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Forum Euromediterraneo. La relazione di Joaquin Arriola

Agli inizi di ottobre del 1996 il premio Nobel Franco Modigliani ha tenuto a Bilbao una conferenza sul progetto di moneta unica, dove ha messo in guardia sul pericolo che paesi come la Spagna o l’Italia adottassero la “moneta tedesca”. Ma nessuno ci ha fatto caso. Solo noi che lo abbiamo ascoltato in diretta abbiamo potuto cogliere i suoi avvertimenti, mentre il giorno dopo i giornali spagnoli hanno detto che “Modigliani ha sottolineato i vantaggi che la moneta unica porterà, non solo da un punto di vista economico, ma anche simbolico”. Anche se hanno riportato le sue critiche alla Bundesbank: “Modigliani si è mostrato particolarmente critico verso la politica praticata dalla Bundesbank e ha ribadito che la principale causa dello stallo in Europa risulta essere proprio la politica restrittiva della banca centrale tedesca.” (La Vanguardia, 07/10/2006, pag. 43). 

Molti hanno creduto che l’euro sarebbe stato il primo passo verso la federalizzazione dell’Europa, verso la formazione di un’area continentale di solidarietà e progresso. Al contrario l’euro si è dimostrato lo strumento più efficace per facilitare il ritorno al nazionalismo più ingiusto ed egoista, il nazionalismo dei forti contro i deboli. Nei primi anni dell’euro, la Germania in alleanza con la Francia se ne è servita per ottenere che i soci dell’euro finanziassero i suoi squilibri di bilancio, in particolare nel processo di assorbimento della Germania dell’Est, per la formazione di un nuovo proletariato industriale al servizio delle multinazionali franco-tedesche.

Dopo, l’euro è servito alla Germania per praticare il dumping commerciale con i paesi del Mediterraneo: le vendite a credito in una moneta sottovalutata rispetto al marco dei prodotti tedeschi hanno fatto sì che la Germania sia stato l’unico paese europeo in cui l’impiego industriale non sia sceso e in cui il peso dell’industria sia aumentato.

Successivamente, a seguito del crollo del mercato interbancario nel 2007, sono state in particolare le banche italiane che hanno assunto il finanziamento estero della Germania: da dicembre 2006 a marzo del 2007, i loro crediti nei confronti della Germania sono passati da 31.000 milioni a 357.000 milioni di euro. Oggi il sistema bancario italiano è il più grande creditore estero della Germania, con 235 miliardi di dollari, più del settore bancario olandese (193 miliardi) francese (182 miliardi) britannico (160 miliardi) e degli Stati Uniti (149 miliardi di euro). (dati BIS settembre 2014)

Infine, trasformando la crisi bancaria in una crisi del debito pubblico, costringendo a utilizzare le tasse pubbliche per ripulire il sistema finanziario privato, la Germania ha assicurato che i soldi delle tasse pagassero in primis i debiti commerciali con le banche tedesche, a costo di ridurre i servizi pubblici, le pensioni, l’occupazione e gli investimenti nei nostri paesi, e non di aumentare le vendite dalla periferia alla Germania, perché il capitale tedesco impone ai propri lavoratori la repressione salariale e le stagnazione dei consumi. 

La ferma opposizione a permettere l’espansione fiscale nell’Eurozona è coerente con l’obiettivo di mantenere le fonti di arricchimento dei più ricchi. Una politica fiscale espansiva, al momento, può essere finanziata solo con più debito e maggiori imposte sul patrimonio e sul capitale finanziario, perché le tasse sul reddito e sul consumo non renderanno più e gli utili societari sono impegnati nel massiccio debito delle aziende.

Ma la principale fonte di guadagno dei più ricchi è proprio il patrimonio fisico e finanziario. E prima di perdere la loro gallina dalle uova d’oro, preferiscono che faccia meno uova, accettando una riduzione degli interessi riscossi attraverso il debito pubblico e, per estensione, sui prestiti al settore privato. Pertanto, il capitale finanziario mondiale sta investendo in attività immobiliari, in acquisto di terreni, in partecipazioni in grandi aziende e spera di estorcere ancora un po’ più di patrimonio pubblico per convertirlo in nuove fonti di arricchimento privato, per compensare con altre entrate la riduzione dei proventi finanziari.

Per questo il governo greco di Syriza commette due peccati mortali: davanti ai creditori rifiutando di proseguire con la privatizzazione del patrimonio di tutti i greci. E davanti al popolo greco credendo che la politica economica possa favorire gli interessi del popolo senza rompere i rapporti con la nuova moneta tedesca che è l’euro.

L’euro non respira al ritmo dei cittadini di Eurolandia, ma a quello del sistema bancario internazionale. Non sta servendo per lo sviluppo dei popoli, ma per imporre una svalutazione perpetua dei salari. Il caso più evidente e drammatico è Cipro: dalla fine dell’anno scorso, il Fondo Monetario Internazionale trattiene l’erogazione degli aiuti promessi, e ora la BCE ricatta il paese non acquistando titoli ciprioti, fino a quando il Parlamento non voti una legge che permetta di espellere dalle loro case in modo rapido le famiglie insolventi e i poveri. La Troika promette di aiutare in cambio dello sfratto dei cittadini dalle loro case. La domanda allora è: a cosa serve questo aiuto? La risposta è: per finanziare il risanamento delle banche, queste pagano alle loro banche creditrici greche 11.000 milioni di dollari e a quelle tedesche 4,5 miliardi di dollari, e, a loro volta i greci pagano alle banche creditrici tedesche e britanniche di Grecia 13.500 milioni di euro ciascuno. 

C’è un solo modo per uscire da questo girone infernale, ed è rompere con un sistema monetario che non può permettere un’altra politica se non quella di dare priorità al salvataggio delle banche a costo di colpire i cittadini, salvare i creditori sempre a costo dei debitori, salvo quando i debitori siano entità finanziarie, che allora devono essere salvate anche a costo di indebitare lo stato, e dunque tutti i cittadini.

I paesi della periferia europea necessitano di un sistema monetario e finanziario alternativo all’euro e alla globalizzazione. Ma non si può concepire un sistema nel contesto del mercato unico neoliberista del Trattato di Lisbona. Le regole del funzionamento di questo mercato non portano a una soluzione che dia stabilità al processo di accumulazione, almeno nel senso di “stabilità” intesa nel capitalismo, questo è un periodo relativamente lungo di crescita nel quale si concatenano cicli di espansione e contrazione economica. 

Per questo l’alternativa monetaria e finanziaria deve inserirsi in una proposta di integrazione economica e sociale differente da quella dell’Unione Economica e Monetaria e del mercato unico.

Se i paesi più deboli con l’euro volessero riprendere il controllo sulla loro attività produttiva, potrebbero farlo solo insieme e attraverso un processo di rottura col modello di finanze private e di uno spazio monetario asimmetrico dell’euro.

L’uscita dall’euro è un’opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie euromediterranee, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi, e dunque rappresentano una base industriale in perdita, uno spreco enorme di forza lavoro e una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. 

Uscire dall’euro è un’operazione complessa che non ha solo implicazioni monetarie. Non si può impotizzare un ritorno allo scudo, alla lira o alla dracma, perché proprio l’esistenza dell’euro ha dato luogo a un’evoluzione nel sistema monetario internazionale e a un’uniformità produttiva delle economie nazionali. Solo in condizioni di una forte autarchia è pensabile praticare un’economia nazionale europea. Ma non è garantito che, né più né meno, in quelle condizioni la qualità della vita della popolazione possa aumentare rapidamente. 

Una moneta propria ma all’interno del sistema monetario europeo, e dunque associato alla BCE, tantomeno permette l’autonomia della politica monetaria per sviluppare una politica alternativa, perché la moneta, come avviene con il resto dei paesi dell’UE che non fanno parte dell’UEM, sarà soggetta a criteri neoliberisti e alle pro-finanze private della Banca Centrale Europea. 

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta unica e un’unica banca mutuante in ultima istanza per i paesi euromediterranei sarebbe l’unica aternativa praticabile, sia per avere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e la Banca Centrale Europea, sia per stabilire un blocco politico-istituzionale favorevole a un modello di accumulazione a vantaggio dei lavoratori. 

La nuova moneta comune può essere negoziata dentro o fuori dell’UE, e questo a sua volta permette una gestione più ordinata della transazione produttiva, senza dover gestire allo stesso tempo: la rottura monetaria, quella del mercato unico e quella dei flussi finanziari. Non esiste un procedimento stabilito per uscire dall’UE, e questo può far sì che la proposta di una nuova moneta per una gestione alternativa dell’economia e della politica, impostata all’interno dell’UE, apra spazi per un’impostazione riformista, contraria al neoliberismo e all’accumulazione.

Bisogna tenere conto del fatto che la popolazione dei paesi euromediterranei vede più positivo il contributo effettivo dell’UE allo sviluppo istituzionale e delle infrastrutture in regioni a minor sviluppo relativo (fondi strutturali) o la politica agraria comune (PAC), quella più riuscita perché basata proprio su criteri estranei a quelli del mercato, anche se negli ultimi anni la PAC è soggetta a un processo liberalizzatore. Proprio come paesi con sistemi sociali differenti come Gran Bretagna, Danimarca o Svezia possono rimanere nell’UE, ma fuori dall’Eurozona, risulterà anche molto difficile frenare un blocco di paesi che pretenderà di realizzare una politica di socializzazione delle risorse produttive di base e di investimento. 

Cambiare la moneta in paesi con gravi squilibri fiscali implica una svalutazione quasi immediata. Pertanto, il cambio della moneta richiede che allo stesso tempo – e qui non rientrano dilazioni – si rinomini il debito estero e interno nella nuova moneta, al tasso di cambio che i governi ritengono più appropriato. Naturalmente, questo rappresenta un’altra fonte di tensione politica con i creditori, in particolare all’interno della stessa UE, dato che gli agenti finanziari europei sono proprietari della maggior parte del debito della periferia mediterranea.

La revisione del debito, con il ripudio parziale e rinegoziazione è un altro elemento necessario per ridurre il peso del vecchio debito sul finanziamento del piano di espansione per il futuro. Questo processo deve essere applicato rapidamente, perché ridurre l’onere del debito è necessario per avviare il processo di creazione massivo di posti di lavoro sociali. 

Quello di cui hanno bisogno le economie euro-mediterranee per uscire dal caos produttivo è una politica di massiccia creazione di occupazione. Gli enormi bisogni sociali insoddisfatti di: alloggi, assistenza a persone dipendenti, servizi sociali di prossimità, di salute e istruzione, la gestione e la cura dell’ambiente … possono essere coperti con un programma continuo di formazione e creazione di posti di lavoro. Ma il mercato non è in grado di fornire i servizi necessari per migliorare in modo significativo il benessere della popolazione. 

Bisogna invertire il flusso di risorse dal capitale allo stato e alla società, dagli investitori finanziari ai lavoratori attivi e passivi. Questo cambiamento radicale nella politica fiscale può essere in grado di fornire le risorse necessarie in una fase iniziale per avviare il vasto programma di ripresa economica e il miglioramento della qualità della vita necessario. 

Ovviamente, una politica con queste caratteristiche richiede un cambiamento radicale nel rapporto di forza tra capitale e lavoro. Solo aggiungendo la volontà dei lavoratori dei paesi dell’Europa meridionale potrebbe essere possibile effettuare il cambiamento necessario. Ma anche se è così difficile un tale cambiamento di congiuntura politica, questo è solo il primo passo. Un programma sviluppo incentrato sulla periferia meridionale dell’Europa deve risolvere a medio termine ciò che ha tentato e fallito il mercato unico.

Attualmente, lo sviluppo delle forze produttive e l’internazionalizzazione dei sistemi di produzione ha raggiunto un livello tale che è molto difficile che un gruppo di paesi che rappresentano il 25% della popolazione dell’UE, ma solo l’1,9% della popolazione mondiale, possa modificare con successo il suo inserimento nella divisione internazionale del lavoro, se non integra nel suo modello di accumulazione post-capitalista altri spazi sociali e produttivi. 

Una nuova moneta comune, associata a una politica di piena occupazione e di miglioramento costante del benessere, può essere un’alternativa per i paesi che, data l’esperienza della periferia euro-mediterranea, vogliano sfuggire alla trappola dell’euro.
L’Africa del Mediterraneo si sta convertendo in riserva energetica, turistica e fornitrice di prodotti agricoli e manifatturieri per l’Unione europea. L’integrazione con i paesi del Mediterraneo del nord e dell’est Europa in uno spazio finanziario e monetario comune può diventare un’opportunità per superare il pantano politico e ideologico del Maghreb e del Makrech, a seguito del fallimento del modello di sviluppo negli anni Ottanta, e il conseguente aumento del fondamentalismo islamico. 

Nel complesso, il Mediterraneo e l’Europa orientale riuniscono una serie di formazioni sociali con un elevato grado di simmetria produttiva, paesi in cui la politica monetaria e fiscale è una confluenza di interessi, facilitando l’attuazione di politiche basate sul pieno impiego delle risorse produttive e sul graduale miglioramento delle condizioni di vita.

La polarizzazione produttiva e gli interessi contrastanti che caratterizzano l’Eurozona sarebbero sostituiti da uno spazio di sviluppo post-capitalista, che sarebbe un modello alternativo a lungo termine per altri paesi della periferia europea, come l’Irlanda, che attualmente esprime l’esaurimento di un modello di accumulo basato sulla defiscalizzazione delle rendite del capitale e la realizzazione di multinazionali nordamericane e giapponesi, o addirittura di paesi del centro Europa come il Belgio o la Gran Bretagna, il cui inserimento nella divisione europea del lavoro è sempre più problematico.

 

Traduzione di Flavia Castelli

 

 

 

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