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Se gli operai cinesi rialzano la testa

Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti (ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali). Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti.

Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto: 1) dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni 2) della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso. Il risultato, come racconta il New York Times, è stato uno dei più lunghi e partecipati scioperi della storia recente del Paese: 40.000 operai hanno bloccato le linee di produzione per due settimane, infliggendo all’azienda 27 milioni di danni. Alla fine il governo cinese, non riuscendo a bloccare la vertenza, si è rassegnato a intervenire e a costringere la Yue Yuen Industrial Holdings ad accettare un accordo. Pur in assenza di sindacati indipendenti (vietati dalla legge cinese) i lavoratori cinesi, secondo lo stesso articolo, hanno effettuato ben 1100 scioperi e proteste dal giugno del 2011 alla fine del 2013, mentre se ne registrano 200 solo negli ultimi due mesi.

Lo strumento che ha favorito queste imponenti mobilitazioni (che hanno strappato consistenti aumenti salariali e altre concessioni) è stato un software di messaggistica chiamato Weixin (conosciuto anche con il nome inglese We Chat) che ha trecento milioni di utenti in grande maggioranza giovani: gli operai lo usano sistematicamente per scambiare informazioni, coordinare le azioni e estendere le lotte attraverso il passa parola. Ma attribuire tutto questo fermento sociale alla Rete sarebbe un errore non meno pacchiano di quello che ha indotto i media occidentali ad appioppare alla Primavera Araba l’etichetta di Twitter Revolution – una semplificazione su cui hanno giustamente ironizzato autori come Evgenij Morozov.

Per capire le radici di questa ondata di lotte di classe è meglio andarsi a leggere il bel libro della sociologa cinese Pun Ngai, tradotto in Italia da Jaca Book con il titolo “La società armoniosa”. Pun Ngai analizza la cultura dei quasi trecento milioni di migranti interni che si sono riversati dalle campagne nelle grandi città dove vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento spaventoso, paragonabili solo a quelle della classe operaia inglese dell’800 descritte da Engels. Sfruttati ma anche dotati di conoscenze, curiosità e competenze assai più avanzate di quelle dei loro genitori e quindi meno disposti a sopportare quelle condizioni disumane. Una massa operaia che, al pari di quella riversatasi dal nostro Sud a Torino e Milano negli anni 60 del 900, si sta rivelando poco propensa a chinare la testa e decisa a strappare redditi e condizioni di lavoro e di vita migliori. Quando la tecnologia incontra il capitale sono dolori per le classi subordinate, ma quando invece la tecnologia incontra la classe operaia sono dolori per i padroni.

da Micromega on line

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