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Dopo l’abolizione dell’articolo 18: retrospettiva e prospettive

Il 4 dicembre 2014, giorno successivo all’approvazione del Jobs Act al Senato, in uno degli spazi situati all’interno dell’Università di Napoli “Federico II”, si tenne un convegno con la partecipazione di Piero Ichino, uno dei giuslavoristi ispiratori delle legislazioni borghesi sul mercato del lavoro in Italia, e i non proprio intransigenti oppositori interni del Partito Democratico, Cesare Damiano e Pietro Fassina. Grazie all’occupazione del rettorato, gli studenti ottennero la sospensione del convegno e la conseguente riapertura degli spazi dell’università circondati dalla polizia a protezione del convegno stesso dalle contestazioni. Nel momento in cui essi ripresero accesso alla loro Università, tra i vari slogan, gridarono quello tante volte gridato nei mesi precedenti: «L’articolo 18 non si tocca, lo difenderemo con la lotta». Ciò poteva sembrare strano, visto che la legge-delega n. 183 era già stata approvata, benché restasse ancora aperta una possibilità di lotta intorno ai suoi decreti attuativi. Oggi che il decreto legislativo n. 23 è stato emanato il 4 marzo 2015, ritornare sullo slogan potrebbe sembrare addirittura anacronistico, anche perché le promesse di “riprenderci l’articolo 18” fatte da Maurizio Landini durante la manifestazione del 28 marzo a Roma, abbisognerebbero della contestualizzazione più precisa in un progetto strategico d’insieme di cui, francamente, non si non si vedono ancora bene i contorni. Perciò, quale che potrà essere il successo (che, certo, sarebbe benvenuto) di una rivendicazione del genere, se ha un senso continuare a parlare oggi dell’articolo 18, ciò può voler dire solo che nella questione ci sono alcuni significati che vanno al di là di una particolare garanzia ”sindacale”, eventualmente da riconquistare.

Provo a spiegarmi. Sempre, nella lotta di classe che oppone lavoro salariato e capitale, gli stessi obiettivi proclamati assumono significati differenti secondo le fasi storiche e, quindi, secondo i rapporti di forza differenti che si creano. Negli anni Settanta del secolo Ventesimo, quando entrò in vigore l’articolo 18, inserito nello Statuto dei lavoratori, sulla cui base si sarebbe concluso, due anni dopo, il processo federativo fra i tre maggiori sindacati ufficiali, CGIL-CISL-UIL, i movimenti – che nel frattempo si sviluppavano – di contestazione all’assetto capitalistico e imperialistico della società, politicamente organizzata nella forma dello “Stato sociale” ovvero del “welfare”, vedevano questi processi in seno al movimento operaio tradizionale come finalizzati, anzi, addirittura strategicamente organici al consolidamento del blocco dominante “capital-socialista” contro una classe proletaria i cui connotati erano profondamente mutati in connessione alla crisi dell’assetto organizzativo fordista del lavoro e della società intera, crisi che si leggeva come provocata da quelle stesse lotte e quindi da quella stessa nuova configurazione soggettiva del proletariato. Viceversa, alla dopo il lungo periodo segnato dalla fine del comunismo sovietico, dalla globalizzazione capitalistica e dalla sua crisi, e compiutosi il processo di distruzione dello Stato sociale grazie alla dura politica liberista e repressiva dell’Unione europea, di cui i governi italiani sono stati e sono tra i primi della classe, ecco che, appunto qui da noi, “l’articolo 18”, la sua soppressione e la sua “difesa con la lotta” si sono rovesciati nel loro opposto, diventando un coagulo simbolico ed emblematico – ma non certo meno efficace praticamente – del fatto che nel conflitto tra capitale e lavoro salariato, alla fine, non ci può essere mediazione. Dal che – lo dico senza nessuna prevenzione polemica, giacché la massima unità, ma nella chiarezza degli obiettivi, è quello che ogni comunista persegue – bisognerebbe trarre l’insegnamento che il “riprendiamoci l’articolo 18” rischia di essere addirittura velleitario detto così, in assenza di un progetto strategico d’insieme, alla cui base ci dovrebbero stare una netta presa di distanza dalla politica di concertazione più o meno acquiescente attuata in questi anni dai sindacati ufficiali, e una pratica politica la quale non esclude certo trattative e compromessi di breve periodo con l’avversario, ma deve finalizzarli a fare un passo avanti a vantaggio della classe proletaria, dato che tra i soggetti che trattano c’è e rimarrà fino alla fine un’inimicizia incomponibile.

E allora, nei mesi in cui i padroni hanno combattuto la battaglia per imporre il Jobs Act mediante il loro comitato d’affari euro-italiano in cui “al meglio” si impegna Partito Democratico, uno degli argomenti usati era che l’articolo 18 di fatto vigeva già solo nominalmente in una realtà come quella italiana, fatta di piccole industrie al di sotto delle 15 persone, quindi al di sotto della condizione perché il giudice potesse decidere il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. In un paese dove ormai le grandi industrie sono finite e il processo di postindstrializzazioe le ha smantellate o delocalizzate, quella sul mantenimento dell’articolo 18 sarebbe stata una battaglia di bandiera e solo un ostacolo verso una legislazione più moderna.

Invece non è vero che l’articolo 18 sarebbe stato un ferro vecchio, superato da processi lavorativi ormai da quasi tre decenni esternalizzati, diffusi e quindi scorporati in aziende tendenzialmente piccole, con lavori resi flessibili ecc. Le stesse leggi della produzione capitalistica portano, proprio mediante il movimento interno della concorrenza, alla centralizzazione dei capitali, anche e soprattutto quando ciò avviene sotto le sembianze dell’esternalizzazione. Inoltre la delocalizzazione delle fabbriche in altri paesi non significa necessariamente il loro sminuzzamento.

La tendenza del capitale è di centralizzare sempre più i mezzi di produzione, quindi renderli utilizzabili soltanto socialmente, e questo oggi lo troviamo non solo nelle fabbriche ma in tutta la società. Basta solo osservare che cosa avviene nella scuola e nell’università con i nuovi sistemi informatizzati di valutazione e che cosa avviene nel sistema di relazioni umane che si manifestano nei social networks, giusto per fare degli esempi. Preso in sé, tutto ciò è (o meglio: sarebbe) un grandissimo progresso nello sviluppo dell’uomo come individuo sociale. Tuttavia il capitale provoca questa trasformazione “progressista” dei processi lavorativi solo perché è spinto dalla sua brama di arricchimento: infatti, mediante le innovazioni tecnologiche e sociali esso deve ridurre il più possibile la quantità di tempo di lavoro necessario a riprodurre il salario, per allungare a dismisura il tempo di lavoro superfluo in cui può produrre il plusvalore. In questo modo il capitale si assoggetta tutto il tempo di vita, sia di chi al momento per caso lavora sia di chi forzatamente non lavora e deve vedere dove e come può far schiarire il giorno. Così la ricchezza prodotta grazie a questo progresso nel rendere comuni i mezzi di produzione e potenziare le relazioni umane, è centralizzata nelle mani di pochi, i quali intascano gli utili di tutto questo enorme lavoro sociale e così ostacolano lo sviluppo di questa base produttiva verso una società dove ogni individuo possa svilupparsi in modo da favorire, con il suo sviluppo, anche quello degli altri e non schiacciarlo, come accade oggi, e come è teorizzato dai sostenitori della meritocrazia. Questa contraddizione, che è la più caratteristica del sistema capitalistico, è del tutto trasparente nelle varie riforme liberiste del mercato del lavoro (per esempio, il Jobs Act italiano, appunto) e dell’istruzione (per esempio, il Progetto europeo Delors di inizio Duemila, da noi culminato nei progetti legislativi privatizzatori quali “Buona” scuola o università che sia).

Ebbene, l’avvenuta abolizione della possibilità che il giudice, mediante un processo, avrebbe reintegrato il lavoratore per insussistenza di giusta causa del licenziamento, sarebbe stato, per i capitalisti, uno dei tanti ostacoli (accanto, per esempio, alla lunghezza delle procedure amministrative in genere per mettere su un’azienda, tassazione esagerata, processi lunghi ecc.) che impediscono la libera circolazione dei capitali, la libera concorrenza, la mobilità degli investimenti ecc. Infatti uno dei motivi che si adducevano a sostegno dell’abolizione dell’articolo 18 era appunto che in questo modo gli investimenti stranieri in Italia sarebbero stati favoriti. Questo è vero, poiché effettivamente gli investitori stranieri (e l’Unione Europea che ne è sicofante insieme al Fondo Monetario Internazionale e soci), considerano, o consideravano, tra le arretratezze e i “privilegi” scoraggianti gli investimenti in Italia, appunto la presenza di eccessive tutele sul lavoro. Infatti, una volta eliminato l’ostacolo, e raggiunta l’agognata libertà da “tutele” per i lavoratori, e ripreso lo stimolo agli investimenti in Italia (cosa che è tutta da dimostrare, data la stagnazione, se non addirittura il persistere della depressione), si sarebbe fluidificata la circolazione dei capitali, e di conseguenza i capitalisti sarebbero stati più propensi a comprare piccole industrie e a centralizzarle in unità produttive più ampie in forza della tendenza alla centralizzazione che il capitale sviluppa dialetticamente dalla legge interna alla libera concorrenza, dove «ogni capitalista ne ammazza molti altri» (MEOC*, p. 838), come diceva Marx, cosa che continua ad avvenire malgrado tutte le autority e i processi a Google o Apple che si possano fare. Così, in forza della tendenza alla centralizzazione, inevitabile conseguenza proprio della libera circolazione dei capitali, le piccole imprese con meno di quindici operai (o meno di cinque per le imprese agricole) diventano sempre più grandi, andando a superare facilmente anche i sessanta operai che l’articolo 18 prevedeva come condizione della reintegrazione per ogni datore di lavoro, imprenditore o non. È chiaro, allora, che con un articolo 18 in vigore, ci sarebbe stato uno dei tanti ostacoli che avrebbe scoraggiato gli investimenti. Insomma, l’inevitabile tendenza del capitale a centralizzarsi avrebbe spinto i padroni stranieri a cautelarsi dalle conseguenze legislative loro sfavorevoli che, stando in vigore l’articolo 18, un possibile aumento assoluto di lavoratori in un’unità produttiva potrebbe causare. Ma allora ecco che non era indifferente se l’articolo 18 ci stava o non ci stava, né quella che si chiamava “difesa dell’articolo 18 con la lotta” era il mantenimento della bandiera, bensì era una cosa materialissima che andava a toccare interessi sensibili dei padroni, interessi sempre necessariamente ostili a quelli dei proletari .

Il secondo argomento che i sicofanti liberisti della borghesia – politici e intellettuali – portavano per l’abolizione dell’articolo 18, era che in questo modo si sarebbero aperte le porte del Paradiso ai precari, ai non garantiti, ai disoccupati, insomma alla gran parte dell’umanità, perché la rivoluzione del mercato del lavoro avrebbe abolito tutta una serie di privilegi caratteristici dei lavoratori occupati e resi inamovibili. Questi ultimi, infatti, come si sa, sarebbero dei parassiti al cui confronto i signori feudali assomiglierebbero agli intraprendenti, volenterosi e generosi giovani che stanno gettando via gratis – e ringraziando pure – la loro intera giornata di vita ai benefattori che hanno messo su la meraviglia dell’Expo di Milano 2015, guarda un po’…. per combattere la fame nel mondo. I processi di deindustrializzazione (resterebbe da capire, in questi discorsi, che cosa si intende per “industria” e che cosa sarebbe questa “deindustrializzazione” che la cancella) rendono flessibile il lavoro e quindi cancellano il posto fisso per esigenze tecniche della produzione stessa, mentre il persistere di questa legislazione avrebbe mantenuto vecchie e superate corporazioni, a discapito della maggior parte della popolazione alla ricerca di lavoro che non trova.

Ma questo eroico furore egualitario della borghesia è una vera e propria mistificazione. Qui è confusa l’innovazione tecnologica del processo lavorativo sociale, che la produzione contemporanea cosiddetta flessibile porta con sé, con il suo uso capitalistico, funzionale al processo di valorizzazione. Sotto il primo aspetto, della flessibilità del lavoro, le innovazioni contemporanee del processo lavorativo non fanno altro che sviluppare ulteriormente la tendenza insita nella grande industria stessa, intesa qui non come l’industria fordista, ma, su un tempo più lungo, come la grande industria quale si distinse nell’ultimo terzo del secolo Diciottesimo dalla manifattura che l’aveva preceduta e che era fondata sulla divisione del lavoro. La «base tecnica» della grande industria, come scrive Marx nel Libro primo de Il capitale, «è […] rivoluzionaria» perché «per mezzo del macchinario, dei processi chimici e di altri metodi» – e qui possiamo arrivare facilmente anche all’informatizzazione, ai processi snelli e “skillati” ecc. – «essa sconvolge costantemente, assieme al fondamento tecnico della produzione, le funzioni dei lavoratori e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di lavoratori da una branca all’altra della produzione. La natura della grande industria porta con sé quindi variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità del lavoratore in tutti i sensi» (ivi, p. 531). Inteso così, anche il lavoro post-fordista non solo contiene, ma accentua a una potenza ancora maggiore i caratteri della grande industria. Ora, la flessibilità delle funzioni come portato dell’innovazione dei processi lavorativi, favorisce lo sviluppo di individui non più immobilizzati nell’idiotismo del mestiere, bensì capaci di sviluppare le loro abilità sempre più verso i trecentosessanta gradi. Sotto questo aspetto essa è un progresso che, in una società che abbia distrutto i rapporti capitalistici di proprietà, sviluppa potenzialità e aumento della forza produttiva generale molto di più di quanto ciò avvenga nel capitalismo, dove invece la sua funzione è completamente diversa: riconquistare, dopo precedenti fasi di lotta spesso favorevoli alla classe proletaria e a tutto il resto della società, il comando del capitale sul lavoro. Infatti flessibilità significa rivendicazione della libertà del capitale di mettere persone sul lastrico senza ostacoli e impacci giuridici – e a questo scopo conquistarsi il rapporto politico di forza necessario -, in modo da ottenere, da chi è momentaneamente occupato, più lavoro, quindi più tempo di vita sacrificato all’accumulazione della ricchezza di pochi, grazie alla pressione concorrenziale dei disoccupati, (immigrati o locali, non importa), che sarebbero pronti a moderare le pretese degli occupati e rimpiazzarli se non sgobbano di lavoro. Quindi la flessibilità del processo lavorativo industriale e postindustriale, ossia l’innovazione tecnologica in sé virtuosa, sotto il capitale perverte la sua virtuosità in quanto è usata come arma di una vera e propria guerra civile per dividere la classe lavoratrice, cioè il suo nemico. Leggiamo come Marx continua, dopo avere descritto la base tecnica rivoluzionaria della grande industria: «Dall’altra parte essa riproduce nella suaforma capitalistica l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate […]. Questa contraddizione assoluta to[glie] ogni tranquillità, solidità e sicurezza alle condizioni di vita del lavoratore, e […] minacci[a] sempre di fargli saltare di mano, insieme al mezzo di lavoro, anche il mezzo di sussistenza» (ibidem) – sta qui il punto di tutta la faccenda secondo me. «Questa contraddizione», continua Marx, «trov[a] l’acme in un ininterrotto banchetto sacrificale della classe dei lavoratori, nella più smisurata distruzione delle forze-lavoro e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale» (ibidem).

Quindi, con la flessibilità richiesta dai nuovi e sempre rinnovantesi processi lavorativi, l’articolo 18 non c’entra perfettamente niente. Ce lo fanno entrare i borghesi nella misura in cui il nuovo processo lavorativo flessibile è messo in movimento dal capitale unicamente per il suo scopo di estorcere più lavoro supplementare per l’accumulazione e, contraddittoriamente, per fare fronte alla diminuzione del saggio del profitto che quell’accumulazione stessa comporta data la minore richiesta di lavoro vivo (da cui in realtà ogni plusvalore esclusivamente proviene) in una produzione in cui il ruolo preponderante, dato lo sviluppo tecnico-scientifico della società, è assunto dalla parte costante e, al suo interno, da quella fissa del capitale stesso.

E allora, il punto non sarebbe dovuto essere quello di abolire l’articolo 18 o ridurre le garanzie rendendole solo crescenti «in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché’ prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento» (art. 1 comma 7c), il che significa: premiando, dopo molti anni di pluslavoro da massacro, i servi salariati disposti a comportarsi “economicamente”, ossia “politicamente”, da pecore – sempre qualora nel frattempo la libera concorrenza non abbia ingoiato il virtuoso garante nelle fauci del monopolio centralizzante imperialistico. Il punto sarebbe dovuto essere, invece, quello di estendere sempre di più le tutele a chiunque, appena entra nel processo lavorativo, insieme ai sussidi di disoccupazione per chi non ha lavoro, dato che quanto più il lavoratore diventa essenziale alla produzione capitalistica (perché solo il lavoro vivo fa accumulazione), più la sua posizione diventa precaria sotto la pressione della concorrenza niente affatto virtuosa con gli altri membri della sua stessa classe, i quali, a loro volta, appena entrati nel lavoro, sarebbero immediatamente destinati a fare la stessa fine, e a tutele crescenti inversamente proporzionali all’accumulazione crescente, dimostrando, così, che la concorrenza tra occupati disoccupati, distrugge entrambi, a differenza che la concorrenza tra capitalisti, che “almeno” ne salva pochi.

Per questa ragione occupati e disoccupati, siano essi indigeni, siano essi migranti, hanno tutto da perdere a farsi concorrenza tra loro e tutto da guadagnare a unirsi: Infatti, come ci ricorda sempre Marx, «non appena i lavoratori […] scoprono che il grado d’intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa; non appena quindi cercano attraverso Trades Unions ecc. di organizzare una cooperazione sistematica fra i lavoratori occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge di natura della produzione capitalistica ha per la loro classe, – il capitale e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della “eterna” e, per così dire, “sacra” legge della domanda e dell’offerta. Ogni solidarietà fra gli operai occupati e quelli disoccupati turba infatti l’azione “pura” di quella legge» (MEOC, p.709). È proprio per evitare quest’unione, per essa micidiale, tra le due parti della classe sua nemica, che la borghesia e i suoi sicofanti politici (Renzi è il più versato a recitare questa parte) ed economisti, esibisce tanto universalismo liberoscambista e tanta sollecitudine alla lotta contro il presunto conservatorismo o reazionarismo dei lavoratori (ora ex-) articolodiciottati, residuati bellici pieni di pericolose scorie corporative ed egoistiche. Eppure, tanta odorosa freschezza progressista è piena di peli maleodoranti, perché è unicamente interessata, come dicevo poco fa, a mantenere la concorrenza tra operai, occupati e disoccupati, in mancanza della quale l’esistenza della classe borghese sarebbe seriamente minacciata, mentre il relativo superamento della concorrenza tra borghesi mediante la centralizzazione dei capitali e la formazione dei monopoli, comunque non intacca, da sola, l’esistenza della proprietà privata e quindi la riproduzione di quella classe.

Il senso della legislazione europea sul lavoro è appunto quello di togliere tutti gli ostacoli che impediscono al capitale di avere il pieno comando sul lavoro salariato, il che significa: libertà di licenziare e tenere alta la concorrenza tra occupati e disoccupati, questione di vita o di morte per la riproduzione capitalistica. Questo obiettivo il capitale lo sta perseguendo non solo nei luoghi dove esso immediatamente si riproduce, industrie e grandi complessi commerciali, ma anche nella pubblica amministrazione e nell’istruzione a tutti i livelli. Perciò la prima cosa che l’Unione europea chiede agli Stati membri, cioè a se stessa, come condizione per tenere i conti in ordine e pagare i debiti, è di fare la legislazione sul lavoro nel senso della privatizzazione immediata dei rapporti sociali, insomma nel senso della libertà di licenziare, dopo di che i soldi escono. In questi giorni i governi dell’Unione stanno premendo, in proposito, sulla Grecia, mentre l’Italia si è da tempo prontamente allineata, anche perché il Jobs Act – non va dimenticato – chiude un percorso che era iniziato lontano, a metà degli anni Novanta con il pacchetto Treu. Questo della legislazione sul mercato del lavoro è il cuore della politica della classe borghese ed è stata la prima cosa messa all’ordine del giorno dopo la fine della Guerra fredda e della stagione di lotte sociali negli anni Settanta, rimanendo la molla ultima della costituzione dell’ordine mondiale presente.

Per questi motivi, a prescindere da se la lotta per riprendersi l’articolo 18 vada a buon fine, mi sembra che abbia comunque un senso connettere la lotta contro l’intero Jobs Act con la comprensione dei motivi di tanto accanimento che ci sono stati contro l’articolo 18, e con la consapevolezza della necessità di estendere le tutele a sempre più lavoratori, invece che restringerle.

Infine, l’intenzione, che pochi mesi fa, prima della promulgazione del Jobs Act, si esprimeva, di “difendere l’articolo 18 con la lotta” non è qualcosa di “lavorista” o “sovranista”, come lo sarebbe la Costituzione del 1947 “fondata sul lavoro”, parola, quest’ultima, sotto cui si celano i più vari significati, dai più infami ai più avanzati. Ora che il governo italiano, così solidale con tutti gli altri governi egemoni che compongono l’Unione europea, sta completando, insieme e in stretta connessione, la riforma del lavoro e quella della costituzione del 1947, sembrerebbe che, per una tragica ironia, si stiano avverando i desideri degli antilavoristi e antisovranisti, solo che quello che ci sta dentro non è certo quanto, ovviamente, intendono i compagni che assumono queste prospettive critiche. Sul fronte opposto, invece, coloro che in tutti questi anni passati hanno fatto il capolavoro di confinare le questioni politiche che si intrecciano intorno all’articolo 18 nell’autoreferenzialità burocratica della prassi sindacale ufficiale, costituendosi, così, in oggetto adeguato e argomento a ottimo mercato per chi voleva accusare l’articolo 18 di residuo di privilegi feudali, oggi ne pagano lo scotto e si spera che vogliano trarre qualche lezione dalla prassi.

La denuncia recente dei lavoratori della Fiat di Melfi dell’insopportabilità dei ritmi di lavoro e l’intreccio, nelle acque mediterranee, tra politiche migratorie, disoccupazione e guerre “umanitarie”, di questi gironi, ci indicano senza equivoci dove e in che direzione bisogna agire oggi: lavorare meno, lavorare tutti; libera circolazione di tutte le persone sul pianeta; fine delle aggressioni imperialistiche fatte “in nome dell’umanità”. Ricordiamoci della lezione di Lenin, secondo cui le necessarie mosse “tattiche”, devono sempre verificare la loro quadratura, la loro organicità dentro una strategia d’insieme, sennò sono opportunismi.

 

*MEOC = Opere di Marx ed Engels, vol. XXXI, tomo I, Napoli, La Città del Sole, 2011.

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