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Genova 2001. Tre giorni di inferno e passione

21.07.2001. 
Sono reduce da tre giorni di inferno e di passione. La gioia collettiva rovinata. Funestata. Teppisti in divisa hanno picchiato ferocemente, pestato, massacrato ed ucciso. In maniera scientifica e predeterminata.

Genova. 18.07.2001. 
Parto con un pullman di compagni ventimigliesi ed imperiesi: giovani comunisti, centri sociali, collettivi studenteschi, cani sciolti. 
Arriviamo che è mercoledì, l’idea era quella di partecipare al concerto di Manu Chao ma, per cause di forza maggiore, non possiamo: il nostro pullman viene fermato e perquisito per circa un’ora e mezza dalla polizia. Non trovano niente di ciò che cercavano.
Occhi spiritati di odio ci guardano con rabbia e, roteando i manganelli, ci dicono… Buonanotte compagnucci, ci vediamo domani!

Andiamo a dormire a Nervi, dove ha sede il Network per i Diritti Globali. Un cantiere a cielo aperto, migliaia di tende, discussioni appassionate e assemblee aperte, improvvisate un po’ ovunque. Molta gente prepara l’autodifesa per i giorni successivi. Alcuni litigano, altri si baciano.

19.07.2001. 
Giornata festosa, corteo internazionalista con i migranti. Colorato e allegro.
Un esercito di divise silenti, cupe, tetre, ci guarda passare con odio, digrignando i denti ad ogni nostro sorriso.

20.07.2001. 
Sappiamo che ci aspetta una giornata molto dura. Sbirri dappertutto, danno segnali di nervosismo, a distanza di ore dall’inizio della manifestazione provocano apertamente i manifestanti con insulti e saluti romani.

Piazza Paolo Di Novi, la piazza tematica sul lavoro. Sono presenti in piazza con noi le Madri di Plaza de Mayo, operai Cobas, centri sociali e collettivi, più alcune decine di giovani comunisti di Rifondazione che “disobbedendo” alle direttive sulla disobbedienza civile, preferiscono le tute blu alle tute bianche. Dopo un giro di interventi sarebbe dovuto partire il corteo. Soltanto nel nostro concentramento siamo tra le otto e le diecimila persone, e il grosso deve ancora arrivare. 
Ma non ci riesce, restano chiusi dalla polizia allo scopo di dividere preventivamente il nostro spezzone.

La notizia è abbastanza allarmante, si sente puzza di bruciato. 
Vediamo arrivare circa 300 persone tutte vestite di nero. Quasi tutte tedesche, inglesi ed americane. Quasi tutte giovanissime tra i 18 e i 28 anni. Sono i famigerati Black Bloc. Si mettono il passamontagna, i caschi, raccolgono sampietrini, brandiscono spranghe e bastoni. 
Come d’altronde sta facendo la maggioranza dei compagni del Network che autonomamente si attrezza per l’autodifesa del corteo dalle guardie.
Ma il corteo non riesce nemmeno a partire, il servizio d’ordine neanche a formarsi. Arrivano le forze dell’ordine a passo di carica e attaccano brutalmente la piazza. 
In quel momento la maggior parte delle persone era seduta a terra, mangiava, beveva, discuteva. Questo attacco inatteso e ingiustificato obbliga tutte e tutti ad una fuga precipitosa. Una prima linea composta da incappucciati e compagni del Network, tentano di respingere l’attacco per tutelare e mettere al riparo il resto del corteo, che viene preso violentemente dal panico. 
Le tute nere devastano, tra le altre cose, un paio di banche e fanno le barricate con alcuni cassonetti ed un paio di macchine messe in mezzo alla strada a cui danno fuoco. La polizia attacca in tre punti diversi, arrivano un sacco di camionette.

Il corteo viene spezzato in due tronconi: da una parte il grosso del Network, dall’altra Black bloc e circa 500 compagni, tra cui noi. I candelotti continuano ad arrivare senza sosta ad altezza d’uomo e i poliziotti caricano come ossessi, accanendosi con furia omicida sui manifestanti rimasti isolati. 
Una prima linea prosegue la battaglia, tentano di fermare i poliziotti scagliando sampietrini ma è come voler fermare un uragano con un ombrello. Vediamo sangue da tutte le parti. Gente accasciata a terra. Il fumo, densissimo, forma una spessa coltre nebbiosa, quelli senza maschere sono costretti ad arretrare.

Ora la nostra prima linea è composta solo da una sessantina di compagni, gli sbirri caricano in più di 300. Dobbiamo arretrare in fretta. Ed è in questo preciso momento che me la vedo brutta, un candelotto mi colpisce in pieno in testa, per fortuna ho il casco che attutisce il colpo, altrimenti con tutta probabilità non sarei qui a raccontarlo. Non mi fa male, l’adrenalina cancella il dolore. Ma la botta mi inebetisce ed il contraccolpo mi scaglia per terra. Rimango circa trenta secondi per terra in mezzo al fumo dei lacrimogeni, dalla mascherina e dagli occhialini che portavo penetra il dannato CS: gas combinato col cianuro. Non riesco a respirare e non vedo più nulla, non capisco più niente, il panico si impossessa di me e mi ritrovo paralizzato, non riesco più a muovermi. Sento i passi dei celerini farsi più vicini, a passo di carica, e penso: “E’ fatta. Ci siamo. Qui m’ammazzano!” Ma quattro sante braccia salvatrici mi sollevano di peso e mi portano via, mi versano del liquido biancastro e subito gli occhi mi bruciano meno, riesco a vederci di nuovo, adesso respiro bene. Erano due ragazzi del blocco nero. Svizzeri o tedeschi, quello senza passamontagna era biondissimo, aveva gli occhi chiari. Sui 19 anni direi.

Tra i Black Bloc c’erano moltissimi agenti della polizia infiltrati, moltissimi provocatori. Ma anche tante persone vogliose di opporsi, stanche di prendere sberle e porgere sempre l’altra guancia, semplicemente stufe di vivere questo schifo.
Ma intanto la guerriglia continua, un altro violento attacco della celere viene fermato a colpi di molotov, un muro di fuoco si frappone tra noi e loro. Le tute nere appiccano fuoco a cassonetti e trascinano macchine in mezzo alla strada, assaltano banche ed agenzie. Si nota un certo feticismo nelle loro gesta, hanno una banda di tamburisti fenomenali che suona la carica all’organizzatissima milizia. Hanno anche una decina di sbandieratori che affianca i tamburi e che enfatizza le azioni in una sorta di spettacolo teatralmente surreale, sfilando ed esibendosi durante gli attacchi e le azioni dirette. 
Tutto è molto simbolico e scenografico in loro. Dal loro punto di vista colpire una banca non significa colpire il cuore del capitalismo ma dare un input, un segnale. 
La loro Zona Rossa era quella in quel momento.

Non ho nemmeno il tempo di riordinare le idee che parte un assalto ad un supermercato. Molto platealmente con una bomboletta di vernice nera scrivono qualcosa del genere”All the Food to the People” e centinaia di manifestanti si riappropriano delle merci in modo del tutto gratuito, tra loro anche diversi cittadini genovesi che, per nulla intimoriti, vengono ad approvvigionarsi all’improvvisato Supermercato del popolo. Esproprio proletario è la parola che corre di bocca in bocca tra chi entra ed esce con carrelli ricolmi di ogni sorta di libagioni che vengono distribuite in giro, talvolta lanciate direttamente sui balconi dei genovesi.

Proseguiamo la marcia alla cieca, la tensione è talmente forte che nascono tafferugli anche tra gli stessi manifestanti. Con un gruppo di compagni ci stacchiamo dagli incappucciati e andiamo verso lo spezzone delle tutine bianche, volevamo avvertirli che lì sotto c’erano i pazzi del Black Bloc ed erano in corso scontri con la polizia. 
Dietro le prime file vediamo chiaramente la vedette del movimento, il Marcos del Brenta, Luca Casarini che ci indica e da disposizione ai suoi pretoriani di aggredirci perché alcuni di noi avevano il volto coperto.
Ci spostiamo in fondo al corteo per evitare problemi. Ma anche lì il servizio d’ordine disobbediente accoglie aggressivamente alcuni compagni napoletani e toscani con le “magliette a strisce” dei Sindacati di base. Nascono tafferugli.

Riusciamo, con mille difficoltà, a fare ritorno verso il nostro quartier generale.
Appena arrivati, come uno shock, riceviamo immediatamente la notizia del compagno morto e di altri due manifestanti in coma, si dice anche che ci sarebbe una ragazza in fin di vita. La tensione è palpabile nell’aria e la cosa non è una sorpresa per nessuno vista la ferocia psicotica delle cariche poliziesche. Continuo a ripetermi come in un mantra poche parole: Hanno ucciso un ragazzo di 23 anni cazzo! Potevo essere io!

Già immaginavo gli avvoltoi volteggiare sopra il suo corpo. 
I giornali del giorno dopo mi confermano:”era un punkabbestia”,”un facinoroso”,”uno che chiedeva l’elemosina”, insomma se l’era cercata! 
In fondo il carabiniere ha sparato solo”per legittima difesa” ed è per questo che gli hanno sfondato la testa con una pietra e gli sono pure passati due volte sopra con il gippone, per legittima difesa.

La prima versione data dai carabinieri alla stampa parla di una pietra lanciata dai manifestanti che ha colpito e ucciso il ragazzo. Maledetti! Nelle immagini televisive si vedrà un poliziotto che urla rivolto ad un manifestante:”…Sei stato Tu! Tu l’hai ucciso! Col tuo sasso!” 
Appena si diffonde la voce che ci sono le prove visive, smentiscono tutto e parlano di “legittima difesa”.

La polizia ha caricato tutti e tutte e si è accanita soprattutto sui più deboli e indifesi, i pacifisti, i gruppi stranieri, i giornalisti indipendenti, gli anziani, gente sulla sedia a rotelle, persino i gruppi ecclesiastici.
Dopo circa un’ora vediamo arrivare un compagno di Rifonda di San Remo, è tumefatto, completamente ricoperto di sangue, dalla testa ai piedi, i vestiti sono intrisi di rosso e la testa è aperta dalle manganellate, ricoperta malamente con una maglietta, da cui escono continui fiotti di sangue. Non ha più denti in bocca. Barcolla. Non riesce a respirare. Parla affannosamente e non è in grado di articolare le parole. Arriva il soccorso medico. Gli cuciono 25 punti in testa e gli diagnosticano alcune ossa rotte e fratturate. Bruno ha 55 anni. Era al mio fianco anche al controvertice di Nizza. E’ un padre di famiglia. E’ stato massacrato da criminali in divisa che hanno infierito sul suo corpo esausto e pesto anche dopo la carica.
E’ decisamente troppo. Sonno e stanchezza duellano con ansia e nervosismo. Siamo stremati ma nessuno riesce a dormire.

21.07.2001. 
Il clima è plumbeo. Un muto rancore, una sensazione di rabbiosa impotenza pervade molti compagni. 
Non si cantano slogan questa mattina. Se si potesse riassumere in un istante la parola odio di classe quell’istante sarebbe adesso. C’è tensione e il dolore, lancinante e rabbioso, si respira a pieni polmoni. Hanno ammazzato uno di noi. Migliaia i feriti massacrati di botte. Centinaia le teste rotte. A decine sono stati trascinati ancora sanguinanti e incoscienti fuori dalle corsie di ospedale, diretti in celle punitive, carceri, caserme, o chissà dove. Gli aguzzini hanno da che divertirsi a far scorrere ulteriore sangue. Decine gli arrestati di cui non si sa più niente. 
Per tutta la prima parte del corteo neanche uno sbirro in giro. Io sono nel servizio d’ordine dei Cobas, all’interno del Blocco Antagonista. Abbiamo scudi, caschi e bastoni. Ci accorgiamo con stupore che all’interno del gigantesco corteo a portare strumenti di autodifesa siamo dannatamente pochi. Ma forse il corteo scorrerà senza problemi, gli sbirri visto il comportamento “cileno” del giorno prima saranno senz’altro più calmi, non ci saranno provocazioni. Mentre in molti ci poniamo questo quesito, veniamo a sapere che ci sono dei problemi alla cima del corteo. Io ed altri 3 compagni del servizio d’ordine andiamo a vedere che succede.
E’ incredibile! Polizia e Carabinieri stanno caricando congiuntamente entrambe le teste del corteo, in una ci sono alcune frange che rispondono a sanpietrini ma l’altra è composta esclusivamente da famiglie, bambini, vecchi di Rifondazione, associazionismo e stava pacificamente svoltando verso via Torino. All’improvviso mi accorgo che è il caos! La polizia vuole chiuderci e fare una mattanza. Riesco a raggiungere il mio spezzone in tempo per vedere i cecchini appostati sui tetti che sparano candelotti sulla testa della gente, in mezzo al corteo dall’alto verso il basso.

Una pioggia di candelotti viene sparata pure dagli elicotteri e dalle imbarcazioni della Polizia presenti in mare. E’ il Delirio! La gente fugge impazzita in preda al panico. Vedo una signora corpulenta, avrà settant’anni, sta vomitando per il fumo dei lacrimogeni, accasciata a terra. L’aiuto ad alzarsi ma devo scappare, sento i colpi dei candelotti picchiare a pochi metri, a pochi centimetri da me. Ho perso quasi totalmente la mia lucidità, non riesco proprio a respirare, non ci vedo e questi maledettissimi gas chimici col CS mi stanno ustionando la pelle. Vedo un mezzo di soccorso, mi ci butto dentro. Ma ci sono già ammassate decine di persone le une sulle altre, tutti gridano, piangono, vedo un bambino svenuto all’interno. L’infermiere mi porge del liquido, lo passo in faccia e ci vedo ma… è veramente pazzesco! Stanno sparando all’ambulanza! Sento i colpi secchi dei candelotti picchiare sul tetto, Tum, Tum, Tum, Tum! Altri colpi, sordi, ai lati della vettura.
Sento che l’autocontrollo mi sta abbandonando completamente e che un panico cieco si sta impossessando di me. Decido di rischiare il tutto per tutto, esco in mezzo ai gas e corro all’impazzata coprendomi la testa con le braccia. Sento ancora quei colpi a pochi metri da me. Una folle corsa con gli occhi chiusi. Dopo 300 metri sbatto contro dei ragazzi della Rete Lilliput, credo, erano tutti a mani alzate e con le teste aperte, cercavano di uscire dalla ressa.

Finalmente. Fuori. E’ Pazzesco! La Polizia non ci sta proprio con la testa! Criminali! Terroristi! Assassini! Le uniche parole che sento intorno a me, gli unici concetti con cui la mia mente si arrovella.
Incontro Settimio, un compagno di Imperia, camminiamo per chilometri e riusciamo ad arrivare nuovamente all’area di Nervi. Vediamo gente con le mani nei capelli, altri seduti con la testa tra le mani, tutti piangono o inveiscono. La teppa in divisa è arrivata mentre il grosso di noi era impegnato in manifestazione, hanno arrestato alcune decine di compagni, soprattutto le ragazze, le donne e i feriti. Hanno devastato praticamente tutto. Telefonini spaccati, bagagli e valige sventrati, hanno pisciato sui sacchi a pelo, le tende divelte, vestiti di compagni gettati nei cessi chimici. Un delirio. Sinceramente, non pensavo potessero arrivare a tanto.
Fiutata l’aria raduno immediatamente i compagni che erano lì con me. Raccogliamo quel poco che ritroviamo intatto, mi faccio prestare un telefono funzionante e nel giro di un paio d’ore ci sono tre macchine pronte a riportarci a casa.

Ma non è finita. Ci fermiamo a fare benzina in un autogrill e ci sono, parcheggiate, tre camionette della polizia. Scendono degli agenti, il più grosso nota un nostro compagno con la maglietta a strisce. Lo afferra per un braccio direttamente da dentro la macchina, lo tira fuori dalla portiera e lo sbatte violentemente contro la camionetta, impugnando una sbarra di ferro nella mano. 
Usciamo di corsa anche noi, increduli e sbigottiti. Cosa cazzo sta succedendo? Com’è possibile che si comportino così! Com’è possibile che nessuno li faccia smettere!
Vedo il benzinaio che china in basso la testa, il personale del bar e quei pochi clienti terrorizzati assistono senza intervenire, nessuno osa parlare, forse per paura di essere scambiati per improbabili No Global anche loro, forse per timore di essere coinvolti negli abusi e prendere botte anche loro, forse soltanto per vigliaccheria, perché in certi momenti è più comodo fare finta di niente e girare la testa dall’altra parte.

I poliziotti sembrano drogati, gli occhi spillati, i movimenti anfetaminici, da schizoidi, urlano insulti con voci stridule, inveiscono contro di noi. E’ una brutta situazione. Sono esaltati, io ed il papà di un compagno cerchiamo di riportare un minimo di razionalità, di tranquillità. Alcuni di questi poliziotti però attaccano a ingiuriarci e a minacciarci pesantemente. Si fanno consegnare i documenti e cercano di umiliare il padre di questo nostro compagno, gli sputano addosso, lui non reagisce. 
Alcune vetture rallentano, altre si fermano e iniziano a protestare timidamente per ciò che sta avvenendo. Dopo circa mezz’ora di ulteriori ingiurie e minacce ci lasciano andare via. 
Uno di loro mi guarda e sorridendo mi dice:”Ora ho il tuo indirizzo, uno di ste sere vengo a trovarti a casa!”.

In vita mia non ho mai visto nulla di nemmeno lontanamente assimilabile a quello che ho vissuto in questi tre giorni. Ancora adesso nel tepore della mia camera sono scosso, lo stomaco mi duole, le orecchie sono tappate, la testa è appesantita. Il rumore degli elicotteri, le urla dei poliziotti mi martellano le meningi come una raffica di mitra.
Accendo la televisione. Stanno parlando di un’irruzione in una scuola dove dormivano ragazzi e giornalisti indipendenti che è sfociata in un massacro. Si vede sangue dappertutto e molti testimoni parlano apertamente di tortura. I feriti vengono portati fuori a braccia dal personale delle ambulanze. Sul volto l’espressione sgomenta di chi ha visto l’abisso.

Nei giorni successivi le menzogne più sconce e spudorate. Un giornale di proprietà di Berlusconi afferma che il sangue sui muri della Diaz in realtà è sugo di pomodoro, messo dai manifestanti per accusare i poveri poliziotti che, naturalmente, sono le vere vittime. In una conferenza stampa convocata in fretta e furia, alcune amabili e sorridenti poliziotte che sembrano uscite da una fiction Tv – così diverse dai volti truci che avevamo visto solo qualche ora prima – difendevano l’operato dei loro colleghi mostrando al mondo le temibili armi dei terroristi No Global: tra alcune maschere antigas e alcuni pezzi di legno, troneggiavano alcune bottiglie Molotov. La prova definitiva della cattiveria antropologica dei manifestanti e della loro attitudine alla violenza. La “pistola fumante” per utilizzare un gergo giornalistico. 
Poche ore dopo i filmati di alcuni cineoperatori mostrano uno dei capi della polizia introdurre le Molotov all’interno della scuola durante il massacro. Un altro filmato mostrerà decine di poliziotti festeggiare l’uccisione di Carlo Giuliani con cori belluini e il grido:“Uno a zero per noi!”

Poco a poco la verità comincia ad emergere, affiorano gli abusi più ostentati ed odiosi. Si incrina il muro mafioso dell’omertà in divisa, un poliziotto pentito parla e racconta. Escono fuori le torture, i massacri, il Macello Messicano compiuto dalle Forze dell’Ordine. E poi gli insabbiamenti, le coperture istituzionali bipartisan, la sostanziale impunità garantite agli ideatori della mattanza e ai loro volenterosi carnefici.
Amnesty International definì eloquentemente ciò che era avvenuto “La più grossa violazione dei diritti umani in tempo di pace” e la Corte Europea accusò di tortura l’Italia.

La memoria è un ingranaggio collettivo ed è per questo che la mia rabbia non si placherà mai e il mio cuore continuerà a sanguinare.

Il G8 è stato un passaggio storico in cui l’italiano medio, anestetizzato da decenni di beatificazione mediatica delle forze dell’ordine, imbesuito da un buonismo in divisa costruito ad arte, convinto che le divise fossero a immagine e somiglianza del Maresciallo Rocca, di Squadre di Polizia costituite da agenti belli, simpatici e altruisti con la faccia di Alessia Marcuzzi o Raul Bova, è stato improvvisamente messo di fronte alla realtà, una realtà che è fatta di belve sanguinarie con la bava alla bocca, di criminali psicopatici che coscienti di avere il potere dalla parte del manico e sicuri della sostanziale impunità, divengono sadici con la voglia di spaccare denti e ossa, di umiliare, di annichilire.

E tutto questo è avvenuto unicamente per esorcizzare il fantasma di un movimento reale, fatto da centinaia di migliaia di giovani che in maniera profetica osavano mettere in discussione le ingiustizie che il sistema capitalista produceva e produce a ritmo continuo.

La crisi economica che viviamo oggi è figlia di quella risposta negata. Del fatto che le istanze poste dal movimento No Global invece che essere ascoltate sono state spazzate via con ogni mezzo.

(dal libro Cuba. Geografia del desiderio. 
Capitolo 15: Da Genova a Camaguey nel nome di Carlo Giuliani)

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