Menu

Europa: mito e realtà

Negli ambiti culturali democratici, e nella stessa sinistra altermondialista, si è diffuso il mito dell’Europa, avvolta da un alone utopico a cui non corrispondono le vicende passate e recenti dell’Unione europea, che pur rimane depositaria di aspettative millenaristiche. Ciò spiega anche lo slittamento frequente fra i termini ‘Europa’ e ‘Unione Europea’: il primo usato come l’ideale riferimento a cui l’UE può e deve tendere. Così un semplice scambio di termini consente di tenere insieme atteggiamenti aspramente critici verso l’UE e speranze di un suo cambiamento: l’UE è da condannare, pur tuttavia l’Europa rimane la sua meta. L’utopismo, in questo modo, lungi dall’essere l’ideale regolativo che informa l’ordinamento e le prassi dell’UE, si adatta alla realtà effettuale della cose impedendo lo sviluppo di un pensiero e di un’azione di cambiamento delle istituzioni e delle politiche dell’UE.

1.Jürgen Habermas ed Étienne Balibar, sia pure con caratura e potenza discorsiva diverse, sono stati tra i tanti che hanno alimentato questo alone mitico partendo da due assunzioni: l’Europa potenza riflessiva e forza mite, e il modello sociale europeo con il suo sistema di welfare. Ambedue sono filosofi, abituati dunque a trasvalutare in un mondo di forme ideali le terrene vicende, esponenti del logocentrismo, tipico della filosofia ‘continentale’ che si fonda sul primato della parola sulle cose, come se dalla parola scaturissero le essenze delle cose1.

Il discorso diviene mezzo di sublimazione della realtà storica, con le parole si creano ‘essenze’, in questo caso l’essenza Europa, trasfigurata in macro-soggetto con sue autonome quanto fantasmatiche dinamiche, a prescindere dalla storia dei suoi popoli, delle sue classi, delle sue istituzioni, delle persone che ci vivono, delle sue élites dirigenti. Un esempio di questa idealizzazione dell’Europa lo troviamo nel famoso scritto di Jacques Derrida e Jürgen Habermas, Unsere Erneurung (Il nostro rinnovamento)2, dove chiesero all’Europa di schierarsi contro la seconda guerra in Iraq, e auspicarono che la Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing producesse una costituzione capace di superare l’intergovernamentalismo, baluardo degli Stati intenzionati a rimanere sovrani. La leva per compiere queste scelte venne individuata nell’identità europea, caratterizzata dall’essere ‘pacifica, cooperativa, aperta alle e dialogante con le altre culture’.

‘Noi salutiamo l’Europa, che nella seconda metà del Ventesimo secolo ha trovato la soluzione di due problemi’, così scrivevano riferendosi al superamento dello Stato-nazione e alla costruzione del welfare, che hanno ‘addomesticato’ la sovranità e il capitalismo: l’UE ‘si offre già oggi come una forma di governo al di là dello Stato-nazione’. Come si vede Europa ideale e reale si confondono e l’immagine della civiltà europea trova a loro parere la sua attuazione, sia pure imperfetta, nell’UE.

La civiltà europea dopo la Seconda guerra mondiale si è costituita, sono sempre Habermas e Derrida a dirlo, attraverso il doloroso ‘confronto autocritico’ con il proprio passato, segnato dallo Stato totalitario e dall’Olocausto. Proprio questa dolente consapevolezza del proprio passato, comprensiva della violenza del dominio coloniale, richiama ‘alla memoria le basi morali della politica’. L’Europa è stata faro di civiltà e, riscattata dalla coscienza dei propri misfatti, di nuovo portatrice di una cultura umanistica. La storia dell’Europa è vaporizzata in un mito, in cui si incontrano e si confondono le lotte del movimento operaio e le tradizioni solidaristiche del cristianesimo.

La prima delle caratteristiche di questa idealizzata Europa è la laicità, da loro chiamata ‘neutralità dello Stato’ rispetto alle credenza religiose, che ha consentito di creare e proteggere uno spazio privato per la manifestazione delle fedi personali. La seconda è stata il dominio della politica sul mercato, tanto che lo Stato avrebbe conformato il capitalismo correggendone storture e fallimenti attraverso lo sviluppo del welfare e dei diritti sociali, liberando i cittadini dalla ‘tutela’ di governi autoritari e dando in questo modo solide basi alla democrazia. La terza caratteristica scaturisce dall’elaborazione del passato colonialista, che spinge l’Europa verso l’ideale kantiano di far divenire le relazione internazionali un ambito di affari interni da governare pacificamente per mezzo del diritto.

Tirando le fila, Habermas e Derrida sostengono che le esperienze della Seconda guerra mondiale hanno spinto le nazioni europee a ‘sviluppare nuove forme sovranazionali di cooperazione’ e che ‘la storia di successo dell’Unione Europea ha rafforzato gli europei nella convinzione che l’addomesticamento dell’esercizio del potere statale richiede anche a livello globale una reciproca limitazione degli spazi sovrani di azione’.

Tirando a  mia volta le fila, mi sento di affermare che in questo ampio articolo Derrida e Habermas hanno costruito con pure razionalizzazioni il ‘modello europeo’, di cui si discorreva già da molti anni, e di cui oggi si rimpiange la distruzione dovuta al neoliberismo presentatosi prima con le fattezze della globalizzazione rampante, e poi con le durezze dell’austerità. Dunque, il modello europeo si situerebbe all’incrocio tra la democrazia che governa il mercato, le istituzioni del welfare che garantiscono la solidarietà sociale, e la vocazione alla pace che sta portando al superamento della sovranità degli Stati-nazione.

Habermas ha in molti scritti difeso e propugnato questa Europa ideale, non esitando a definirla nel complesso della sua evoluzione come ‘socialdemocratica’3, e si è impegnato, questo va riconosciuto, in campagne di opinione per realizzarla. Si è liberi di elaborare e proporre ideali politici e sociali, ciò che però è sottoponibile all’onere della prova sono le affermazioni che quell’Europa ideale, quel modello europeo, è in cammino sia pure accidentato attraverso la costruzione dell’UE. Ed esse non vengono mai suffragate con i fatti.

 

2.

Étienne Balibar è molto più critico di Habermas sull’UE, di cui ha denunciato sopratutto le storture democratiche, ponendo al centro della sua ideale costruzione ‘l’estensione e l’effettività delle pratiche di partecipazione alla cosa pubblica nello spazio europeo’. Ha negato però che il progetto europeo sia intrinsecamente legato a una prospettiva economica e sociale di stampo liberale, ‘in cui il potere pubblico non ha altra funzione che garantire il quadro formale della concorrenza e della sopravvivenza del più adatto’. Una posizione siffatta, a parere di Balibar, disconoscerebbe che dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del XX secolo le politiche pubbliche europee hanno mirato alla modernizzazione economica, alla cooperazione scientifica e all’innovazione tecnologica, oltre al fondamentale sviluppo dell’État-providence, frutto della democrazia conflittuale. Questo elemento conflittuale della democrazia, chiamato da Pocock ‘momento machiavelliano’, insieme con il sistema di welfare sarebbe il contributo dell’Europa al pensiero costituzionale4. Questa concezione ‘conflittuale’ della democrazia, che riprende il Machiavelli dei Discorsi, è l’altro tratto culturale che differenzia Balibar da Habermas. Infatti quest’ultimo sottolinea come la libera comunicazione attraverso le procedure democratiche conduce il pluralismo, la molteplicità di interessi e valori a una comunanza di intenti, dunque a un consenso universale; mentre Balibar ritiene che il pluralismo comporti sempre il conflitto e le procedure democratiche siano il modo per evitare solo i suoi possibili esiti distruttivi5.

Balibar, infine, ha parlato di un’Europa che sarebbe nelle sue più profonde radici potenza mite, argomento da lui usato per spronare le nazioni europee verso una politica non-militarista in grado di porsi come ‘forza mediatrice’ nella soluzione dei conflitti internazionali. La sua visione continua a far proseliti tanto che si ritrova ancora di recente in un articolo sulla crisi in Ucraina di M. Krupa e M. Thumann pubblicato il 20 marzo 2014 da Die Zeit con il titolo Stolz, Europäer zu sein (Orgogliosi di essere europei). Il titolo è ben espressivo delle tesi degli autori: esaltano l’UE come soft power e come modello di vita civile, poi, identificandola con l’intera Europa, la glorificano come il più grande patto di non aggressione della storia e infine, per risolvere la crisi ucraina, la esortano ad affidarsi alla sua forza attrattiva cioè alla sua civiltà quale argine alla potenza nazionalista grande-russa.

Sulla questione della guerra non oserei mai dubitare dell’ispirazione e dell’impegno pacifisti di Habermas e di Balibar, che in ogni occasione – dall’Iraq all’Afganistan – hanno sostenuto soluzioni di non-intervento militare e si sono prodigati per spingere l’UE e i singoli Stati europei a iniziative per una soluzione politica dei conflitti internazionali. Epperò, durante i famosi ‘Trenta gloriosi’, durante cioè gli anni della CECA e della CEE, costruite in nome della pacificazione delle nazioni europee nobilmente proclamata nella Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, l’Europa fu il luogo della guerra fredda, divisa dalla cortina di ferro, e quella Occidentale protetta dallo scudo della NATO. Dunque non si capisce quando si sarebbero avute queste manifestazioni di mitezza, dato che per fronteggiare il blocco sovietico si attuarono politiche di riarmo, comprese le testate nucleari, che portarono spesso ad aspri confronti al limite della guerra guerreggiata con l’URSS. Situazione che si protrasse fino alla metà degli anni Ottanta con la crisi dei missili, quando proprio due esponenti socialisti, Schmidt e Craxi, si batterono per schierarne la più moderna versione di attacco. Certo, bisognava contenere l’espansionismo sovietico, con la sua politica di potenza imperiale, tuttavia l’Europa non lo fece ricorrendo alla  ragione e alla  mitezza, ricorse agli armamenti.

Per venire all’oggi. Basta leggere la versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea, adottata a Lisbona, il cui Titolo V è dedicato all’azione esterna, alla politica estera e di sicurezza per accorgersi che l’UE afferma con piena consapevolezza il perseguimento di interessi di potenza su scala globale, in rapporto stretto con la NATO riconosciuta come legittimo strumento militare (articolo 42). Ancor più significativa della legittimazione della politica di intervento militare inscritta nel Trattato di Lisbona, è la partecipazione dell’UE a ben 26  missioni militari fuori area, solo a contarle dal 2003, oltre all’impegno di molti Stati membri nelle guerre nella ex Iugoslavia e in Afghanistan sotto la guida della NATO6.

L’UE ha attuato una politica di allargamento che, negli anni 2003-2005, ha portato i suoi confini a ridosso della Russia, mai considerata peraltro come parte dell’Europa e dunque come Stato suscettibile di proposta di integrazione. I rapporti con la Russia hanno come obiettivo  la fornitura delle materie prime e l’espansione degli scambi commerciali, senza che mai si sia sviluppato con essa una prospettiva di reale partenariato, in modo da contrastarne con la politica l’espansionismo da potenza grande-russa che oggi si concretizza nella riannessione della Crimea e nell’istituzione di una sua sfera geografica di sicurezza strategica. Nel gioco delle grandi potenze l’UE non persegue nessuna politica mite, solo interessi geopolitici − di approvvigionamento dell’energia e di delocalizzazione delle imprese per espanderne le filiere produttive.

Rimane sempre un’ambiguità tra l’Europa ideale che dovrebbe essere mite e un’UE che svolge politiche di potenza, tra un dovere essere che non è, e un essere dell’Europa che non è ancora come dovrebbe essere. La risultante politica è che occorre affidarsi alle dinamiche interne UE per poterne modificare gli indirizzi, dovendone però accettare vincoli e modalità di funzionamento. Il gioco così si svolge secondo le regole che le élites europee decidono, e sono regole dettate dagli interessi del mercato capitalistico e della politica di potenza.

 

3.

Ciò che accumuna Habermas e Balibar, al di là delle differenze richiamate, è la convinzione dell’esistenza di un modello sociale europeo, sia pur disarticolato dalle politiche liberiste e oggi dell’austerità che minano le stesse basi della democrazia a causa delle disuguaglianze crescenti e della distruzione degli istituti del welfare. La loro proposta, che si evince tra le righe, è la difesa e la ricostruzione del compromesso ‘democratico-keynesiano’, la rivitalizzazione del modello sociale europeo realizzatosi nei ‘Trenta gloriosi’.

Balibar ha più volte distinto varie fasi della storia dell’integrazione europea, ciò che peraltro è comune agli studiosi dell’UE. In generale, si è soliti distinguere una prima fase, quella della Comunità del carbone e dell’acciaio, a cui segue quella che si apre con il Trattato di Roma per la istituzione del mercato comune, e quella che dal Trattato di Maastricht porta alla moneta unica, ai due Trattati di Lisbona, e al Fiscal Compact e all’ESM siglati in questi ultimi due anni per fronteggiare la crisi finanziaria ed economico-sociale. Balibar preferisce, e ciò è assolutamente lecito, una diversa periodizzazione: una fase dalla CECA alla crisi petrolifera degli anni Settanta; un’altra fino alla caduta del Muro di Berlino e alla riunificazione tedesca; l’ultima che si estende fino ai nostri giorni.

In ogni fase Balibar intravede non un percorso unico e lineare verso l’integrazione politica, bensì un ‘conflitto tra vie diverse’, per argomentare la sua posizione che occorre situarsi entro l’UE per sviluppare possibili indirizzi alternativi data appunto la pluralità di opzioni che vi si confrontano. A sostegno di questa tesi delle alternative interne alle dinamiche dell’UE, Balibar sostiene che la fase iniziale, dopo il 1945, si inserisce nel contesto della guerra fredda, che vide però la ricostruzione di impianti industriali e l’istituzione di sistemi di sicurezza sociale. E precisa che ciò ha comportato una forte tensione ‘tra l’integrazione nella sfera di influenza degli Stati Uniti e la ricerca di una rinascita geopolitica e geoeconomica dell’Europa (che va di pari passo, di fatto, con il perfezionamento del modello sociale europeo) – è questa seconda tendenza che, in pratica, prevale, beninteso in un quadro capitalistico’. Dunque, per Balibar sarebbero sempre state presenti nella costruzione dell’UE, dapprima nella CECA e nella CEE, due tendenze: una marcatamente liberista, di ispirazione ordoliberale, e una progressista tesa ad affermare il modello sociale europeo7. Questa  prima fase – caratterizzata da molti studiosi dell’UE con la pregnante espressione ‘Smith all’estero e Keynes in patria’ – giunge fino al Trattato di Maastricht e al lancio dell’Unione economica e monetaria, con cui si riconoscono sì nuovi impegni nel campo del diritto del lavoro, dell’occupazione e del dialogo sociale, ma al contempo si afferma una ‘costituzione economica’, in cui si consolida il principio del mercato. Quando la Corte di Giustizia è chiamata a giudicare casi implicanti i diritti sociali, questi vengono bilanciati con le quattro libertà del mercato, che incidono sul contenuto essenziale dei diritti sociali. La costituzione economica è una costituzione di e per il mercato. I diritti sociali non sono prioritari in quanto garanti dello sviluppo della persona, al contrario vanno contemperati con le esigenze della competitività del sistema economico nella scena globale, della concorrenza nel mercato interno, e della mobilità sovranazionale dei fattori produttivi – si ricordino a questo proposito le ben note sentenze Viking e Laval.

Balibar, invece, sostiene che la ‘grande commissione’ Delors portò avanti un doppio progetto, la moneta unica e lo sviluppo dell’Europa sociale, anche ‘se questa si è via via affievolita prevalendo il disegno del ‘grande mercato’’.

Non ha molta importanza, in questa sede, disquisire sulla periodizzazione, ciò che mi preme è discutere del ‘modello sociale europeo’, del famoso ‘compromesso democratico’ che avrebbe caratterizzato i Trenta anni post-1945, in particolare del giudizio che la politica avrebbe guidato l’economia con interventi sia dal lato dell’offerta attraverso le opere infrastrutturali e la gestione pubblica delle produzioni di base e dell’energia, sia dal lato della domanda con il deficit spending pubblico per finanziare i sistemi di welfare e le imprese private con le incentivazioni per consentire una politica di alti salari.

La critica di questa costruzione ideologica di Habermas e di Balibar, mi viene facilitata da un articolo di Riccardo Bellofiore, La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes 8.

L’articolo di Bellofiore è un excursus di storia delle idee economiche dopo il 1945, che si rivela un affinato strumento euristico delle politiche seguite dagli Stati europei occidentali. Le proposizioni salienti che concernono il mio argomento e che riprendo sono:

1. quando il ‘keynesismo’ diventa la nuova ortodossia, e il pieno impiego assurge a obiettivo dichiarato e praticato dai governi capitalistici dei trent’anni successivi alla guerra, tanto i conservatori quanto i progressisti, si guardano bene dal cambiare la domanda, e passare dalla questione del livello a quello del contenuto dell’occupazione;

2. se in astratto qualsiasi spesa poteva funzionare, il ruolo trainante lo ebbe la spesa per armamenti che consolidò il complesso ‘militare-industriale’ (costruito durante la guerra); la spesa in disavanzo fu finalizzata allo sviluppo di questo complesso militare-industriale – era l’epoca della guerra fredda e della corsa agli armamenti;

3. le politiche dei governi occidentali erano ispirati dalla Sintesi Neoclassica piuttosto che dal Keynesismo, puntando sullo stimolo dell’investimento privato e sul sostegno pubblico attraverso i  prodotti di base dell’acciaio, del cemento, dell’asfalto e dell’energia per sostenere l’occupazione e per alleviare la povertà grazie agli effetti di ‘trickle down’ della ricchezza dei ceti proprietari; così la questione della povertà e dell’innalzamento dei salari non venne affrontata con una migliore e più alta occupazione bensì per mezzo di sussidi monetari e dell’assistenza; la previdenza sociale e la sanità affermate come diritti in alcune Carte costituzionali, tra cui in quella italiana, sono state rapidamente ricondotte al predominio del mercato o sottoposte a vincoli finanziari; per questo, lungi dal risolvere i problemi della povertà e della disoccupazione, l’offerta statale dei beni sia di mercato  sia pubblici, cuore dell’osannato compromesso capitale-lavoro, portò all’idolatria del PIL e della sua crescita;

4. in sintesi: il sostegno statale dell’economia con una domanda di beni e servizi, il privilegio fiscale dei redditi da capitale e la politica di trasferimenti monetari generarono non lo Stato sociale ma il big government.

Il modello sociale europeo, il compromesso keynesiano e democratico stretto tra capitale e lavoro, lungi dall’essere stato un compromesso per consentire alla politica di guidare l’economia, ha rappresentato il quadro dello sviluppo del capitalismo nella fase della produzione fordista e dei consumi di massa, la cui direzione è rimasta salda nelle mani delle élites politiche democristiane e conservatrici prima e socialdemocratiche poi, tutte comunque impegnate a salvaguardare il mercato come allocatore di risorse e distributore delle ricchezze.

È indubbio che nella fase precedente l’Atto unico europeo,  del 1986, e del Trattato di Maastricht, del 1992, le politiche economiche e sociali vennero lasciate alla competenza degli Stati membri, e che il ‘vincolo esterno’ alle politiche pubbliche si tradusse solo nell’abbattimento delle barriere tariffarie e non tariffarie per consentire la mobilità delle merci. Il ‘Keynes in patria’ si manifestò nelle politiche pubbliche di sostegno allo sviluppo capitalistico, che richiese un allargamento della domanda, con l’ampliamento dell’occupazione e l’innalzamento dei salari (soprattutto come quota del PIL), una maggiore qualificazione scolastica della forza-lavoro, la preservazione della sicurezza sociale e della salute. Le questioni che sarebbero potute essere alla base di un reale compromesso sociale – il che cosa, quanto, come e per chi produrre, insomma la composizione dell’offerta e della domanda – non furono mai sollevate, men che mai a livello europeo. Si ebbe il big government, non lo Stato sociale, delineato certamente nelle Carte costituzionali che solo grazie alle lotte operaie e popolari sono divenute il quadro di riferimento delle decisioni politiche e giurisdizionali − quadro di riferimento fragile, se ben prima del Fiscal compact le Corti costituzionali, compresa quella italiana, hanno sottoposto al vincolo del bilancio l’erogazioni dei beni pubblici.

In particolare, a livello europeo non si è mai realizzato, in nessuna fase storica, né prima né dopo Maastricht, un compromesso sociale. La stella polare è stata l’integrazione economica tramite la costruzione del mercato, comune prima e unico dopo. La stessa CECA, la cui aspirazione fu certo di apportare la pace nel continente europeo attraverso la gestione in comune del carbone e dell’acciaio, si servì dei meccanismi economici e produttivi capitalistici, in primis del mercato9.

 

4.

Habermas e Balibar fanno spesso riferimento all’Ordoliberalismo, e Habermas, vi si riferisce per criticare l’odierna politica tedesca10. Non è solo da oggi che l’Ordoliberalismo guida la costruzione della comunità europea: esso, insieme con il funzionalismo, è stato in grado di fornire l’armamentario concettuale, prima che ideologico, della costruzione europea. L’Ordoliberalismo ha apportato le idee guida proprio in virtù della convinzione che il mercato non è il frutto dell’evoluzione spontanea delle relazioni economiche, ma una costruzione artificiale che necessita di istituzioni per garantirne nascita e sviluppo. Basta ricordare i nomi di L. Erhard e di W. Hallstein per comprendere come le idee ordoliberali avessero la testa e le gambe dei protagonisti della rinascita economica tedesca e della costruzione della comunità europea. L’impronta della costituzione economica dell’UE è ordoliberale, e le sue idee guida sono la formazione delle condizioni istituzionali predisposte dal potere politico per il funzionamento del mercato, la disciplina del bilancio pubblico come vincolo alla Sozialmarktwirtschaft, la stabilità finanziaria e monetaria garantite da una banca centrale indipendente. Le politiche antitrust e contro gli aiuti di Stato sono gli strumenti a garanzia della concorrenza nel mercato unico (vera meta-norma di sistema), gestite da forti autorità indipendenti cosicché gli apparati tecnocratici, e non la politica, regolano senza guidare l’economia11.

Habermas ha definito ordoliberali le politiche della Merkel, e le ha criticate con veemenza mettendone in luce le derive egemoniche tradottesi nell’imposizione del rigore di bilancio con il Fiscal Compact e l’ESM, che hanno causato per di più la rottura del metodo comunitario essendo essi trattati internazionali. Habermas ha maturato di recente una proposta di ‘UE a doppia velocità’, chiedendo ‘un cambiamento politico implicante trasferimenti di sovranità’, e sostenendo che ‘il governo tedesco deve decidere se non sia necessario proporre ai governi della zona euro, nel loro proprio interesse di lungo termine, una nuova configurazione dell’Unione monetaria trasformandola in una Euro-unione democraticamente legittimata’12. Habermas, che ha fornito argomenti per criticare ‘la colonizzazione delle forme di vita’ portata avanti dalla globalizzazione capitalistica, che ha esaltato la ‘European way of life’, che ha impegnato le sue straordinarie capacità intellettuali per elaborare modi di superamento del deficit democratico dell’UE, propone una divaricazione tra gli Stati membri dell’UE, usando come discriminante l’euro, la moneta, che è lo strumento più incisivo della colonizzazione dei mondi vitali. Il superamento della sovranità nazionale andrebbe affidato per Habermas alla sovranità post-nazionale della moneta unica, che è invece il mezzo di disciplinamento delle società europee, in quanto nuova forma di golden standard che ‘impone di aggiustare prezzi e salari alla bilancia esterna’13. Grazie alla gestione dell’euro per garantire la stabilità finanziaria, alla sua salvaguardia come elemento centrale del funzionamento dell’economia capitalistica, e alle ‘riforme strutturali’ la BCE e l’UE stanno arginando l’attuale crisi imponendo una drastica ristrutturazione delle banche e delle imprese, al prezzo dell’impoverimento sociale e della regressione del lavoro, in termini di precarietà, bassi salari, disoccupazione. La strada indicata di Habermas la stanno già percorrendo le élites europee, senza retoriche consolatorie, parlando il secco linguaggio dell’economia capitalistica.

Balibar, di sentimenti più altermondialisti, ritiene che la costruzione dell’Europa offra tuttora delle alternative, dovendo prendere atto a malincuore che la possibilità ‘di coglierle dipende da forze e progetti che non sempre sono presenti’. La sua speranza è che siano introdotti ‘elementi democratici nelle istituzioni comunitarie’, di certo però non basteranno a costruire l’altra Europa, dominata da classi dirigenti che stanno riorganizzando proprio le istituzioni comunitarie in chiave oligarchica e tecnocratica.

 1. sul logocentrismo della filosofia occidentale ha scritto N. G. Onuf che la svolta linguistica, il linguistic turn, ha portato al trionfo della metafisica greco-cristiana espressa lapidariamente nella frase del Vangelo di Giovanni: ‘in principio era la parola’, ma al logos Onuf contrappone il Faust di Goethe: im Anfang war die Tat (in principio era l’azione); v. World of Our Making, London and New York, 20132, pp. 36-39;

2. Die Zeit, 31 maggio 2003, pp. 33-34;

3. Why Europe Needs a Constitution, New Left Review, n.11, settembre-ottobre 2001, p. 12;

4. Quelle ‘constitution’ de l’Europe ?, febbraio 2004;

5. v. J. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano : il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Bologna 1980 ; si tenga presente anche Chantal Mouffe, Sul Politico, democrazia e rappresentanza dei conflitti, Milano 2007, dove viene ampiamente sviluppata la visione della democrazia come spazio conflittuale, in aperta polemica con quella di Habermas;

6. v. Policy-Making in the European Union, a cura di H. Wallace, M. A. Pollack, e A. R. Young, Oxford 20106, pp. 446-52;

7. Le monde diplomatique, marzo 2014, pp. 16-17;

8. Alternative per il socialismo, n. 30, pp.77-90;

9. disse Schuman nella sua Dichiarazione: ‘Le rassemblement des nations européennes exige que l’opposition séculaire de la France et de l’Allemagne soit éliminée … la solidarité de production qui sera ainsi nouée manifestera que toute guerre entre la France et de l’Allemagne devient non seulement impensable, mais matériellement impossible’;

10.  Repolitisons le débat européen, in Le monde, 23 febbraio 2014, www.lemonde.fr

11. per una efficace ricostruzione dell’Ordoliberalismo, v. M. Blyth, Austerity, Oxford 2013, pp. 57 e 133-41;

12. Le monde, cit.;

13. sulla moneta unica come moderna forma di golden standard, con il fine di disciplinare le politiche di bilancio a garanzia della stabilità monetaria e di imporre gli aggiustamenti strutturali, v.  Blyth, op. cit., p. 77, e R. B. Hall, Central Banking as Global Governance, Cambridge 2008, pp. 117-25 e 139-42.

Questo contributo è stato pubblicato anche su “Alternative per il socialismo” nr.31

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *