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Ferguson. Questione razziale e lotta di classe

Nel commentare la vicenda del Riot di Ferguson negli Stati Uniti, abbiamo già sottolineato come la questione razziale sia intrecciata fortemente con la struttura sociale che domina nel paese capofila dell’imperialismo.

Un dato costitutivo del moderno comando capitalistico sulla società specie in aree – come quella degli U.S.A. – dove il colonialismo (sia quello storico e sia quello attinente alle attuali forme neo/colonialiste) è stato un potente motore dell’accumulazione originaria.

Pubblichiamo, quindi, uno stralcio di uno scritto di Frantz Fanon che ci aiuta a comprendere questo aspetto analitico e ci consente di leggere, in termini classisti, la recente ondata di razzismo di stato in corso negli U.S.A.

da Frantz Fanon, “I dannati della terra” cap.I-1, Einaudi, 1962

Della violenza nel contesto internazionale

Abbiamo cento volte segnalato nelle pagine precedenti che nelle regioni sottosviluppate il responsabile politico è sempre in atto di chiamare il suo popolo alla lotta. Lotta contro il colonialismo, lotta contro la miseria e il sottosviluppo, lotta contro le tradizioni che steriliscono. La terminologia che adopera nei suoi appelli è una terminologia da capo di stato maggiore: «mobilitazione delle masse», «fronte dell’agricoltura», «fronte dell’analfabetismo», «disfatte subite», «vittorie riportate». La giovane nazione indipendente evolve per i primi anni in un’atmosfera da campo di battaglia. Il fatto sì è che il dirigente politico dì un paese sottosviluppato misura con spavento la strada immensa che deve percorrere il suo paese. Si rivolge al popolo e gli dice; «Cingiamoci le reni e lavoriamo». II paese, colto tenacemente da una specie dì follia creatrice, si slancia in uno sforzo gigantesco e sproporzionato. Il programma è non soltanto di cavarsela, ma di raggiungere le altre nazioni con i mezzi di bordo. Se i popoli europei, si pensa, sono giunti a quello stadio di sviluppo, è a seguito dei loro sforzi. Proviamo dunque al mondo e a noi stessi che siamo capaci delle stesse attuazioni. Questa maniera di impostare il problema dell’evoluzione dei paesi sottosviluppati non ci sembra né giusta né ragionevole.

Gli Stati europei hanno compiuto la loro unità nazionale in un momento in cui le borghesie nazionali avevano concentrato nelle loro mani la maggior parte delle ricchezze. Commercianti e artigiani, dotti e banchieri monopolizzavano nel quadro nazionale le finanze, il commercio e le scienze. La borghesia rappresentava la classe più dinamica, più prospera. Il suo accesso al potere le permetteva di lanciarsi in operazioni decisive: industrializzazione, sviluppo delle comunicazioni e quanto prima ricerche di shocchi «oltre-mare».

In Europa, se si eccettuano alcune sfumature (l’Inghilterra, per esempio, aveva preso un certo vantaggio), i diversi Stati al momento in cui si realizzava la loro unità nazionale si trovavano in una situazione economica press’a poco uniforme. Nessuna nazione, per i caratteri dello sviluppo e dell’evoluzione, insultava davvero le altre. 

Oggi, l’indipendenza nazionale, la formazione nazionale nelle regioni sottosviluppate rivestono aspetti completamente nuovi. In queste regioni, tranne alcune realizzazioni particolari, i diversi paesi presentano la stessa assenza d’infrastrutture. Le masse lottano contro la stessa miseria, si dibattono con gli stessi gesti e disegnano cogli stomaci rattrappiti quel che sì è potuto chiamare la geografia della fame. Mondo sottosviluppato, mondo di miseria e inumano. Ma anche mondo senza medici, senza ingegneri, senza amministratori. Di fronte a quel mondo, le nazioni europee si avvoltolano nell’opulenza più tronfia. Quest’opulenza europea è letteralmente scandalosa perché è stata edificata sulle spalle degli schiavi, viene in linea retta dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. Il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei negri, degli arabi, degli indiani e dei gialli. E questo, noi decidiamo di non dimenticarlo più. Quando un paese colonialista, messo a disagio dalle rivendicazioni all’indipendenza di una colonia, proclama alla volta dei dirigenti nazionalisti: «Se volete l’indipendenza, prendetevela e tornate ai Medioevo», il popolo di recente indipendenza ha tendenza ad acconsentire ed accettare la sfida. E si vede effettivamente il colonialismo ritirare i capitali e i tecnici e impiantare attorno al giovane Stato un dispositivo di pressione economica[1]. L’apoteosi dell’indipendenza si trasforma in maledizione dell’indipendenza. La potenza coloniale, con mezzi enormi di coercizione, condanna al regresso la giovane nazione. In parole chiare, la potenza coloniale dice: «Giacché volete l’indipendenza, prendetevela e crepate». I dirigenti nazionalisti non hanno allora altra risorsa se non di volgersi verso il loro popolo e di chiedergli uno sforzo grandioso. Da quegli uomini affamati si pretende un regime d’austerità, a quei muscoli atrofizzati si richiede un lavoro sproporzionato. Un regime autarchico viene istituito e ogni Stato, con i mezzi miserabili di cui dispone, cerca di rispondere alla gran fame nazionale, alla gran miseria nazionale. Si assiste alla mobilitazione di un popolo che da quel momento si sfianca e si stronca di fronte all’Europa sazia e sprezzante. 

Altri paesi del Terzo Mondo rifiutano questo cimento e accettano di sottostare alle condizioni dell’antica potenza tutelare. Usando la loro posizione strategica, posizione che li privilegia nella lotta dei blocchi, questi paesi concludono accordi, si impegnano. L’ex paese dominato si trasforma in paese economicamente dipendente. L’ex potenza coloniale che ha mantenuto intatti, e talvolta rafforzato, circuiti commerciali di tipo colonialista accetta con iniezioncelle di alimentare il bilancio della nazione indipendente. Si vede dunque che l’accesso all’indipendenza dei paesi coloniali pone il mondo di fronte a un problema capitale: la liberazione nazionale dei paesi colonizzati svela e rende più insopportabile il loro stato reale. Lo scontro fondamentale, che sembrava essere quello del colonialismo e dell’anticolonialismo, o magari del capitalismo e del socialismo, scade già d’importanza. Quel che conta oggi, il problema che sbarra l’orizzonte, è la necessità di una ridistribuzione delle ricchezze. L’umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda. 

Si è potuto generalmente pensare che l’ora fosse giunta per il mondo, e particolarmente per il Terzo Mondo, di scegliere tra il sistema capitalista e il sistema socialista. I paesi sottosviluppati, che si sono serviti della competizione spietata esistente tra i due sistemi per assicurare il trionfo della loro lotta di liberazione nazionale, devono tuttavia rifiutare d’insediarsi in questa competizione. Il Terzo Mondo non deve accontentarsi di definirsi riguardo a valori che lo hanno preceduto. I paesi sottosviluppati devono invece sforzarsi di mettete in luce valori che siano loro propri, dei metodi e uno stile che siano loro specifici. Il problema concreto davanti a cui ci troviamo non è quello della scelta, costi quel che costi, tra il socialismo e il capitalismo come sono stati definiti da uomini di continenti e di epoche diverse. Noi sappiamo, certo, che il regime capitalista non può, in quanto modo di vita, permetterci di realizzare il nostro compito nazionale e universale. Lo sfruttamento capitalistico, i trusts e i monopoli, sono nemici dei paesi sottosviluppati. Invece la scelta di un regime socialista, di un regime tutto rivolto all’insieme del popolo, basato sui principio che l’uomo è il bene più prezioso, ci permetterà di andar più svelti, più armoniosamente, rendendo cosi impossibile quella caricatura di società in cui alcuni pochi detengono l’insieme dei poteri economici e politici senza curarsi della totalità nazionale.

Ma affinché quel regime possa validamente funzionare, affinché noi possiamo ad ogni istante rispettate i principi a cui ci ispiriamo, ci occorre altro che l’investimento umano. Certi paesi sottosviluppati manifestano in tal senso uno sforzo colossale. Uomini e donne, giovani e vecchi, entusiasti, si arruolano in un vero lavoro forzato e si proclamano schiavi della nazione. II dono di sé, lo sprezzo d’ogni preoccupazione che non sia collettiva, fanno esistere una morale nazionale che conforta l’uomo, gli ridà fiducia nel destino del mondo e disarma gli osservatori più reticenti. Crediamo tuttavia che un simile sforzo non potrà continuare a lungo a quel ritmo infernale. Quei paesi giovani hanno accettato di raccogliere la sfida dopo il ritiro incondizionato dell’ex paese coloniale. Il paese si ritrova tra le mani della nuova équipe, ma in realtà occorre ricominciar tutto, ripensar tutto. Il sistema coloniale, difatti, s’interessava a certe ricchezze, a certe risorse, quelle appunto che gli alimentavano le industrie; nessun bilancio serio era stato fatto fino a quel momento del suolo o del sottosuolo. Perciò la giovane nazione indipendente si vede costretta a continuare i circuiti economici instaurati dal regime coloniale. Essa può, certo, esportare verso altri paesi, verso altre zone monetarie, ma la base delle sue esportazioni non è fondamentalmente modificata. Il regime coloniale ha cristallizzato circuiti e si è costretti sono pena di catastrofi a mantenerli. Bisognerebbe forse ricominciare tutto, cambiare la natura delle esportazioni e non soltanto la loro destinazione, indagare di nuovo il suolo, il sottosuolo, i fiumi e perché no il sole. Ora, per far questo, occorre altro che l’investimento umano. Ci vogliono capitali, tecnici, ingegneri, meccanici, ecc… Diciamolo pure, noi crediamo che lo sforzo colossale al quale sono invitati i popoli sottosviluppati dai loro dirigenti non darà i risultati previsti. Se le condizioni di lavoro non sono modificate, ci vorranno secoli per umanizzare quel mondo fatto animale dalle forze imperialiste[2].

La verità è che non dobbiamo accettare quelle condizioni. Noi dobbiamo apertamente rifiutare la situazione alla quale vogliono condannarci i paesi occidentali. Il colonialismo e l’imperialismo non si sono sdebitati con noi quando han ritirato dai nostri territori le bandiere e le forze di polizia. Per secoli i capitalisti si sono comportati nel mondo sottosviluppato come veri criminali di guerra. Le deportazioni, i massacri, il lavoro forzato, lo schiavismo sono stati i principali mezzi impiegati dal capitalismo per aumentare le sue riserve d’oro e di diamanti, le sue ricchezze e per stabilire la sua potenza. Pochi anni or sono, il nazismo ha trasformato la totalità dell’Europa in vera colonia. I governi delle vane nazioni europee hanno esatto riparazioni e chiesto la restituzione in denaro e in natura delle ricchezze che erano state loro rubate: opere culturali, quadri, sculture, vetrate sono state restituite ai proprietari. Sulle labbra degli europei, all’indomani del 1945, una sola frase: «La Germania pagherà». Dal canto suo il cancelliere Adenauer, nel momento in cui si apriva il processo Eichmann, ha, in nome del popolo tedesco, ancora una volta chiesto perdono al popolo ebreo. Adenauer ha rinnovato l’impegno del suo paese di continuare a pagare allo Stato d’Israele le somme enormi che devono servir di compenso ai delitti nazisti [3] 

Noi parimenti diciamo che gli Stati imperialisti commetterebbero un grave errore e un’ingiustizia senza nome se si contentassero di ritirare dal nostro suolo le coorti militari, i servizi amministrativi e di economato la cui funzione era di scoprire ricchezze, estrarle e spedirle verso le metropoli. La riparazione morale dell’indipendenza nazionale non ci acceca, non ci nutre. La ricchezza dei paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza. Sul piano dell’universale, questa affermazione, com’è facile capire, non vuole assolutamente significare che noi ci sentiamo oggetto delle creazioni della tecnica e delle arti occidentali. Molto concretamente l’Europa si è gonfiata smisuratamente dell’oro e delle materie prime dei paesi coloniali: America latina, Cina, Africa. Da tutti quei continenti, di fronte ai quali l’Europa oggi erge la sua torre opulenta, partono da secoli in direzione di quella stessa Europa i diamanti e il petrolio, la seta e il cotone, i legnami e i prodotti esotici. L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati. I porti dell’Olanda, Liverpool, i docks di Bordeaux e di Liverpool spedalizzati nella tratta dei negri devono la loro fama ai milioni di schiavi deportati. E quando noi sentiamo un capo di Stato europeo dichiarare con la mano sul cuore che deve portar soccorso agli sventurati popoli sottosviluppati, noi non palpitiamo di riconoscenza. Anzi ci diciamo: «è una giusta riparazione che ci verrà fatta». Perciò non accetteremo che l’aiuto ai paesi sottosviluppati sia un programma da «suore di carità». Quest’aiuto dev’essere la consacrazione di una duplice presa di coscienza da parte dei colonizzati che ciò è loro dovuto e delle potenze capitaliste che effettivamente esse devono pagare[4]. Che se per mancanza d’intelligenza – non parliamo d’ingratitudine – i paesi capitalisti rifiutassero di pagate, allora la dialettica implacabile del loro stesso sistema si incaricherebbe di asfissiarli. Le nazioni giovani, è un fatto, attirano poco i capitali privati. Molteplici ragioni legittimano e spiegano questo riserbo dei monopoli. Appena i capitalisti sanno, e sono evidentemente i primi a saperlo, che il loro governo si prepara a decolonizzare, si affrettano a ritirare dalla colonia la totalità dei capitali. La foga spettacolare dei capitali è uno dei fenomeni più costanti della decolonizzazione.

Le compagnie private, per investire nei paesi indipendenti, esigono condizioni che si rivelano all’atto pratico inaccettabili o irrealizzabili. Fedeli al principio di redditività immediata che è loro proprio, appena vanno «oltremare», i capitalisti si mostrano reticenti nei riguardi di ogni investimento a lunga scadenza. Sono restii e spesso apertamente ostili ai pretesi programmi di pianificazione delle giovani équipes al potere. A rigore accetterebbero volentieri di prestar denaro ai giovani Stati, ma a condizione che quel denaro serva ad acquistare manufatti, macchine, dunque a far funzionare le fabbriche della metropoli.

Di fatto, la diffidenza dei gruppi finanziari occidentali si spiega con la preoccupazione di non assumere alcun rischio. Perciò essi esigono una stabilità politica e un clima sociale tranquillo che è impossibile ottenere se si tien conto della situazione deplorevole della popolazione complessiva all’indomani dell’indipendenza. Allora, alla ricerca di una garanzia che l’antica colonia non può assicurare, essi esigono il mantenimento di certe guarnigioni o l’entrata del giovane Stato in patti economici o militari. Le compagnie private premono sul proprio governo perché almeno le basi militari siano impiantate in questi paesi con la missione di assicurare la protezione dei loro interessi. In ultima istanza, queste compagnie chiedono al loro governo di garantire gli investimenti che decidono di fare in questa o quella regione sottosviluppata.

Avviene che pochi paesi realizzino le condizioni che esigono i trusts e i monopoli. Perciò i capitali, privi di sbocchi sicuri, restano bloccati in Europa e si immobilizzano. Si immobilizzano tanto più in quanto i capitalisti si rifiutano di investite sul loro territorio. La redditività, in questo caso, è difatti insignificante e il contratto fiscale scoraggia i più audaci.

La situazione èa lunga scadenza catastrofica. I capitali non circolano più o vedono la loro circolazione considerevolmente diminuita. Le banche svizzere rifiutano i capitali, l’Europa soffoca. Nonostante le somme enormi inghiottite nelle spese militari, il capitalismo internazionale è ridotto agli estremi.

Ma un altro pericolo lo minaccia. Difatti, in quanto il Terzo Mondo è abbandonato e condannato alla regressione, in ogni caso al ristagno, dall’egoismo e dall’immoralità delle nazioni occidentali, i popoli sottosviluppati decideranno di evolvere in autarchia collettiva. Le industrie occidentali saranno rapidamente private dei loro sbocchi oltremare. Le macchine si ammucchieranno nei depositi e, sul mercato europeo, si svolgerà una lotta inesorabile tra i gruppi finanziari e i trusts. Chiusura di fabbriche, licenziamenti e disoccupazione condurranno il proletariato europeo a scatenare una lotta aperta contro il regime capitalista. I monopoli si accorgeranno allora che il loro interesse saggiamente inteso è di aiutare e di aiutare in massa e senza troppe condizioni i paesi sottosviluppati. È chiaro dunque che le giovani nazioni del Terzo Mondo hanno torto di far sorrisini ai paesi capitalisti. Noi siamo forti del nostro buon diritto e della giustezza delle nostre posizioni. Noi dobbiamo anzi dire e spiegare ai paesi capitalisti che il problema fondamentale dell’epoca contemporanea non è la guerra tra il regime socialista e loro. Bisogna porre fine a questa guerra fredda che non serve a nulla, arrestare la preparazione della nuclearizzazione del mondo, investite generosamente e aiutare tecnicamente le regioni sottosviluppate. La sorte del mondo dipende dalla risposta che verrà data a questa domanda.

Ed è inutile che i regimi capitalisti cerchino di interessare i regimi socialisti alla «sorte dell’Europa» di fronte alle moltitudini colorate e affamate. L’impresa del comandante Gagarin, con buona pace del generale de Gaulle, non è un successo che fa «onore all’Europa». Da qualche tempo i capi di Stato dei regimi capitalisti, gli uomini di cultura hanno, nei riguardi dell’Unione Sovietica, un atteggiamento ambivalente. Dopo aver coalizzato tutte le loro forze per annientare il regime socialista, capiscono adesso che bisogna far i conti con lui. Allora diventano cortesi, moltiplicano le manovre di seduzione e ricordano continuamente al popolo sovietico che esso «appartiene all’Europa».

Agitando il Terzo Mondo come una marea che minaccerebbe di ingoiare tutta l’Europa, non si arriverà a dividere le forze progressive che intendono condurre gli uomini verso la felicità. Il Terzo Mondo non intende organizzare una immensa crociata della fame contro tutta l’Europa. Ciò che esso si attende da quei che l’han mantenuto in schiavitù per secoli, è che lo aiutino a riabilitare l’uomo, a far trionfar l’uomo dovunque, una volta per tutte.

Ma è chiaro che noi non spingiamo l’ingenuità fino a credere che ciò si farà con la cooperazione e la buona volontà dei governi europei. Questo lavoro colossale che è quello di reintrodurre l’uomo nel mondo, l’uomo totale, si farà con l’aiuto decisivo delle masse europee che, devono riconoscerlo, si sono spesso allineate circa i problemi coloniali sulle posizioni dei nostri comuni padroni. Per questo, bisognerebbe anzitutto che le masse europee decidessero di svegliarsi, si scuotessero il cervello e cessassero di giocare al gioco irresponsabile della bella addormentata nel bosco.

Michele Franco – Rete dei Comunisti 

 


[1] Nel contesto internazionale attuale, il capitalismo non esercita il blocco economico soltanto contro le colonie africane o asiatiche. Gli Stati Uniti, con l’operazione anticastrista, inaugurano nell’emisfero americano un nuovo capitolo della stona della laboriosa liberazione dell’uomo. L’America latina formata di paesi indipendenti che seggono all’ONU e battono moneta dovrebbe costituire usa lezione per l’Africa. Quelle ex colonie, dalla loro liberazione, subiscono fra terrori e privazioni la ferrea legge del capitalismo occidentale.

La liberazione dell’Africa, lo sviluppo della coscienza degli uomini han permesso ai popoli latino-americani di finirla con la vecchia ridda delle dittature in cui i regimi si susseguivano assomigliandosi. Castro prende il potere a Cuba e lo dà al popolo. Quest’eresia è risentita come flagello nazionale tra gli yankees e gli Stati Uniti organizzano brigate controrivoluzionarie, fabbricano un governo provvisorio, incendiano i raccolti di canna, decidono infine di strozzare spietatamente il popolo cubano. Ma sarà difficile. II popolo cubano soffrirà ma vincerà. Il presidente brasiliano Janos Quadros, in una dichiarazione d’importanza storica, ha ora affermato che il suo paese difenderà con tutti i mezzi la Rivoluzione Cubana [vedi a fine della presente nota]. Perfino gli Stari Uniti forse indietreggeranno davanti alla volontà dei popoli. Quel giorno, noi meneremo fuori le bandiere, poiché sarà un giorno decisivo per gli uomini e per le donne dei mondo intero. Il dollaro che, tutto sommato, è garantito soltanto dagli schiavi ripartiti sul globo, nei pozzi di petrolio del Medio Oriente, nelle miniere dei Perù o del Congo, nelle piantagioni dell’United Fruits o di Firestone, cesserà allora di dominare con tutta la sua potenza quegli schiavi che l’hanno creata e continuano a testa vuota e a pancia vuota a nutrirlo della loro sostanza.

[… Il nuovo presidente Janos Quadros aveva, come si è visto, ereditato dal suo predecessore Kubitschek una situazione assai difficile. Al disagio e alle proteste dei ceti urbani si aggiungevano quelle delle combattive leghe contadine del Nordeste che, sotto l’energica guida di Francisco Juliao, si battevano per la realizzazione di una riforma agraria.

Quella di Quadros fu una presidenza breve e sconcertante. Egli era un paulista e apparteneva alI’Udn. un partito tradizionalmente legato all’oligarchia, ma ciò non gli impedì di condannare lo sbarco dei mercenari cubani alla baia dei Porci e di decorare dell’ordine della Croce del Sud il Che Guevara, due gesti che non potevano non suscitare le apprensioni dei militari e di vasti settori dell’opinione pubblica. Consapevole dei rischi che correva e probabilmente contando di essere rieletto con più vasti poteri, Quadros si dimise nell’agosto 1961 dopo appena un anno di mandato. Secondo la costituzione il vicepresidente Goulart. che si trovava in viaggio in Cina, avrebbe dovuto succedergli, ma la sua nomina incontrava la decisa opposizione dei militari che vedevano in lui un radicale, se non un comunista. Alla fine tra i militari e Goulart venne raggiunto un compromesso in base al quale i poteri del presidente sarebbero stati limitati, mentre sarebbero stati accresciuti quelli del Parlamento. Quest’ultimo, dato il sistema elettorale vigente che escludeva dal voto gli analfabeti, era espressione di un corpo elettorale in cui il voto delle campagne, tradizionalmente più moderato, aveva un peso maggiore di quanto ne avesse nelle elezioni presidenziali, nelle quali prevaleva invece il voto urbano e ciò costituiva un’ulteriore limitazione per il nuovo presidente. Goulart non si rassegnò però a essere un presidente dimezzato e nel gennaio 1963 indisse un referendum che gli restituì la pienezza dei suoi poteri con una larghissima maggioranza.]

[2] Certi paesi, favoriti da un popolamento europeo cospicuo, accedono all’indipendenza con muri e viali e hanno tendenza adimenticate il retroterra miserando e affamato. Ironia della sorte, per una specie di silenzio complice, essi agiscono come se le loro città fossero contemporanee dell’indipendenza.

[3] Ed è vero che la Germania non ha integralmente riparato i delitti di guerra Le indennità imposte alla nazione vinta non sono state reclamate in toto, poiché le nazioni lese hanno incluso la Germania nel loro sistema difensivo, anticomunista. È questa la preoccupazione permanente che anima i paesi colonialisti quando cercano di ottenete dalle loro antiche colonie, in mancanza dell’inclusione nel sistema occidentale, basi militari e schiavi. Hanno deciso di comune accordo di dimenticare le loro rivendicazioni in nome della strategia della NATO, in nome nel mondo libero. E si è visto la Germania ricevere a ondate successive dollari e macchine. Una Germania risollevata, forte e potente era una necessità per il campo occidentale. L’interesse saggiamente inteso dell’Europa cosiddetta libera, voleva una Germania prospera, ricostruita e capace di servire da primo baluardo alle eventuali orde russe. La Germania ha mirabilmente utilizzato la crisi europea, Perciò gli Stati Uniti e gli altri Stati europei provano legittima amarezza davanti a questa Germania, ieri in ginocchio, che fa loro oggi sul mercato economico una concorrenza implacabile.

[4] «Distinguere radicalmente la costruzione del socialismo in Europa dai “rapporti con il Terzo Mondo” (come se avessimo con questo soltanto relazioni di esteriorità) è, coscientemente o no, dare la precedenza alla sistemazione dell’eredità coloniale sulla liberazione dei paesi sottosviluppati, è voler costruire un socialismo di lusso sui frutti della rapina imperiale – come, ali’interno di una gang, ci si spartirebbe più o meno giustamente il bottino, salvo a distribuirne un poco ai poveri sotto forma di opere di bene, dimenticando che a quelli lo si è rubato», MARCEL PÉJU, Morir pour de Gaulle, articolo uscito in «Les Temps Modernes», nn. 175-76, ottobre-novembre 1960.

* Michele Franco, Rete dei Comunisti

Fonte: www.retedeicomunisti.org

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