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Non basta un “act” per creare un “jobs”

I saggi dicono cose interessanti anche quando usano chiavi di lettura diverse dalle nostre. E’ il caso di Marcello De Cecco, che guarda con ironico distacco e superiore competenza la retorica renziana (e di tuti i grandi media mainstream) sui miracoli che dovrebbe produrre il “jobs act”.

Da sottolineare la conclusione, in cui i fantasmi ucraini – o di altri paesi poveri – appaiono all’improvviso, suscitati da quelle stesse “forze di mercato”, cieche o malamente facilitate, che distruggono ogni cosa che toccano. Autentico Re Mida all’incontrario, l’opposto di quanto l’ideologia dominante semina nel mondo.

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Ormai lo dicono tutti e da parecchio che la disoccupazione è il problema più grave della economia e della società italiana. Dal già orrendo 12% del presente arriverà, si prevede, al 13% quest’anno, come risultato di spinte di lungo periodo al declino tipiche del nostro paese, della congiuntura pallida mondiale, delle conseguenze delle misure adottate specialmente dal governo Monti sul livello della domanda interna, della colpevole influenza sul governo Letta del redivivo (grazie a Renzi e Napolitano) Berlusconi nell’imporre la cancellazione dell’ Imu. In altri tempi e in altri luoghi, ma ancora oggi, la disoccupazione giovanile ai livelli italiani induce primavere arabe e rivolte religiose.

Qui non è successo finora grazie all’ammortizzatore famiglia, che però è una diga in cui già si vedono pericolose falle, per il cedimento della occupazione dei capifamiglia e del pauroso crescere della disoccupazione di lungo periodo. Ormai l’unanimità è anche totale sulla necessità di rilanciare la domanda interna, ora che si è visto che nemmeno le tanto ammirate esportazioni italiane hanno più tanto fiato in corpo. Così come si è visto che le imprese del made in Italy cedute alle multinazionali sono state rilanciate perché passate nelle mani di manager competenti e inseriti in filiere internazionali potenti e di capitalisti disposti a fare il loro mestiere, quello di impiegare nuovi capitali dove il capitalista italiano non aveva saputo, potuto o voluto farlo.

Il governo del dottor Renzi, che si prepara a prendere la barra del timone e a prendere il mare, sembra fidare in un programma che fino ad ora non è apparso se non sotto forma di scadenze del tutto irrealistiche e di slogan vaghi e allusivi. Sul problema della disoccupazione e del lavoro in generale, che pareva posto come primo tra tutti quelli di cui farsi carico da parte del nuovo leader, ci è stata da tempo fornita una espressione americana, che dovrebbe suggerire come affrontarlo, mediante ricorso ad un Jobs Act.

A chi conosce un po’ la realtà americana tale espressione porta soprattutto un messaggio insolito per i nostri climi: si tratta di introdurre il trattamento del problema del lavoro spostando il fuoco dell’analisi dal mercato del lavoro considerato come mercato unico ai vari lavori (onde jobs che è plurale) di cui esso si compone, ciascuno con le proprie peculiari condizioni di domanda e offerta. Il lavoro e l’occupazione regrediscono dunque dall’essere il portato delle condizioni che il governo e le istituzioni economiche riescono ad assicurare al paese con opportune misure macroeconomiche (che agiscono sulla domanda e l’offerta aggregate) a essere invece una congerie di interventi settoriali e microeconomici.

Ogni categoria di jobs – questo è il messaggio – ha il suo mercato, con condizioni di domanda e offerta peculiari sulle quali si deve intervenire partitamente. Non c’è alcun dubbio che anche di questo debba occuparsi una politica del lavoro di lunga lena, con orizzonti sufficientemente aperti sulle prospettive della tecnologia, della innovazione e quindi con interventi che cerchino di approntare per la domanda futura una offerta adeguata di lavoratori capaci di soddisfarla come e meglio che in altri paesi. Come è certo che, per intervenire adeguatamente un governo e un parlamento che si rispettino devono affrettarsi a porre in essere profonde riforme strutturali nel sistema educativo italiano.

Chiunque abbia confrontato 150 anni di statistiche italiane con quelle dei paesi coi quali aspiriamo da due secoli a misurarci, sa che, al contrario della retorica comune, la performance italiana in materia di educazione è stata tutt’altro che ammirevole. Siamo partiti arretrati e siamo restati indietro, scivolando in basso rispetto anche a paesi, come la Finlandia, che partivano dietro di noi e ci hanno surclassato, pur dovendo far fronte a problemi immensi come il cambiamento strutturale della propria produzione e del proprio commercio estero. Ma anche la Germania, per un tratto di strada nostra compagna di viaggio ai livelli bassi della classifica Ocse dell’educazione, con un poderoso colpo di reni si è ripresa, trasformando il proprio sistema educativo dopo la riunificazione, accettando ad esempio la concorrenza con l’estero nell’educazione universitaria, spingendo, come d’altronde ha fatto la Finlandia, verso una generalizzata competenza nella lingua inglese a tutti i livelli di scuola, migliorando ulteriormente i propri sistemi di collegamento tra scuola e industria.

Noi non abbiamo fatto quasi niente. Le ore di insegnamento della lingua inglese, ad esempio, sono addirittura diminuite nel secondo livello, che occupa tra i cinque e gli otto anni della vita dei nostri giovani. Non parliamo della percentuale delle spese per l’educazione e la ricerca scientifica nel bilancio dello stato.

Abbiamo dato solo un flash di alcuni dei problemi di lungo periodo del mercato del lavoro. Tuttavia, se segue allo slogan del jobs act davvero ciò che esso suggerisce a chi conosce quel che vuol dire negli Stati Uniti questa espressione, abbiamo seri motivi di preoccupazione. A un paese ormai affamato di occupazione, a giovani disoccupati per una metà del loro totale, ai famosi due milioni di giovani che non hanno e non cercano lavoro, non si può da parte di un governo che chieda rispetto e che voglia farsi votare alle elezioni, contrastando i facili richiami dei populisti, dei razzisti e tra poco anche degli estremisti religiosi, fornire solo una prospettiva di riforme di lungo periodo. Bisogna affrontare il problema del lavoro come variabile macroeconomica, e non solo quelli di lunga lena (i famosi jobs).

Questo si fa con interventi potenti, certi e immediati di politica macroeconomica, sia fiscale che monetaria. Mettendo quindi in campo una squadra che sia in grado non solo di concepirli e attuarli, ma anche di imporli ad un’Europa che oramai dispera del caso italiano, di una economia che declina dal 1992 e che non sembra né uguale ma nemmeno simile a quelle del resto d’Europa e degli altri paesi sviluppati. A meno di non volersi rassegnare a prevedere per l’Italia un futuro parecchio simile a quello che è stato il recente passato ed è lo squallido presente di paesi come l’Ucraina e la Russia, dove i problemi delle masse si affrontano, secondo tradizione, con lo Knut dei cosacchi (usato a Sochi in questi giorni contro le pussy riots) e i fucili degli sgherri del potere e dei più violenti tra gli oppositori a Kiev.

Ricordiamo che il nostro paese ha iniziato la sua storia unitaria con dieci anni di guerra civile, condotta con una violenza da entrambe le parti che ha avvelenato la vicenda nazionale fino ad oggi.

da Repubblica, 24 febbraio 2014

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