livello di conflitto da gestire in relazione a rapporti di forza da ribaltare.

Perché una rabbia diffusa è presente. E non riusciremo certo a capirla e tracciarla tutta. Ma partiamo da quella della nostra classe, lavoriamo per dargli organizzazione, ricomponiamo sul terreno del conflitto ciò che il capitalismo ha scomposto e in base a questo poi vedremo chi è amico e chi no.

I compagni e le compagne del Centro Sociale Vittoria

www.csavittoria.org mail: vittoria@ecn.org

 

 

 

 

 

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