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Sionismo, imperialismo, lotta di classe: cenni per una lotta internazionalista

(contributo per il convegno sul sionismo del 1/12/2013 Torino)

La storia ha accelerazioni. Si muove per salti di qualità. Le cose mutano in continuazione. Su questo occorre porre il punto: le nostre analisi sono sufficientemente aggiornate? Soprattutto, siamo in grado di uscire dalla scadenzismo e dall’emergenza che spesso sulla questione palestinese (e non solo) ci ha fatto muovere senza progettualità e senza una compiuta analisi dello stato dell’imperialismo e delle classi nelle singole particolarità territoriali e nazionali?

Certo è che anni di ritardo pesano sul nostro quotidiano. Su questo siamo, crediamo, tutti consapevoli per dato oggettivo e soggettivo. Ne consegue che anche il contributo che segue non è (e non vorrebbe) essere esaustivo bensì inserito nel dibattito in atto nei positivi convegni che quest’anno hanno segnato un nuovo percorso per la solidarietà internazionale.

Partiamo comunque da una certezza: le contraddizioni in atto sono più acute. Nuovi attori sono in gioco sul piano internazionale. Nuovi fatti dimostrano i conflitti. Anche il sionismo è mutato. Più forte e più debole.

Gli interessi si sono intrecciati e forma e sostanza delle politiche nel medio oriente (e non solo) si sono sviluppate al punto da formare alleanze e debolezze prima difficilmente ipotizzabili. Molti stati arabi e del mediterraneo hanno visto mutamenti interni e, in particolare, l’Egitto ha visto stravolto più volte negli ultimi due anni il proprio approccio con Gaza e Tel Aviv. La stessa crisi economica sta lasciando il segno: i grandi interessi imperialistici hanno margini sempre più ridotti, i conflitti si sviluppano in modo sempre più accentuato e le ricadute sul medio oriente sono di notevole rilevanza.

Ma un ulteriore questione, strettamente legata alla solidarietà internazionale, si pone. Le rivolte arabe cosa hanno evidenziato? Dalle lotte di questi anni chi è emerso come vincente? Perché non tutte le lotte sono (o sono state) uguali? Ha senso ancora oggi, lontano dalle lotte anticoloniali del dopoguerra, il concetto di fronte tra le classi?

Su queste domande (come su altre) occorre ricostruire una solidarietà internazionale. E’ una questione di metodo e di sostanza: non affrontarla nel modo corretto porterebbe all’errore di appoggiare una lotta nel modo sbagliato, identificando soggetti sbagliati, tanto per avere una lotta da sostenere.

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Lo stato della situazione interna palestinese è il doveroso punto di partenza.

Hamas e Anp sono oggi oggettivamente e soggettivamente altro rispetto a qualche anno fa. Esse hanno definitivamente intrapreso una strada che li porta a non essere più rappresentanti di una lotta contro il sionismo. Anzi è chiaro che esse rappresentano una borghesia nazionale (spuria fin che si vuole) che è chiamata a trattare con Israele. Una borghesia burocratica, speculativa, di partito o religiosa che va gestire le briciole concesse da Tel Aviv, le sovvenzioni europee (quanto sono importanti!), i contributi che a vario titolo e forma arrivano dai paesi arabi che agiscono sullo scacchiere mediorientale.

Ma cosa è successo? Perché forze politiche che per anni hanno combattuto Israele e (almeno in apparenza) hanno rappresentato una forza di resistenza oggi siedono al tavolo delle trattative? Cosa conduce queste forze ad assumere supinamente il percorso di sconfitta sostanziale visti gli indiscussi rapporti di forza e il prevalere degli interessi economici di Israele? E perché assumono addirittura il ruolo di repressore/controllore a fronte dell’espansione sionista?

Probabilmente proprio i rapporti di forza pongono queste forze nella posizione attendista di un riconoscimento formale anche se de facto la gestione di oggi e di domani sarà sempre più parcellizzata. Ma certo è che i mutamenti internazionali pesano e i piani di sopravvivenza delle borghesie palestinesi (al di fuori del concetto di territorialità nazionale) devono adattarsi.

Proprio spostando l’attenzione dalla Palestina all’insieme del mondo arabo si può forse cominciare a capire i primi motivi di questa evoluzione. E con ciò cominciare ad affrontare le questioni poste nell’introduzione.

Le rivolte arabe sono emblematiche per quanto siano chiarificatrici. Al di la del fascino della cacciata del despota di turno attraverso le grandi manifestazioni popolari, esse hanno avuto molteplici aspetti. Rivolte che partono anni prima da quelle che vengono adesso considerate primavere arabe. Venivano chiamate rivolte del pane e avevano una diffusione simile a quelle attuali. Ma citarle non serve solo per onor di gloria. Serve a comprendere la tendenza in atto già da qualche anno e che anche chi è posto nel campo a noi opposto ha cercato di interpretarla e guidarla. Consapevole, in ciò, anche della mancanza di egemonia di ieri e di oggi di una sinistra popolare.

Il dato effettivo comunque è che le ultime rivolte hanno rappresentato la rottura con il passato. I regimi in crisi e in caduta non garantivano più, sia per interessi interni che internazionali, la gestione e il mantenimento delle condizioni economiche e sociali di un paese in cerca di cambiamento (positivo o negativo che fosse). E il cambiamento era sì dettato dalle spinte di giustizia sociale popolare ma anche dalla ricerca di maggior spazi da parte di quei soggetti economici che miravano a maggior profitti.

A fronte di ciò, sarebbe un errore pensare che le varie rivolte siano state agite unicamente e quindi egemonizzate dalle masse proletarie e popolari. Vero, invece, che all’interno di queste lotte (mosse comunque da istanze sociali di profonda importanza), le varie borghesie nazionali si sono contese l’ascesa e il mantenimento del potere gestionale statuale. Quanto successo in Egitto è il riflesso di quale sia (stata) la contesa: i Fratelli Musulmani da una parte, la borghesia burocratica militare (quanta similitudine con la situazione palestinese!)dall’altra. Anche in Tunisia ne abbiamo una rappresentazione nella quale il dato ulteriore è che la parte islamica ha preso il potere a discapito di quella laica.

Ed è ovvio che chi ha preso il potere (anche se temporaneamente) ha agito basandosi anche sul contesto delle alleanze internazionali. L’Europa e gli Usa sono comunque state impegnate nei giochi che hanno sconvolto l’Africa del nord. Ben Ali fugge grazie agli amici francesi che subito si palesano nuovamente primi partner commerciali per i nuovi gestori del gas e del petrolio tunisino. Washington due anni or sono aveva mandato segnali importanti ai fratelli mussulmani, pur non dimenticando la vecchia gerarchia militare capace di essere storicamente alleato strategico in medioriente, fino a riappoggiare questi ultimi nel momento dell'(attuale)incapacità espressa da Morsi nel riannodare le tensioni interne egiziane.

Sulla Libia invece i giochi sono stati altri. Molti simili all’Iraq e alla Siria. Poco importante nei fatti il despota al potere. Qui le rivolte sono state eteroguidate e palesemente orientate alla destabilizzazione sia contro il dittatore poco consono alle esigenze imperialiste sia all’evidente scopo di segnare qualcosa nei conflitti internazionali tra gli stessi stati imperialisti. Non è forse vero che dalla guerra in Libia il contraccolpo sull’Italia è stato più negativo che positivo evidenziando il ridimensionamento del ruolo di quest’ultima sul piano internazionale?

E anche su questo piano si scorge un nuovo dato. Se i conflitti toccano (anche se non ancora territorialmente) anche il ventre dell’imperialismo occidentale, l’aggiornamento dell’analisi diventa ancora più importante anche perché collega il “nostro interno” con il resto. A maggior ragione se si considera che in modo pressoché definitivo gli stati imperialisti non possono più usufruire di quei sovrapprofitti (grande accumulo di ricchezza dai paesi del cosiddetto terzo mondo) tanto importanti per il mantenimento di quei welfare occidentali base per una pace interna e per avere libero gioco all’esterno. Sovrapprofitti persi progressivamente dagli anni settanta in coincidenza con l’inizio della crisi (sovrapproduzione di capitali, merci e lavoro) e con la caduta tendenziale del profitto.

Ciò ha portato alla progressiva saturazione. Gli spazi si stanno completando. Il mondo come mercato è spazialmente “finito” e non infinito.

Ma se il mondo è finito, qualcuno deve prendere (recuperare) quello “spazio di mantenimento” a discapito di altri. E lo farà attraverso i rapporti di forza in un modo o in un altro.

E se gli attori in gioco sono anche la nuova Russia (che superata la crisi degli anni novanta mette sul piatto forza economica e militare da potenza di tutto rispetto), la Cina, i paesi arabi (capaci di agire sulla circolazione dei capitali oltre che sul petrolio) il meccanismo si complica. La Siria è stato il primo teatro di tutto questo. Israele ne è consapevole e per questo si muove con alleanze impensabili qualche tempo fa mossi da convergenze economiche e geostrategiche nuove.

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Crisi quindi. Crisi che incide su sionismo, su imperialismo e sulla rivolte. Ed è inserita nella tendenza propria capitalismo: crescita, crisi, guerra.

Crisi che ha radici lontane. Crisi che, al di là della contingente bolla speculativa finanziaria, è crisi di capitali che non si valorizzano. Crisi che incide sulla fase imperialista anche solo evidenziando la mancanza di quei sovrapprofitti (presenti in fase di espansione economica e soprattutto presenti laddove il rapporto con il cosiddetto terzo mondo/sud del mondo sia fortemente sbilanciato a favore degli stati imperialisti) necessari per far mantenere agli stati occidentali potere internazionale e strumenti efficaci per la pace sociale interna (welfare e keynesismi vari). Crisi che oggi ha definitivamente fatto saltare quel compromesso sociale che era alla base della costruzione delle economie e delle “democrazie” del dopoguerra. Crisi infine che crea le condizioni per la crescita di un autoritarismo interno nei paesi occidentali (democrazia autoritaria – guerra interna) e per lo sviluppo del conflitto interimperialistico sul piano internazionale (guerra esterna).

Sulla base della crisi che crescono e si sviluppano i poli. Mutano le alleanze. Nuovi attori si affacciano. Vecchi attori decadono.

Israele lo ha capito. E sta cominciando a capirne anche le conseguenze. Certo non è in discussione la progressiva espansione territoriale sionista. Ma quanto successo in Siria e gli accordi sul nucleare iraniano rappresentano giochi più grandi.

È dunque il dato della crisi e dei conflitti che porta con se la ridefinizione degli assetti. E’ necessario per noi quindi aggiornare le analisi compiendo un passo avanti.

Anche perché l’imperialismo stesso porta con se elementi da considerare: se esso è in parte ancora ancorato allo stato nazione (Usa, Russia, Cina…) certo è che in parte si rimodella. Se in passato i monopoli finanziari (nel senso leninista del termine) si potevano identificare in un territorio specifico coincidente con quello dello stato, oggi il peso delle contiguità di capitali dei vari paesi si impone in uno scenario diverso e multiplo. Vale per i poli in costruzione come quello europeo, tra l’altro non così forte e strutturato. Vale anche per i paesi che mettono sul campo solo la forza economica in cambio di ausilio militare e viceversa.

E’ osservando infatti i tre fondamentali (forza militare, capitali, controllo ideologico) per essere in posizione di forza che molte situazioni vanno in ridefinizione. Le contraddizioni in atto nei singoli paesi e il meccanismo di interscambio di partecipazione (di capitali e militari) porta ormai forme di alleanze sulla base di ciò che si ha e di quanto si possa offrire.

La base rimane in ogni caso:

  • “il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali, che si ripartiscono il mondo (la concorrenza tra queste, e lo sviluppo ineguale del capitalismo determina una continua ascesa e declino degli stati, e un mutamento continuo delle relazioni globali, e delle spartizioni delle zone d’influenza)”

  • “la compiuta ripartizione (geografica) della terra tra le più grandi potenze capitalistiche (osserviamo, per quanto possa risultare normale oggigiorno, che dagli inizi del Novecento non esiste più alcuna “terra di nessuno”, e tutte le terre sono state appunto ripartite tra i vari stati, a seconda della loro forza, concessa loro dal loro capitale).”

  • Appunto le potenze capitaliste. Le più grandi definite territorialmente. Le più piccole (ma non in termini di capacità di influenza) che agiscono giocando trasversalmente su territori altrui non potendo agire sul piano militare. Più entità in campo a seconda delle capacità da mettere sul campo: bellica, forza esportativa e/o valorizzazione dei capitali, capacità di controllo ideologico interno e esterno. Almeno per ora pare esserci una transnazionalità. Forse temporanea in assetto di definizione di poli più chiari. Oppure attori stato nazione (imperialismo stato nazione) con entità capitaliste che agiscono appunto trasversalmente che saranno ulteriori attori con un certo peso anche quando saranno definiti gli assetti dello scontro.

Su questo l’indicazione di questi anni che vede gli Usa in crisi che hanno posto la forza militare come strumento di scambio in più occasioni. Non ultimo finanziandosi con capitali arabi e concedendo spazi ai paesi del golfo destabilizzando i nemici di quest’ultimi. E nel frattempo giocando altresì per l’avanzamento militare in territori consoni al prossimo conflitto proprio con Cina e Russia.

Il medio oriente (tema specifico) è questo. Un insieme di nodi: commerciali, militari, capitali investiti, imperialismi alla prova…

Israele e il sionismo si devono misurare oggi anche su questo. I paesi del golfo sono alleati di Tel Aviv. Non per accettazione ideologica ma per i meccanismi geo imperialisti. Quella convergenza di interessi dettati dai flussi di capitali investiti e da valorizzare. E da qui il fatto che Israele partecipa al mercato esattamente come gli altri paesi dell’area. Quindi se l’avanzamento territoriale sionista non è in discussione, certo è che Israele ha alleati nonché competitori importanti in chiave di giochi geostrategici. Il che la pone non più, come detto, l’unico avamposto occidentale in medioriente.

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Ma detto questo occorre affrontare un ulteriore questione. Le classi. Lungi dal compiere un analisi delle classe esauriente, dobbiamo però in qualche modo tenerne conto. Anche perché all’interno dei paesi arabi e del mediterraneo esse hanno un ruolo, oltre che sul piano nazionale , anche nella disputa pro o anti sionismo. E ciò riguarda da vicino e da lontano le possibili alleanze per la resistenza palestinese e la solidarietà internazionale.

Ripartendo proprio dalla Palestina. Qui va ripresa l’evoluzione delle forze politiche attualmente al vertice. Esse rappresentano qualcosa nel contesto delle classi. E i meccanismi burocratici e religiosi hanno riempito queste classi con gli interessi che si sono creati via via che si è costituito il contesto delle gestioni delle risorse (scambi commerciali, sovvenzioni varie , briciole…). E oggi il peso di Israele è quello di avere in mano gran parte di queste risorse costringendo la borghesia palestinese a dipendere sostanzialmente da essa. È per mantenere la gestione di queste risorse che il ruolo di Hamas e Anp diventa doverosamente repressivo o quanto meno di controllore della pace interna palestinese. Ne deriva che gli spazi di autonomia delle forze al potere de facto sono “in vece” di Israele. Per essere colonia d’altronde non serve per forza una presenza militare nel territorio di una forza esterna (che comunque periodicamente c’è). Per essere tale è sufficiente non essere sostanzialmente in contraddizione con l’occupante e viverne delle briciole. Non avere più interesse a combatterlo sostanzialmente.

Ma, spostandosi nel contesto arabo e mediorientale, la domanda che segue è: chi ha interesse oggi a combattere il sionismo al di fuori della Palestina?

Le borghesie mediorientali, che non vivono di briciole come quella palestinese, hanno scambi commerciali di notevole rilevanza con Israele. Possono quindi esse essere in contraddizione con il sionismo?

Il caso Turchia è emblematico. Il fatto che non vi siano state conseguenze per l’uccisione dei militanti pro palestinesi della nave Mavi Marmara conferma il dato. Così come lo conferma il fatto che Ankara sia capo fila nelle alleanze con Usa e Israele e quanto essa sia attiva contro la Siria. E questo nonostante all’interno ci sia al potere una forza islamica che non si allontana molto dai Fratelli Musulmani egiziani e quindi da Hamas. Una forza islamica rappresentativa di una fazione della borghesia in competizione con quella laica e con il potere dei militari. In ogni caso una forza che ha comunque la capacità di gestire e reprimere anche per conto dei competitori le opposizioni popolari interne.

Cosa che non è avvenuta in Egitto, dove i Fratelli Musulmani hanno gestito la prima fase post Mubarak in nome e per conto di una certa borghesia interna ma in conflitto con il resto del paese. E tale errore ha comportato l’ultimo colpo di stato e il ritorno al potere dei militari. Quei militari che avevano e hanno ancora il controllo di buona parte del paese e che hanno compreso la crescita di potere economico e sociale dei Fratelli Musulmani tanto da non chiudere completamente la porta a questi ultimi. Ne deriverebbe l’avanzamento delle opposizione realmente popolari.

Ma anche in questo caso l’ipotesi di un conflitto o di una contraddizione con il sionismo non è sul tavolo. Gli stessi Fratelli Musulmani erano, una volta al potere, garanzia di stabilità per Israele. Oggi i militari fanno di più. Alimentano uno spirito antipalestinese in chiave anti Hamas e quindi anti Fratelli Musulmani.

D’altronde la stabilità dell’area e gli interessi commerciali sono molto importanti. Sia che essi si facciano in nome proprio (proprie borghesie) sia che essi si facciano in nome dell’imperialismo. Se ne conclude quindi che le borghesie arabe e mediterranee difficilmente abbiano a cuore la causa palestinese. Anzi ambiscono a quei margini e a quegli spazi che l’imperialismo e la crisi generale lascia loro.

E se quindi negli stessi paesi protagonisti delle rivolte arabe si ha una forte contraddizione tra le classi e quindi la difficoltà di ipotizzare un fronte tra le stesse, la ricaduta per i palestinesi non è di poco conto. Non saranno le borghesie interne ed esterne ad essere al fianco della causa per l’autoderminazione. Dovranno essere invece le istanze popolari e le sinistre arabe il punto di appoggio per combattere le varie forme di sionismo avendo la prospettiva di mettere in discussione proprio i meccanismi capitalistici che devastano socialmente l’interno dei paesi e quindi creano conflitti internazionali e popoli oppressi. Il dato è materiale oltre che ideale. Se il profitto crea barbarie sociale e guerra, l’unico modo per uscirne è la messa in discussione generale e quindi anche del sionismo.

 

Centro sociale Vittoria Milano

http://www.infoaut.org/index.php/blog/approfondimenti/item/9764-sulle-convergenze-israelo-saudite-in-medio-oriente

http://www.caunapoli.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1332:convegno-solidarieta-lotta-internazionalista-milano&catid=77:cosa-pensiamo&Itemid=169

http://www.caunapoli.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1309:una-lettura-diversa-o-piu-completa-dei-fatti-turchi&catid=77:cosa-pensiamo&Itemid=169

https://www.contropiano.org/rdc/pubblicazioni/in-vetrina/item/12102-il-vicolo-cieco-del-capitale

http://www.militant-blog.org/?p=9885

http://www.csavittoria.org/cooperative/documento-di-analisi-e-approfondimento.html

 

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