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Alle origini del Global Warming: il petrolio

Pubblichiamo questo contributo di Giovanni Pancani, diffuso  all’Agorà Fiorentina durante l’incontro sul petrolio e l’energia:

Una delle più complesse questioni dibattute con crescente partecipazione da parte dell’opinione pubblica globale negli ultimi trent’anni è quella relativa al progressivo deterioramento dell’equilibrio ambientale e delle sue conseguenze sulla vita dell’uomo.

Sostanzialmente il dibattito pubblico si è articolato in una fase iniziale di maggior attivismo e partecipazione, negli anni ’70, seguita da un complessissimo periodo di “riflusso”, in cui l’opinione pubblica occidentale si è allontanata dalle questioni ambientali e si è progressivamente rinchiusa in un ambito molto più delimitato rispetto alle precedenti azioni collettive.

In questo periodo si sono enormemente approfonditi i problemi che riguardano l’equilibrio dell’uomo con la natura, mentre l’espansione economica che ha caratterizzato complessivamente tutto l’Occidente ha permesso un processo di assimilazione e riassorbimento di tutte quelle istanze e progetti che avevano caratterizzato i movimenti ecologisti degli anni ’70.

Negli ultimi anni si è assistito però ad un cambio di rotta molto significativo: alcune delle principali questioni ambientali stanno diventando sempre più pressanti e nonostante i media non trovino sempre il modo di informare l’opinione pubblica in modo scientificamente corretto, si assiste ad un coinvolgimento sempre più esteso di larghi strati della popolazione occidentale.

Un’ampia parte di questo coinvolgimento riguarda le questioni relative al global warming, cioè al continuo aumentare della temperatura sulla terra in conseguenza dell’utilizzo di combustibili fossili.

Quest’utilizzo, come noto, è a sua volta diretta conseguenza dell’attività di raffinazione del petrolioi.

Paradossalmente però all’interno della discussione sui cosiddetti global change, di cui il surriscaldamento della terra fa parte, la questione del possibile esaurimento delle risorse petrolifere non ha trovato spazio, se non minimoii.

Le due questioni devono invece essere affrontate insieme, a causa dell’evidente interdipendenza fra i due aspetti di quello che, in effetti, si presenta come un unico problema.

Infatti una imminente scarsità di petrolio ci costringerebbe probabilmente a ridurre le emissioni di gas serra, riducendo così almeno in parte l’impatto climalterante delle più dannose attività umane, mentre un equilibrio naturale fortemente compromesso potrebbe avere l’effetto di smuovere definitivamente parte dell’opinione pubblica mondiale verso l’applicazione rigorosa di norme quali il Protocollo di Kyoto.

Da qui l’interdipendenza e la complementarità dei due problemi – quello del progressivo esaurimento delle riserve di petrolio e quello del contenimento dei cambiamenti climatici.

Questo paper si occuperà quindi di tentare una risposta ad alcune delle domande centrali che ruotano attorno alle questioni petrolifere più dibattute:

– Quanto petrolio resta?

– E’ corretto parlare di un possibile esaurimento a breve termine delle risorse petrolifere mondiali?

– E’ possibile prevedere il momento esatto in cui la produzione di petrolio toccherà un massimo e comincerà quindi inevitabilmente a declinare subito dopo?

– Possiamo sostituire il petrolio con qualche cosa di alternativo?

Le prime tre domande sono tra loro strettamente intrecciate, mentre la quarta pur essendo in qualche modo correlata alle altre ne è anche parzialmente indipendente.

La risposta alla prima domanda può assumere diverse forme, a seconda dei metodi per eseguire una rendicontazione esatta delle riserve esistenti: convenzionalmente i diversi tipi di petrolio sono divisi in quattro categorie, a seconda di alcune caratteristiche fisiche basilari, quali il tenore di zolfo presente e la densità.

Si hanno quindi petroli ‘dolci’ (a basso tenore di zolfo, o sweet) o ‘amari’ (sour), oppure heavy o light (in base alla densità): da questi parametri dipende l’utilizzabilità del greggio, nonché il suo prezzo.

I prezzi che siamo abituati a sentire riportati da telegiornali e stampa fanno riferimento a greggi standard, come il Brent, quotato alla Borsa di Londra, l’IPE (International Petroleum Exchange) ed il Wti, quotato alla Borsa Merci di New York, il Nymex (New York Mercantile Exchange).

Ovviamente la domanda ‘Quanto ne resta?’ viene così a dipendere in definitiva da un accordo su quale tipo o quale insieme aggregato di tipologie di petrolio esaminiamo.

Generalmente – ma non sempre – le analisi di questo tipo vengono svolte sul greggio cosiddetto ‘convenzionale’, che comprende il Brent, il Wti (Western Texas Intermidium, ovvero Intermedio del Texas Occidentale) ed il greggio del Dubai, escludendo vari tipi di petrolio: ne deriva una certa disparità di risultati, che può essere anche notevole.

Il problema è reso ancora più complicato da tutta una serie di problemi anche molto rilevanti: per prima cosa, un ostacolo è costituito dalle diverse tecniche con cui vengono classificate le ‘riserve’ e le ‘risorse’ da parte delle compagnie petrolifere: generalmente le riserve sono definite come l’insieme di tutto il greggio estraibile da tutti quei giacimenti che sono attualmente in esercizio, mentre le risorse vengono comunemente divise tra risorse accertate e risorse stimate: le prime rappresentano una stima di tutto ciò che potrebbe essere estraibile da pozzi ancora non sfruttati ma conosciuti, mentre le seconde sono l’insieme delle risorse che si presume che esistano in un dato territorio.

Inoltre è da considerare che la conoscenza di un determinato giacimento aumenta con l’esplorazione del territorio e con le trivellazioni: questo fatto può apparire sorprendente, ma in effetti è estremamente complesso valutare l’estraibilità di greggio da una determinata area che si ritiene produttivaiii.

Il fatto che al momento dell’apertura di un pozzo si disponga solamente di un’informazione parziale riguardo alle possibilità operative introduce inevitabilmente una certa dose di arbitrarietà nelle valutazioni che vengono compiute sulle reali disponibilità di greggio; l’attività estrattiva è poi vincolata ad una percentuale variabile di greggio effettivamente estraibile: questa percentuale è in relazione alle caratteristiche fisiche delle rocce madri (o rocce sorgenti, le rocce in cui il petrolio è contenuto), alla conformazione interna del giacimento, alla sua pressione ed al numero dei pozzi scavabili.

In generale si riesce ad estrarre da ogni pozzo all’incirca il 35-40% del totale, con la possibilità di arrivare anche al 50%, in condizioni favorevoliiv: a livello globale il cosiddetto “tasso di recupero” è passato dal 20% del 1970 a circa il 35% attuale.

E’ da notare che questa percentuale può anche calare bruscamente, nel caso di un sovrasfruttamento del giacimento: gli esempi storici non mancanov.

Infine, soltanto negli Stati Uniti esiste per legge l’obbligo da parte dei proprietari dei pozzi di rendicontare le loro riserve secondo certe regole, mentre le compagnie operanti nel resto del mondo non hanno simili obblighi nei confronti degli stati in cui si trova il giacimento.vi

Tutti questi fattori, presi assieme, rendono la risposta alla prima delle nostre domande piuttosto complessa: la risposta alla nostra domanda dovrà quindi essere molto cauta, anche se, come vedremo c’è, sulla base di dati largamente condivisi, un accordo di massima sulla reale disponibilità di greggio.

In particolare, è significativo osservare in grafico della Fig. 1, che incrocia l’andamento storico delle scoperte con la tendenza dei consumi: questo grafico, basandosi soltanto sui dati storici della produzione e sulle scoperte di giacimenti, è largamente condiviso dagli esperti, e grafici assai simili sono stati presentati anche dalla Exxon-Mobil.

Fig. 1 – Il rapporto tra scoperte e consumi su scala globale. Fonte: Aspo (Association for the Study of Peak Oil) su rielaborazione dati della Exxon-Mobil.

Come si può osservare, ci sono state ampie oscillazioni nelle scoperte: un primo picco segue alla Grande Guerra e rappresenta i primi consistenti ritrovamenti in medioriente seguiti alla dissoluzione dell’Impero Ottomanovii ed al passaggio dell’intera area sotto il controllo inglese e successivamente angloamericano.

I ritrovamenti più consistenti sono avvenuti invece dopo la Seconda Guerra Mondiale, con un secondo picco negli anni ’60, preceduto da un altro negli anni ’50; all’incirca nel 1980 si è verificato invece il punto di incrocio: da quel momento il mercato ha cominciato ad assorbire più petrolio di quanto se ne trovasse.

Queste osservazioni, per quanto siano di carattere storico, hanno però anche un valore per così dire immediato, lasciandoci immaginare quale debba essere la risposta alla nostra domanda iniziale.

Naturalmente tutti i dati che riguardano le trivellazioni e le estrazioni attuali, come molti altri, sono di proprietà delle varie compagnie petrolifere e sono riservati: l’unica fonte pubblica di informazioni a riguardo sono le stime di riviste specializzate come l’Oil & Gas Journal, notoriamente inaffidabiliviii.

Naturalmente se i dati più rilevanti per la nostra risposta sono in stretto possesso delle stesse compagnie, e se sono spezzettati tra esse, allora una risposta complessiva e credibile risulta praticamente impossibile: quel che è noto con certezza è solo quanto viene prodotto.

Esistono però banche dati private e imprese di consulenza esterne alle compagnie, curate da esperti indipendenti mediante studi dettagliati che tentano di eliminare i dati spuri e stimare correttamente tutto il possibile: nonostante che l’accesso a tali dati sia soggetto a pagamento, sempre più esperti ricorrono a questo tipo di dati; una delle più note è la ormai disciolta Petroconsultants, su cui si basano le previsioni dei modelli che analizzeremo in seguito per rispondere alla seconda delle nostre domande.

In particolare è rilevante il dato della Fig. 2, che mostra l’andamento storico delle diverse predizioni sulla quantità complessiva di petrolio presente sulla Terra: la stima tiene conto anche di ciò che è già stato estratto e consumato, corrispondente all’incirca a 1000 miliardi di barili: quest’ultimo è uno dei pochi dati largamente condivisi dagli esperti, vista la relativa facilità di un conteggio complessivo.

Come si può vedere nella Fig. 2, la maggior parte delle stime si aggira poco al di sotto dei 2000 miliardi di barili: inoltre negli ultimi venti anni solamente due stime superano i 2500 miliardi. La risposta alla nostra prima domanda è quindi che il quantitativo di petrolio che resta da sfruttare si aggira presumibilmente intorno ai 600 – 1000 miliardi di barili (ricordiamo che un barile è 159 litri).

Volendo rendere immediatamente intuitiva la quantità di petrolio che presumibilmente resta ancora da sfruttare, si può pensare ad un cubo di 5 km di lato oppure considerare che siamo sei miliardi sulla Terra, e che quindi ne dovrebbe toccare circa 170 barili a testa, circa 26.000 litriix.

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Fig. 2 – Serie storica delle diverse stime del totale del petrolio estraibile ed estratto presente. Fonte: Colin Campbell, www.peakoil.net

Il grafico della Fig. 1 fa inoltre giustizia di un’opinione comune, spesso ripetuta, secondo cui già molte volte gli esperti avrebbero dato per imminente l’esaurirsi del petrolio, in particolare negli anni ’70: le stime allora utilizzate dagli esperti non avvaloravano questa idea e, come vedremo fra breve, quello che era possibile dire al tempo delle crisi petrolifere, al massimo, era che gli Stati Uniti stavano andando incontro al proprio momento di massima produzione e che non sarebbe quindi stato possibile in seguito aumentare ulteriormente la produzione. Questa affermazione era stata inoltre largamente accettata già agli inizi degli anni ‘70, seppure dopo un lungo periodo di aspre contestazioni.

La seconda delle nostre domande (‘E’ corretto parlare di un possibile esaurimento a breve termine delle risorse petrolifere mondiali?’) non è affatto più semplice della prima, ed è in stretta connessione con la terza.

La descrizione dell’andamento delle estrazioni petrolifere è ottenibile attraverso dei modelli di Dinamica dei Sistemi.

Vi sono vari modelli che possono essere utilizzati: curiosamente fino a non molti anni fa l’approccio prevalente in buona parte delle pubblicazioni sulle dinamiche estrattive si basava su un modello estremamente semplice (probabilmente il più semplice in assoluto), il cosiddetto modello R/P.

Si tratta in realtà del semplice rapporto tra riserve (R) e produzione (P): questo modello, che in letteratura è stato chiamato anche ‘modello birra nel frigo’x corrisponde ad un’idea assai semplice: se la Terra, ovvero il frigo del nostro modello, ha al suo interno dieci bottiglie di birra, ovvero una certa quantità di petrolio, e se il consumo quotidiano è di due bottiglie, allora le birre saranno esaurite in cinque giorni.

Questo modello oltre ad essere estremamente povero descrittivamente ha anche il difetto di non tenere conto di tutta una serie di problemi, che vanno dall’aumento storico dei consumi e quindi anche della produzione, al semplice fatto che molti dei risultati ottenuti attraverso questi modelli sono stati concepiti sulla base dei dati pubblici di cui abbiamo parlato sopra.

Inoltre questo modello potrebbe al massimo darci, se ben calibrato, una previsione di quanti anni di consumo stabile al livello di un certo anno potremmo avere ancora davanti a noi: questo sarebbe possibile però solo a patto di avere valori iniziali del modello assolutamente corretti per ogni giacimento ed assumendo un’economia completamente pianificata a livello mondiale, il che nelle condizioni attuali appare irreale.

Nonostante ciò questo tipo di approccio è largamente usato, specialmente nel confronto politico e più in generale nel dibattito pubblico su questioni relative alle risorse petrolifere.

Fra i vari approcci alternativi ve ne sono alcuni di notevolissima complessità, spesso derivati dalle scienze economiche come il modello di Hotelling, sviluppato nel 1931 dall’economista americano Harold Hotelling proprio per sviluppare una descrizione dell’esaurimento di una risorsa mineralexi.

Il capostipite di tutti i modelli che descrivono questi processi è però il modello creato dai matematici Alfred J. Lotka e Vito Volterra e detto, appunto, modello Lotka-Volterra.

Il modello è piuttosto intuitivo e si adatta molto bene al problema di modellizzare le estrazioni petrolifere e quindi di rispondere alla nostra seconda domanda.

Inoltre il modello è comprensibile anche senza dettagli matematici, che solitamente vendono accoppiate due equazioni differenziali.

La versione più semplice di questo modello è stata chiamata anche ‘modello delle volpi e dei conigli’xii: in questo particolare caso si immagina un’isola in cui siano presenti due specie in competizione, le volpi ed i conigli, senza interferenze da parte dell’ambiente esterno.

Naturalmente la popolazione di una delle due specie dipende dalla popolazione dell’altra: all’aumentare dei conigli ci sarà anche un aumentare delle volpi, mentre naturalmente non vale il contrario.

In una prima fase il modello prevede un aumento esponenziale di entrambe le specie: i conigli aumentano di numero mangiando erba (che ne modello si prevede essere infinita), mentre le volpi aumentano in conseguenza all’aumentare del numero dei conigli.

Se le volpi superano una certa quantità di conigli cacciati, questi ultimi non riescono più a riprodursi abbastanza velocemente e la popolazione crolla: come ovvia conseguenza anche la popolazione delle volpi crolla. I conigli superstiti ricominciano a riprodursi, aumentando di numero, e così anche le volpi: ne segue quindi una serie di cicli, che con l’introduzione delle opportune variabili possono diventare molto complessi.

Nel caso dell’estrazione di petrolio gli uomini hanno il ruolo delle volpi, mentre il petrolio rappresenta i conigli, con l’ovvia particolarità che il petrolio è in quantità fissa e quindi per ottenere un modello realistico dobbiamo settare a zero il coefficiente che ne descriverebbe la riproduzione.

A questo punto il modello prevede un unico ciclo di sviluppo, che segue una curva a campana, o gaussiana: le volpi del nostro esempio passano per un picco massimo, per poi declinare, mentre i conigli non fanno altro che diminuire di numero fin dall’inizio, ma ad un ritmo variabile: il modello prevede necessariamente una curva a campana, che può avere diverse forme a seconda delle variabili introdotte.

In effetti, dall’analisi dei casi storici già noti emergono proprio curve a campana, come nel caso del picco di produzione di carbone nelle miniere della Pennsylvania. (Fig 3)

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 Fig. 3 – Esaurimento delle miniere di carbone della Pennsylvania

Nel caso dell’estrazione di petrolio, come anche nel caso dell’estrazione del carbone della Pennsylvania, l’area sotto la curva è determinata dal totale del minerale estratto: come abbiamo visto però il calcolo dell’ammontare esatto del totale estratto ed estraibile è piuttosto complesso ed al massimo si possono fare soltanto ragionevoli previsioni.

Questa è in effetti la difficoltà principale di questo tipo di analisi, una difficoltà che accomuna necessariamente ogni genere di analisi.

L’osservazione storica ci è però di aiuto: il ragionamento che stiamo facendo è giocoforza globale, ma è ben noto che il picco di produzione si manifesta in modo diversificato nel tempo su scala locale, in corrispondenza delle particolarità dei giacimenti di una certa area.

Il primo che utilizzò curve a campana per prevedere l’andamento della produzione petrolifera fu il geologo americano Marion King Hubbert, allora dipendente della Shell.

Quella della Fig. 4 è la riproduzione del grafico originale presentato da Hubbert nel 1956 a proposito del picco di produzione degli Stati Uniti.

La previsione di Hubbert incorporava, come è evidente dalla figura, due diverse curve in funzione dell’incertezza relativa ai dati allora a disposizione: una prima curva, più piccola, prevedeva il picco nel 1968, l’altra lo spostava al 1970, considerando possibile una forbice di 50 miliardi di barili.

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Fig. 4 – Il Picco di Hubbert per gli USA nel grafico originale dell’autore.

 La previsione, nonostante il largo scetticismo che la circondava, si rivelò esatta, e gli Stati Uniti passarono per il loro picco di produzione verso la fine dl 1970: da allora è costantemente aumentata l’importazione del greggio mediorientale.

Nella Fig. 5 è presentato invece il corso reale degli eventi: si nota un picco di produzione molto evidente, approssimato da una gaussiana. Nella figura è inoltre evidente l’impatto che l’evento ebbe sui prezzi del greggio: è da notare un certo ritardo con cui è avvenuto l’impatto sui mercati: quella che abitualmente consideriamo una crisi petrolifera dovuta sostanzialmente alla volontà dell’Opec come conseguenza alla Guerra del Kippur, fu in ampia parte dovuta al raggiungimento del picco negli Stati Uniti.

Una volta avvenuto il picco, la predizione di Hubbert fu confermata in tempi molto brevi, e già nella primavera del 1971 apparve sul San Francisco Chronicle la notizia che l’ente che regolava la produzione interna degli Stati Uniti, la Texas Railroad Authority, aveva autorizzato ogni compagnia a produrre al massimo delle sue capacità di pompaggio.

La Texas Railroad Authority presenta inoltre delle somiglianze molto marcate con l’Opec (Organization of Petroleum Exporting Countries): su questo punto, che ha un importanza capitale, torneremo alla fine.

Fig. 5 – Il picco degli USA in prospettiva storica

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Non è noto se Hubbert abbia seguito nello sviluppo delle sue previsioni un modello dinamico, la derivata da una logistica o un semplice approccio empirico; da allora comunque l’approccio che prevede una curva massima di produzione ha largamente soppiantato ogni altro criterio di previsione.

Negli anni ’80 Hubbert sviluppò anche una previsione globale che prevedeva un picco nell’anno 2000: quest’ultima previsione non si rivelò corretta, anche se la produzione globale degli ultimi sette anni è cresciuta molto poco.

E’ anche da notare che è stato proprio nel 2000 che è partita la corsa al rialzo dei prezzi che è tuttora in corsoxiii.

Negli ultimi anni sono stati sviluppati diversi modelli molto innovativi che tentano una sintesi tra gli aspetti migliori delle proposte precedenti.

Quest’ ultima generazione di modelli presenta una caratteristica notevole e molto rilevante: tutte le diverse tecniche di predizione del picco implicano una curva a campana e sebbene le caratteristiche tecniche dei diversi modelli siano dissimili fra loro i risultati sono straordinariamente simili, convergendo in un orizzonte temporale ristretto.

Uno di questi modelli è stato presentato nel 2003 da un ricercatore italiano, Ugo Bardi, ed è ispirato ad un precedente lavoro dell’economista D.B. Reynolds, mentre un altro rilevante contributo è arrivato da Ali Samsam Bahktiari, un geologo petrolifero iraniano, che ha creato il cosiddetto Modello Wocap, attualmente tra i migliori esistenti.

Nei nuovi modelli sono implementate anche variabili che tentano di tenere conto del progresso tecnologico e di una larga quantità di fattori, come ad esempio, l’intensificarsi degli sforzi al diminuire della produzione.

In questi casi l’area sotto la curva aumenta di poco, assumendo un aspetto caratteristico ‘a denti di sega’; con l’intensificarsi degli sforzi e con un raffinamento della tecnologia disponibile aumenta anche di qualche punto percentuale il greggio estraibile. Nonostante ciò il picco giunge comunque, ed il relativo aumento si paga con una fase di decrescita che è inevitabilmente più rapida.

La curva diviene quindi asimmetrica, spostata in avanti.

Gli anni più recenti hanno visto inoltre il costituirsi di un’associazione informale di scienziati indipendenti che a vario titolo e con le più varie competenze studiano il petrolio ed il suo esaurimento, l’Aspo (Association for the Study of Peak Oil).

Quest’associazione è giunta a proporre un modello unificato che è attualmente ritenuto il migliore a livello mondiale tra gli studiosi indipendenti: è da notare che questo modello riassorbe i precedenti modelli di Bardi e di Bahktiari, piuttosto che essere a loro alternativo.

Il risultato del modello, visibile nella Fig. 6, consiste nell’affermare che il picco per il cosiddetto petrolio convenzionale è già avvenuto, ed è avvenuto presumibilmente tra il 2005 ed il 2006.

Secondo questo modello, nel momento attuale ci troviamo nella cosiddetta ‘fase di plateau’, ovverosia, sul limite superiore del picco, in una fase di sostanziale equilibrio obbligato tra capacità produttiva e richiesta di mercato.

Il picco dei diversi tipi di petrolio e di tutti i combustibili liquidi segue di poco, attestandosi comunque sempre prima del 2010.

Come è inoltre visibile questa fase dovrebbe durare relativamente a lungo, per poi esaurirsi in un lenta discesa che durerà molti anni.

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Fig. 6 – La previsione dell’Aspo del picco del petrolio su scala globale

 La risposta alla nostra seconda e terza domanda è quindi delineata: si, è possibile parlare di esaurimento del petrolio a breve termine, e questa discesa dovrebbe cominciare a manifestare i suoi effetti entro un arco di tempo piuttosto breve, dell’ordine di due-tre anni.

A questo punto, per completare il quadro, converrà riprendere la similitudine tra la Texas Railroad Authority e l’Opec: entrambi gli enti esistono (o meglio, esistevano nel caso della Texas Railroad Authority) con lo scopo di regolare il mercato e di evitare una crisi di sovrapproduzione, ed entrambi gli enti operano in base ad un sistema di quote.

Come si è visto il picco degli Stati Uniti arrivò al momento in cui la Texas Railroad Authority permise ad ogni compagnia di produrre al massimo delle proprie possibilità, abolendo il sistema delle quote.

L’Opec, che fu creata sul modello della Texas Railroad Authority, ha fatto lo stesso percorso: l’ultimo convegno mondiale dell’organizzazione, tenutosi a Caracas il 1 giugno 2006 si è concluso respingendo la proposta venezuelana di continuare ad imporre le quote di produzionexiv.

L’ultima delle nostre domande (‘Possiamo sostituire il petrolio con qualche cosa di alternativo?’) è forse la più semplice: si, è possibile sostituire il petrolio come fonte energetica, anche se nessuna singola tecnologia potrà rimpiazzarlo definitivamente, e forse niente potrà mai darci tutto ciò che ci veniva dato dal petrolio.

La risposta proposta, prudentemente, punta l’attenzione sul petrolio soltanto come fonte energetica, mentre la precisazione che segue allarga il campo a tutti quegli utilizzi del petrolio che sono, per così dire, invisibili alla pubblica opinione, come ad esempio nell’agricolturaxv o nell’industria farmaceutica.

Una panoramica esauriente sulle possibilità di produzione di energia è un’impresa pressoché irrealizzabile: la pura e semplice quantità di proposte che sono state ideate nel corso degli ultimi anni, o che sono tuttora in fase sperimentale, è enorme.

In generale la fase di competizione industriale che precede l’entrata in produzione di una qualsiasi tecnologia segue un percorso che gli economisti chiamano snake-pit (‘fossa dei serpenti’): tutto questo è ben noto, ed è descrivibile con modelli simili a quelli che abbiamo visto per l’estrazione del petrolio.

Questi modelli, ancora una volta, sono studiati dalla Dinamica dei Sistemi e prevedono una curva ad ‘S’, detta sigmoide, ottenuta attraverso una logistica.

La curva a campana e la curva logistica sono peraltro collegate dal punto di vista matematico, essendo la logistica l’integrale della curva a campana, e la curva a campana la derivata della logistica.

L’intero processo di sviluppo di tecnologie energetiche rinnovabili è comunque guidato da un sottostante processo che vede ancora nel petrolio la sua chiave di voltaxvi: se il processo di conversione energetica fosse spostato troppo in avanti nel tempo, superando il picco di produzione, la produzione di pannelli solari, o la costruzione di centrali nucleari, come di qualsiasi altra tecnologia che sostituisca il petrolio come fonte energetica, risulterebbe assai difficoltosa, al limite impossibile.

In altre parole, qualsiasi sia l’alternativa che si possa scegliere al petrolio, non si può adottarla troppo tardi.

Questa questione si pone in effetti per ogni alternativa energetica: estremizzando il problema, si può dire che una transizione energetica che cominci oltre un dato punto di sviluppo economico non lascia alcuna alternativa praticabile che non sia il ritorno ad una società di pura sussistenza.

Note

i Naturalmente il petrolio è solo il principale dei combustibili fossili, non l’unico. Sulla terra esiste, come noto, molto più carbone che petrolio. Nonostante ciò è altrettanto noto che l’estrema densità energetica, versatilità, lavorabilità, facilità di trasporto e di impiego dei combustibili derivati dal petrolio ne fanno indiscutibilmente un’eccezione: senza petrolio, ad esempio, sarebbe assai difficile estrarre anche solo una minima frazione del carbone presente sul pianeta.

ii Vedi, ad esempio: F. Cerutti, Global change, in corso di pubblicazione.

iii Per una panoramica sul grado di complessità ingegneristico raggiunto anche in aree di facilissima estraibilità come l’Arabia Saudita vedi Matthew Simmons, Twilight in the desert, John Wiley & Sons ed., 2005, ed i commenti che ne ha fatto Ugo Bardi nell’articolo Crepuscolo nel deserto. Un commento all’ultimo libo di Matthtew Simmons, www.aspoitalia.net.

iv Vedi Davide Scrocca, Petrolio: quanto ce n’è ancora?, Geoitalia, n. 15, luglio 2005, p. 3

v Molti giacimenti texani hanno subito questa sorte nei primi anni del Novecento. Un’ abbozzo della storia di questi giacimenti, è contenuta ne La febbre dell’oro nero, di Ruth Sheldon Knowles, pp. 31-49. E’ da notare che nel caso dei giacimenti texani si combinarono sovrasfruttamento e cattiva gestione dei pozzi. Oggi la gestione di pozzi è, chiaramente, assai migliore, ma il sovrasfruttamento è ancora possibile.

vi Fa naturalmente eccezione la Saudi Aramco, essendo un’impresa pubblica

vii7 Sullo sviluppo storico delle scoperte nelle varie aree dl mondo vedi Storia petrolifera del bel paese, di Ugo Bardi e Giovanni Pancani, Le Balze editore, pp. 33-72.

viii Molti dei dati riportati dall’Oil & Gas Journal sono naturalmente dovuti all’Opec: ad oggi moltissimi esperti tendono a non considerare veritiere, se non in maniera assai grossolana, le stime dell’Opec, preferendo ricorrere a banche dati private o a ditte specializzate nel trattamento dati. Per un’istruttiva visione critica dei dati riportati dall’Opec, vedi Davide Scrocca, Petrolio: quanto ce n’è ancora?, Geoitalia n° 15, p. 3

ix Questi calcoli sono stati eseguiti prendendo come valore di riferimento 1000 miliardi di barili disponibili.

x Vedi U. Bardi – La fine del petrolio. Combustibili fossili e prospettive energetiche per il ventunesimo secolo. – Editori Riuniti, Roma, 2003, p. 92.

xi Il modello di Hotelling, può essere utilizzato, con le opportune varianti, per diversi scopi: oltre a poter costituire un modello per le estrazioni ha anche un certo peso per capire in che modo chi opera sul mercato scelga di estrarre o meno petrolio da un dato giacimento. Per una descrizione intuitiva del modello vedi op. cit., p. 137.

xii Op. cit., pp. 95-98.

xiii13 I prezzi correnti del 1999 erano scesi poco al di sotto dei 10 dollari al barile. Nel marzo del 1999 l’Economist pubblicò un famoso editoriale dal titolo “Il petrolio a 5 dollari al barile potrebbe essere dietro l’angolo.” Esattamente un anno dopo, nel marzo dl 2000, il prezzo del barile arrivava a 34 dollari, cominciando la sua lunga corsa.

14 Per una suggestiva visione, sebbene un po’ retorica, dell’importanza dei derivati del petrolio nell’agricoltura vedi Richard Manning Il petrolio che mangiamo: risalendo la catena alimentare fino all’Iraq,www.aspoitalia.net

15 Per fare un solo esempio, particolarmente pregnante: il processo di raffinazione del silicio necessario per la produzione di pannelli solari è particolarmente energivoro. Questo naturalmente non è il solo caso in cui si verifica una dipendenza più o meno stretta di una tecnologia in sviluppo rispetto ad una precedente.

16 Per un quadro più dettagliato delle attività dell’Opec, vedi Ugo Bardi, La fine del petrolio. Combustibili fossili e prospettive energetiche per il ventunesimo secolo, pp. 125 -176.

Bibliografia

  • Alì Morteza Samsam Bakhtiari, Peak oil and the end of the modeling phase, paper presented at a lecture given at the University of Florence, Italy, March 8, 2007.
  • Ugo Bardi, La fine del petrolio. Combustibili fossili e prospettive energetiche per il ventunesimo secolo, Editori Riuniti, 2003.
  • Ugo Bardi, Il picco del petrolio. Ci siamo?, www.aspoitalia.net
  • Ugo Bardi, Crepuscolo nel deserto, www.aspoitalia.net
  • Ugo Bardi, Quanto petrolio c’è ancora?, www.aspoitalia.net
  • Ugo Bardi, Un’introduzione alla teoria di Hubbert produzione di petrolio e di combustibili fossili, www.aspoitalia.net
  • Ugo Bardi, Giovanni Pancani, Storia petrolifera del bel paese, Ed. Le Balze, 2006.
  • Colin Campbell, Jean Laherrère, La fine del petrolio a buon mercato, Le Scienze, 357, pp. 78 – 84.
  • Renato Guseo, Alessandra Della Valle, Oil and gas depletion. Diffusion models and forecasting under strategic intervention.
  • Ruth Sheldon Knowles, La febbre dell’oro nero, Club degli editori, Milano, 1961.
  • Jeremy Leggett, Fine corsa, Einaudi, Torino, 2006.
  • Richard Manning, Il petrolio che mangiamo: risalendo la catena alimentare fino all’Iraq, www.aspoitalia.net
  • Davide Scrocca, Petrolio: quanto ce n’è ancora? Geoitalia, n. 15, pp. 25-31, luglio 2005, consultabile anche su www.aspoitalia.net.
  • Matthew Simmons, Twilight in the desert, John Wiley & Sons ed., 2005.

da http://www.inventati.org/cortocircuito/

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