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Gli effetti di una eventuale procedura di dissesto per il Comune di Napoli

Gli effetti di una eventuale procedura di dissesto per il Comune di Napoli. Cosa cambia, per i cittadini, rispetto alla vigente procedura di “pre-dissesto”.

Come è noto, la Corte dei conti ha bocciato il Piano di rientro decennale predisposto dal Comune di Napoli, in attesa del ricorso che il Comune ha presentato alle Sezioni Riunite della Corte dei Conti, una breve scheda tecnica sul “dissesto” e, soprattutto sulle conseguenze economiche e sociali che questo potrà, malauguratamente, determinare nella nostra città.

Rimandando per una analisi più approfondita al documento della Corte dei Conti scaricabile qui, partiamo, quindi, dalla distinzione tra dissesto e predissesto.

 

 PRE-DISSESTO

Il predissesto (introdotto per la prima volta dal D.L. 174 del 9 ottobre 2012, il cosiddetto Decreto “salva comuni” – qualcuno pensava ai quei tempi ad un decreto “salva Napoli”) avrebbe dovuto essere uno strumento per gli Enti che si trovavano in condizioni di forte deficitarietà (all’epoca, i comuni di Napoli, Reggio Calabria, ma anche Torino mentre Alessandria era già stata dichiarata dissestata). Non si trattava del primo provvedimento in tal senso. Già nel 2008, ad esempio, il Comune di Roma, appena insediatosi Alemanno e che risultava devastato da una debitoria acclarata di 13 miliardi di euro (quasi 10 volte superiore a quella rilevata dal comune di Napoli) aveva ottenuto dal governo Berlusconi una legge, anzi il primo decreto-legge finanziario del governo Berlusconi: il 112/2008) “Misure urgenti per Roma capitale” che nominava il Sindaco “Commissario straordinario” che si assumeva il “bilancio separato rispetto a quello della gestione ordinaria, tutte le entrate di competenza e tutte le obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008”.

In pratica questo decreto stabiliva per il Comune di Roma un “prima”, che veniva sostanzialmente congelato, e un “dopo”, che ripartiva da zero e il Comune diventava beneficiario di una serie di entrate straordinarie (tassa sugli aeroporti, per esempio) a valere su prestiti ricevuti per finanziare la gestione commissariale. Insomma, un dissesto di fatto, ma non di diritto, con cospicue risorse provenienti dallo Stato per garantire la copertura finanziaria della gestione liquidatoria.

La differenza del decreto “salva Roma” con quello “salva comuni” (174) è enorme in quanto quest’ultimo impone ai comuni che vi aderiscono (ma si tratta di una scelta obbligata) misure e tagli sostanzialmente simili a quelli previsti per i comuni “dissestati”, come fu denunciato dal sindaco de Magistris e da una larga parte del Consiglio comunale di Napoli che, per protesta, tenne una sua seduta alla fine di ottobre 2012 dinanzi a Montecitorio dove si stava convertendo il D.L. 174. Protesta che, purtroppo, non portò a nessuna modifica migliorativa.

 

 DISSESTO

L’articolo 244 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) stabilisce che si ha stato di dissesto finanziario se l’Ente, comune o provincia, non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili, ovvero esistono nei confronti dell’Ente locale crediti di terzi cui non si possa fare validamente fronte né con il mezzo ordinario del ripristino del riequilibrio di bilancio (art. 193 TUEL) né con lo straordinario riconoscimento del debito fuori bilancio (art. 194 TUEL).

Il titolo VIII capo 2 del Testo Unico detta le regole che disciplinano il dissesto e le attività necessarie per portare l’Ente al risanamento finanziario, tramite l’azzeramento dell’indebitamento pregresso, e quindi al ritorno alla condizione di ente “sano”.

In sintesi tutto ciò che è relativo al pregresso, viene estrapolato dal bilancio comunale e passato alla gestione straordinaria della liquidazione, che viene gestita da una Commissione Straordinaria di Liquidazione (C.S.L.) , che ha esclusiva competenza sui debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati successivamente, anche con provvedimento giurisdizionale. In particolare, la CSL procede a:

a) rilevazione della massa passiva;

b) acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento anche mediante alienazione dei beni patrimoniali;

c) liquidazione e pagamento della massa passiva.

Insomma, un vero e proprio curatore fallimentare.

La dichiarazione del dissesto è, per precisa disposizione (art.246), un atto dovuto nel ricorrerne dei presupposti.

 

 Conseguenze sul piano finanziario del Dissesto

Per gli enti che hanno dichiarato il dissesto finanziario dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, non è più previsto che lo Stato possa concorrere al finanziamento dei debiti pregressi tramite il mutuo ventennale e di conseguenza per raggiungere il risanamento tutte le risorse finanziarie, in mancanza di un intervento regionale o statale, sotto forma di contributo straordinario, devono essere reperite nell’ambito comunale.

Pertanto, oggi, in modo più incisivo, viene chiesto all’Ente locale di contribuire al risanamento attraverso l’adozione di provvedimenti del pari eccezionali.

L’Ente dissestato è tenuto ad approvare un nuovo bilancio, vagliato dal Ministero dell’interno, basato sull’elevazione delle entrate proprie al livello massimo consentito dalla legge, da consolidare per i successivi quattro bilanci, sul contrasto all’evasione e sul contenimento di tutte le spese con la contestuale messa in atto della disponibilità del personale eccedente alcuni parametri fissati dalla legge in ragione della popolazione e della fascia demografica di appartenenza.

E’ altresì tenuto a contribuire all’onere della liquidazione in particolare con: l’alienazione del patrimonio disponibile non strettamente necessario all’esercizio delle funzioni istituzionali, la destinazione degli avanzi di amministrazione dei cinque anni a partire da quello del dissesto e delle entrate straordinarie, la contrazione di un mutuo a carico del proprio bilancio.

Non potendo più beneficiare dei mutui con oneri a carico dello Stato per il risanamento, gli enti devono preoccuparsi anche di trovare le risorse da destinare al finanziamento della situazione debitoria precedente, posto interamente a loro carico.

Entro il termine di tre mesi dalla data di emanazione del D.P.R. di nomina dell’Organo straordinario di liquidazione, il Consiglio dell’ente è tenuto a deliberare e presentare al Ministro dell’Interno, una ipotesi di bilancio di previsione stabilmente riequilibrato .

Il temine di tre mesi è perentorio e il mancato rispetto è considerato grave violazione di legge e, come tale, sanzionato con lo scioglimento del consiglio comunale.

Il periodo di risanamento dell’ente dissestato è fissato in cinque anni decorrenti da quello per il quale viene approvata l’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.

Durante tale periodo vigono gli obblighi relativi all’applicazione delle aliquote, tariffe e canoni nella misura massima, non può essere variata in aumento la dotazione organica rideterminata, valgono le eventuali prescrizioni per la corretta ed equilibrata gestione dell’ente fissate con il decreto di approvazione dell’ipotesi ed è garantito il mantenimento dei contributi erariali.

Inoltre, per tutta la durata del periodo di risanamento, l’ente è soggetto al controllo centrale in materia di dotazione organica e di assunzione di personale ed è tenuto a presentare le certificazioni relative alla copertura dei servizi a domanda individuale, del servizio acquedotto e del servizio di smaltimento rifiuti soldi urbani.

L’ipotesi di bilancio realizza il riequilibrio mediante l’attivazione di entrate proprie e la riduzione delle spese correnti.

Nella prima seduta successiva alla dichiarazione del dissesto e, comunque, entro trenta giorni dalla data di esecutività della delibera di dichiarazione del dissesto, il consiglio dell’ente è tenuto a deliberare, relativamente alle imposte e tasse locali di propria spettanza, le aliquote e le tariffe di base nella misura massima consentita.

Dai tributi di propria spettanza viene esclusa la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, per la quale è prevista la determinazione delle tariffe con provvedimento da adottare annualmente sulla base dei costi di gestione del servizio.

Per l’imposta comunale sugli immobili l’Ente deve obbligatoriamente deliberare l’aliquota massima del 7 per mille. (Ora non esistono più nè Ici, né l’IMU per l’esercizio in corso, ma il tenore della norma è chiaro: occorrerà spingere ai massimi livelli qualunque sia l’imposta patrimoniale locale vigente).

Fermo restando l’obbligo di deliberare, per i tributi di propria spettanza, le tariffe o aliquote di base nella misura massima, l’ente può applicare, secondo le proprie competenze e nei limiti stabiliti dalla legge, eventuali maggiorazioni, riduzioni, graduazioni ed agevolazioni previste dalle disposizioni vigenti. (Questa ipotesi può essere molto probabile, vista la quasi impossibilità di presentare un bilancio in equilibrio).

La determinazione delle tariffe per i servizi a domanda individuale (mense scolastiche, asili nido etc..) deve essere fatta in modo che i proventi dalle tariffe coprano almeno il 36% dei relativi costi (identica cosa è prevista per il pre-dissesto).

L’ente, inoltre, a norma dell’art. 259, comma 3, deve riorganizzare i servizi di acquisizione delle entrate, adottando i relativi provvedimenti, al fine di eliminare l’evasione contributiva e di assicurare il reale accertamento e l’effettiva riscossione delle entrate previste. (questo è un obbligo che vale sempre, anche se l’Ente non si trova in una situazione deficitaria, ma riesce difficile pensare a come il comune di Napoli possa riuscire in una lotta all’evasione o meglio, alla “riscossione” visto che sono stati fatti moltissimi tentativi infruttuosi).

Per assicurare il riequilibrio del bilancio, l’ente dovrà adottare una manovra strutturale di riduzione delle spese correnti. A tal fine, l’ente è tenuto ad effettuare una rigorosa rivisitazione delle spese, procedendo preliminarmente alla riorganizzazione dei servizi: questo vuol dire intervenire sull’organizzazione del lavoro e sul salario accessorio. L’ente dovrà poi verificare accuratamente la situazione economico-finanziaria delle società controllate.

Relativamente alle spese di personale, l’ente è obbligato a rideterminare la dotazione organica, dichiarando in eccesso e collocando in disponibilità il personale comunque in servizio che risulti in soprannumero rispetto al rapporto medio dipendenti/popolazione, fermo restando l’obbligo di accertare le compatibilità di bilancio.

Per il personale collocato in disponibilità viene assegnato all’ente, da parte del Ministero dell’Interno, un contributo pari alla spesa relativa al trattamento economico, con decorrenza dalla data dell’effettivo collocamento in disponibilità e per tutta la durata della stessa. L’ente è quindi, autorizzato a prevedere nell’ipotesi di bilancio detto contributo a fronte della spesa prevista per il personale in disponibilità.

La delibera di rideterminazione della dotazione organica deve essere trasmessa alla Commissione per la finanza e gli organici degli enti locali per la relativa approvazione.

L’approvazione della dotazione organica da parte della predetta Commissione è presupposto necessario per ottenere il parere di cui all’art.261, comma 2, del testo unico, sull’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.

L’altro obbligo in materia di spesa di personale è quello di ridurre la spesa per il personale a tempo determinato a non oltre il 50% della spesa media sostenuta a tale titolo per l’ultimo triennio antecedente l’anno cui l’ipotesi si riferisce.

Insomma, le conseguenze di una dichiarazione di dissesto sul piano sociale sono abbastanza devastanti.

Nel caso di enti tenuti al rispetto delle regole del patto di stabilità interno, la manovra strutturale di riduzione delle spese dovrà essere ispirata oltre che al riequilibrio del bilancio in termini di competenza, anche al futuro rispetto delle regole del patto di stabilità interno; così come dovrà tenere conto delle eventuali sanzioni, nel caso di mancato rispetto delle regole del patto negli esercizi precedenti.

 

Conseguenze sul piano politico del Dissesto

Gli amministratori che la Corte dei Conti riconosce responsabili, anche in primo grado, di danni cagionati con dolo o colpa grave, nei cinque anni precedenti il verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati, ove la Corte, valutate le circostanze e le cause che hanno determinato il dissesto, accerti che questo è diretta conseguenza di azioni od omissioni di cui l’amministratore è stato riconosciuto responsabile.

I sindaci (e i presidenti di provincia) ritenuti responsabili, inoltre, non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento Italiano e del Parlamento Europeo.

 

Conclusioni

Tornando, quindi, al Piano pluriennale predisposto dal comune di Napoli e “bocciato” dalla Corte dei Conti, occorrerà conoscere quali sono state le motivazioni di tale bocciatura, anche se sembra che uno dei principali elementi critici sia fondato sull’ulteriore indebitamento dell’ Ente di Palazzo san Giacomo nei confronti della Cassa DD PP per poter fronteggiare il pagamento dei debiti nel corso del 2013 ( ed anche nel 2014), in base alla nota legge “salva imprese” che è uno degli ultimi interventi normativi posti in essere dal Governo Monti già nel corso della nuova legislatura (il decreto legge 35 è, infatti, datato 7 aprile 2013, data in cui il nuovo Parlamento si era abbondantemente insediato, ma il Governo, in una inquietante proroga infinita, continuava ad operare.
Secondo il Comune di Napoli sembra che il primo anno sia sostanzialmente in linea col piano.

Tre i pilastri su cui si basa e questi i risultati ufficiali e documentati:

  1. È stato corretto lo squilibrio di parte corrente (le entrate correnti finanziano le spese correnti);
  2. È iniziato il piano di dismissione e sembrano essere state rispettate le previsioni del piano stesso per il primo anno, cioè il 2013; (questa è, comunque una criticità molto forte)
  3. È stata creata la holding delle partecipate con la soppressione di alcuni organismi. (il risparmio è contenuto perché è riferito ai soli emolumenti degli organi amministrativi).

Secondo l’assessorato al bilancio del Comune, oggi, il rendiconto del 2013 è in equilibrio da solo, è strutturalmente corretto ed ha una programmazione che contempla esattamente quanto previsto dal piano di riequilibrio. Nel 2012 è stato rilevato un disavanzo (eredità della precedente amministrazione – esercizio 2011) di 850 milioni di euro che, l’anno successivo – 2012) è sceso sotto i 700 milioni di euro.

da ROSS@ Napoli

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