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Ragioni e ragionamenti dopo il corteo del 28G

Proviamo a ragionare, a bocce ferme, sulla giornata del 28 giugno. Una giornata che, come tante altre a queste latitudini, sembra far emergere elementi positivi e tratti negativi, imponendoci uno sforzo collettivo di analisi che – fuggendo l’ansia di magnificare ogni passaggio di piazza a partire dalla sua intrinseca natura – ci proietta non solo e non tanto verso un bilancio dell’anno politico che si sta chiudendo, quanto invece al prossimo autunno e ai prossimi passaggi di lotta.

Abbiamo avuto già modo di dire che il corteo di sabato scorso ha avuto il merito di essere il primo corteo, la prima risposta di piazza della sinistra contro l’UE. Un passaggio politico non di poco conto, che mira soprattutto a far luce su alcune confusioni lessicali e analitiche sul presunto dualismo UE/Europa, e che smonta i dubbi (più o meno ingenui) di chi individuava in queste parole d’ordine uno scivolamento sul crinale della destra neofascista e xenofoba che in Europa tanto sta proliferando a partire da posizione definite dai più “euroscettiche”. La battaglia comune contro l’UE, per come la vediamo noi, chiama in causa le borghesie nazionali degli Stati membri, collusi e in perfetta sinergia dentro il processo di liberalizzazione e smantellamento del pubblico che sta interessando – seppur a velocità diverse – in ogni Stato aderente. Non, quindi, una richiesta di sostegno allo Stato, strangolato dall’austerity di Bruxelles. Non, soprattutto, una nostalgia che ammicca ad una nuova e ritrovata sovranità nazionale. La denuncia, a partire dalla costituzione del polo imperialista dell’UE, chiama in causa i governi degli Stati membri, senza esentarli da responsabilità imputabili agli organi istituzionali dell’UE: sono loro, di comune accordo, a tessere la tela di precarizzazione e depauperamento, alla faccia del “forzaleghismo” e soci che combattono l’UE ché obbliga l’Italia all’adozione di misure draconiane.
Come la scelta delle parole d’ordine, così anche il timing politico del corteo è stato un elemento positivo del 28 giugno. Il giorno prima non solo Juncker è stato nominato nuovo Presidente della Commissione Europea (palesando l’inutilità del voto al Parlamento europeo come strumento di rappresentanza e indirizzo politico della Commissione), ma i delegati dei governi di Ucraina, Moldavia e Georgia hanno firmato l’Accordo di Associazione con l’UE, ovvero un lasciapassare alle prossime liberalizzazioni con ingresso di capitali privati che sconquasseranno le già deboli economie dei tre Paesi. In tal senso, una riposta di piazza che prendesse di petto l’UE, alla vigilia dell’inizio della presidenza italiana alla guida della Commissione, è stata senz’altro una giusta intuizione.
Va da se che, allo stesso tempo, un corteo convocato su parole d’ordine molto politiche (che indirettamente richiamavano le questioni sociali e dei bisogni) non poteva aspirare ad essere un corteo di massa come quelli che, almeno fino a pochi anni fa, eravamo abituati a vedere sfilare per il centro di Roma. Da questo punto di vista rimane fisso il monito già evidenziato in altre occasioni a partire dalla parabola numerica discendente che ha interessato le mobilitazioni post 19 ottobre, ovvero quello per cui i cortei ad oggi non basta convocarli ma vanno costruiti a partire da una dimensione territoriale capace di creare quel bacino di massa e consenso sociale che di tanto in tanto si riversa nelle piazze, come rappresentazione di lotte connesse tra di loro e che traggono una simbiotica energia dalla loro stessa interazione. Una piattaforma come quella del controsemestre popolare, di difficile e non immediata recezione, non poteva ambire a riempire le piazze romane stile San Giovanni, quanto invece a dare un segnale politico di presenza su un tema lasciato colpevolmente in disparte. A ciò va inoltre aggiunto che, diversamente da quanto normalmente accade, il corteo del 28 giugno è stato il punto di partenza di un tentativo politico che si articolerà anche nei prossimi mesi, motivo per cui il “bilancio consuntivo” di valutazione globale sarà bene farlo a seguito delle mobilitazioni autunnali.
La guerra sui numeri, poi, non aiuta certo nessuno. Né chi c’era né chi ha scelto di non esserci. Soprattutto, e tra le maglie del “movimento” questo dovrebbe essere chiaro, non sono i numeri (o almeno non solo loro) ad esprimere la giustezza o meno delle parole d’ordine che convocano un corteo. Un tema delicato, centrale, cui tutti abbiamo lavorato indipendentemente dalle differenze, ovvero quello della repressione, lo scorso marzo ha prodotto una piazza nazionale dai numeri esigui. Crediamo sia assurdo immaginare che l’esito di piazza, in quel determinato momento storico, fosse indicativo di una disaffezione a quel tema, o di una retrocessione a tema di serie B. Il discorso è semmai capire la composizione delle piazze e da quello modulare le valutazioni del corteo. Per cui se in alcune occasioni i sindacati non hanno timbrato il cartellino di piazza, in altre l’assenza di rilievo può essere stata dei movimenti per il diritto all’abitare, mentre in altre ancora – pur contando su ambo le partecipazioni (ovvero quelle che danno un “peso” numerico ai cortei) – è mancato l’allargamento alle componenti che non fossero esclusivamente militanti, e via discorrendo. Badate bene che questo ragionamento, dal nostro punto di vista, mira a disarticolare una fratricida quanto inutile battaglia per le briciole che invece, nel momento di bassa che collettivamente viviamo, dovrebbe indurci a capire non tanto come mettere da parte le differenze (o meglio, come estromettere le differenze che pur ci sono) quanto a trovare punti di convergenza dove sperimentare un’integrazione di massima. A partire da questo assunto, quindi, la composizione del corteo di sabato non è risultata sufficiente. Un corteo di soli militanti che evidentemente non è riuscito ad intercettare quel diffuso malcontento contro le politiche neoliberiste dell’UE. Un segnale su cui lavorare anche in vista delle tappe autunnali.
Se è dunque vero che il prossimo semestre sarà un momento di lotta diffusa sul terreno nazionale, in cui immaginare quindi la necessità di bloccare la produzione, articolare scioperi e innescare una dinamica frontista che crei sinergie tra le lotte, la definizione di un nemico di classe non può cozzare con le battaglie portate avanti sul territorio nazionale, con le lotte in cui quotidianamente ci misuriamo per allargare il meccanismo partecipativo e lo spettro del consenso. Ne è anzi una delle parti fondamentali.

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