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Università e conflitto di classe

Conflitto di classe e neo liberismo

Dentro ed oltre lo scenario della crisi, la fase che stiamo vivendo è quella di un conflitto di classe. Un conflitto di classe questa volta “rovesciato” dove la grande borghesia e le classi dominanti, a partire dai primi anni ’80, si sono mobilitate per sferrare un attacco alla riconquista di un terreno perduto nel ventennio precedente.

Il capitale, giunto alla sua fase più avanzata di sviluppo ha necessità di abbattere tutti gli ostacoli di ordine politico, economico, sociale e culturale che possano intralciare o frenare la sua inarrestabile ricerca del massimo profitto. Il capitale rompe il sistema delle mediazioni e si fa direttamente macchina da guerra contro tutte le conquiste ed i diritti sociali maturati  dal mondo del lavoro.

Le stessa democrazia borghese a questo punto evidenzia i suoi limiti.

Sindacati, sistema di contrattazione collettiva, forme di rappresentanza, tutto il sistema dei rapporti tra capitale e lavoro saltano perché deve saltare qualsiasi forma di dialettica nei rapporti di forza. Il comando sul lavoro deve essere unilaterale a partire da una generale precarizzazione del rapporto stesso. Le regole non si devono patteggiare.

L’attacco come sempre è al salario: diretto, indiretto e differito, lo stato sociale deve essere smantellato, mattone per mattone, il ruolo del settore pubblico annientato e trasferito nelle mani del privato: dalla sanità alle pensioni, dalla mobilità all’istruzione.

Lo scontro è aperto, drammatico e non fa prigionieri. E’ una guerra di sistema e su questo crudo terreno dobbiamo purtroppo misurarci.

Ma questo conflitto di classe, questo attacco, si è anche dato la più potente armatura ideologica che il mondo abbia conosciuto dopo la rivoluzione protestante e le dottrine calviniste.

Un’armatura ideologica anche ben sostanziata e definita attorno a delle vere e proprie radici teoriche  una vera e propria nuova dottrina universale.

Attorno ai primi anni ’70, gli Stati Uniti non erano ancora usciti dal sistema del New Deal, l’Europa sembrava avviata verso un modello socialdemocratico, mentre buona parte del mondo in via di sviluppo stava abbracciando sistemi misti regolati dallo stato.

È allora che un gruppo di persone, tra cui Karl Popper e Ludwig von Mises, si riunì intorno al filosofo Friedrich von Hayek fondando la società di Mont Pèlerin. Essi aderivano ai principi del libero mercato e avversavano le teorie di Keynes e tutte quelle teorie vicine alla tradizione marxista;  la rivoluzione ideologica è dunque innescata: nella loro teoria lo stato dovrebbe favorire il diritto individuale alla proprietà privata, il primato della legalità, l’istituzione di mercati in grado di funzionare liberamente e il libero scambio. Lo stato deve usare il suo monopolio degli strumenti di coercizione violenta per garantire queste libertà. I settori prima statali o regolati dallo stato devono essere privatizzati e deregolamentalizzati, la competizione è un meccanismo virtuoso, che insieme a privatizzazione e deregolamentazione elimina le lungaggini burocratiche e aumenta l’efficienza e la qualità e riduce i costi. Una volta garantite queste libertà la responsabilità del successo o del fallimento è di ogni singolo individuo, che deve risponderne. Questo concetto si applica anche a settori quali la sanità e l’istruzione.

Così si fece rapidamente spazio questa nuova dottrina, aiutata da uomini dell’alta finanza che iniziavano a temere il potere del lavoro contrattuale e della redistribuzione della ricchezza, ed un allievo di Heydek, l’americano Milton Friedman assieme al dipartimento di Economia dell’università di Chicago da lui presieduto e conosciuto poi più semplicemente come “Scuola di Chicago”, ebbe gioco facile in un quadro economico reso instabile dalla crisi petrolifera che seguì alla guerra del Kippur. E’ rimasta emblematica la storia dei “Chicago Boys“, un gruppo di giovani economisti cileni formatisi proprio in questa scuola e che furono assunti a metà degli anni ’70 nell’amministrazione del ministero dell’economia del Cile, presieduto dal tecnico José Piñera, durante il regime di Augusto Pinochet.

Le politiche del ministero di Piñera si caratterizzarono proprio per il processo di privatizzazione e liberalizzazione dell’economia del paese, dopo le riforme collettiviste del governo socialista di Salvador Allende.

La dottrina di Friedman rappresenta dunque la mappa e la copertura ideologica di riferimento per le politiche che hanno dominato il mondo dagli anni ’80 a oggi: basti pensare alle politiche di austerità della comunità europea e ai tristi e zelanti epigoni di Friedman impersonati dai nostri “bocconiani”.

La dottrina, ovvero l’impianto ideologico di questa dottrina, si basa su una fondamentale premessa:  la “visione” di un mondo ideale in cui domanda, inflazione, disoccupazione funzionano alla stregua di forze naturali. Il mercato è visto come un ecosistema in grado di l’autoregolarsi  in grado di dar vita all’esatto numero di prodotti al prezzo esattamente adeguato, realizzati da lavoratori che percepirebbero salari perfettamente sufficienti a comprare quei prodotti: un mondo perfetto di piena occupazione, creatività e, soprattutto, crescita perpetua.

Il fine è quello di promuovere a tutti i livelli (diffondere il credo forse si addice meglio) una presunta scientificità nell’assioma per cui se gli individui agiscono secondo i propri egoistici interessi, creano benefici massimi per tutti. Se qualcosa va storto – l’inflazione sale, la crescita diminuisce – l’unica spiegazione è che il mercato non è abbastanza libero. La soluzione, ovvero i mezzi per creare la società perfetta, risiede nell’applicazione più rigida e più completa delle norme fondamentali.

Ma al di là dell’ideologia di fondo gli aspetti più rilevanti sono legati alla ricetta economica che è sottesa a tale premessa e che possiamo riassumere in questi tre punti:

Deregulation.

annullamento di tutte quelle regole e norme che limitano l’accumulazione del profitto, di qualsiasi natura esse siano.

 Privatizzazione.

Partendo dal dogma della maggiore efficienza dei privati rispetto  al pubblico, viene auspicato la sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati e privatizzati. Friedman proponeva la privatizzazione della Sanità, delle Poste, della Scuola, delle Pensioni e dei Parchi Nazionali.

Riduzione spese sociali.

Per ripulire l’economia inquinata dall’attività dello Stato occorre ridurre drasticamente le spese sociali. Tagliare i fondi per il sistema pensionistico, l’assistenza sanitaria, il salario di disoccupazione eccetera.

Friedman insisteva molto sulla riduzione delle tasse; devono essere basse e con tassazione fissa indipendente dal reddito.

Il conflitto di classe ha ora l’impianto ideologico, ma anche una sua cultura, un suo linguaggio: il neo-liberismo.

Sbaglieremmo a questo punto se sottovalutassimo questo impianto sottolineando la sua dimensione sovrastrutturale perché tanta della forza distruttiva della guerra sociale ed economica in atto, delle politiche decise dai centri di potere finanziario internazionale (WTO, FMI, BCE) e conosciute come politiche di globalizzazione si basano sulla capacità pervasiva di questi nuovi modelli culturali, così come commetteremmo un errore fatale se confondessimo il soggetto con il predicato configurando il neo-liberismo, storicamente impersonato dai vari Pinochet, Ronald Reagan e Margaret Thatcher semplicemente come una forma specifica, particolarmente cruda, dello sviluppo capitalistico, il neo-liberismo è la cultura e la dottrina economica adeguata all’attuale forma e fase di sviluppo del capitale monopolistico internazionale.

Queste ultime considerazioni, questo intrecciarsi di dimensioni culturali e strategie operative rappresentate dalla natura del neo liberismo divengono essenziali, oggi, per un’analisi adeguata al livello dello scontro, della crisi dell’istruzione pubblica universitaria e più in generale della formazione in Italia, come del resto in tutti i paesi occidentali.

Ma volendo e dovendo restare saldamente ancorati alla vera sostanza della questione e quindi alla dimensione strutturale e sistemica dell’attuale conflitto tra capitale e lavoro, questa analisi ci obbliga a due percorsi di studio e di riflessione paralleli, legati ai due terreni, insieme distinti e correlati, entrambi direttamente legati alla qualità ed al livello del conflitto di classe e che investono direttamente la formazione e più strettamente l’università pubblica: da una parte abbiamo l’attacco esplicito al ruolo, alla funzione sociale dell’università, con i temi che vengono a esprimersi quali: aziendalizzazione, privatizzazione e “professionalizzazione”, dall’altro emerge il terreno della questione del lavoro, del reddito ed insieme della conoscenza, del sapere come fattori emergenti della produzione della ricchezza nella fase attuale di sviluppo capitalistico, e dove l’università copre un ruolo, sia come luogo della formazione che come luogo della ricerca, di rilevante importanza.

Parte 1

La mutazione genetica dell’università pubblica

Le posizioni di Friedman sulla formazione e sul ruolo dello Stato in questo settore, esposte in uno dei suoi lavori più noti, Capitalismo e libertà (Capitalism and Freedom) del 1962  sono estremamente chiare. L’autore sostiene che lo Stato deve farsi carico di un livello minimo di alfabetizzazione dei cittadini senza il quale una società stabile e democratica non potrebbe esistere. E questo livello minimo è ben chiarito dallo stesso autore “In merito ai livelli scolastici più bassi vi è un notevole consenso, prossimo all’unanimità, su quale sia il contenuto più opportuno di un programma educativo rivolto ai cittadini di una democrazia: di fatto questi contenuti potrebbero consistere semplicemente nel leggere, scrivere e far di conto” (p. 160). Inoltre, su tutto questo l’intervento dello Stato dovrebbe essere limitato all’istruzione di base ed escludere la gestione diretta delle scuole. L’intervento pubblico deve quindi consistere in voucher assegnati dallo Stato alle famiglie e da queste spesi direttamente nelle scuole private da loro scelte. L’obiettivo è introdurre nel sistema dell’istruzione un meccanismo concorrenziale mutuato dal mercato per aumentarne l’efficienza e soddisfare la domanda delle famiglie (che l’autore definisce – non a caso – “consumatori”).

Il contenuto sociale e pedagogico della scuola è secondario, tutto è ricondotto alla logica del mercato dove la concorrenza diviene unico meccanismo regolatore dei rapporti umani.

Anche solo da queste poche parole possono già trasparire  tutte le problematiche, tutti i nodi che caratterizzano oggi la degenerazione della nostra università pubblica: aziendalizzazione, professionalizzazione e privatizzazione.

Neo liberismo, nuovismo e università-azienda

L’università  sta subendo da alcuni anni, sotto la spinte di queste potenti trasformazioni dell’economia globale e delle teorie neo liberiste una vera e propria mutazione genetica e lo snaturamento della sua funzione.

Principi generali come quello dell’educazione come diritto inalienabile o come quelli humboltiani dell’autonomia dell’università dal potere politico e del ruolo centrale dello stato nella promozione dell’educazione dei cittadini, sono attualmente progressivamente rimossi e sostituiti dalla «concezione monetaristica» dell’educazione secondo la quale lo studio non deve più rappresentarsi in forma di diritto né di servizio garantito dallo stato, ma nelle forme liberiste di investimento economico operato dallo studente o dalla sua famiglia sulla futura occupazione o più in generale sulla sua possibilità di spendere sul mercato un titolo in grado di remunerare adeguatamente ed in proporzione l’investimento stesso.

Siamo di fronte ad un rovesciamento totale non solo ideologico, ma strutturale: il diritto (sociale) si trasforma in opportunità di investimento (individuale).

I prodromi di questo mutamento iniziamo a rilevarli, in Italia, nei primi anni novanta, quando si apre la grande interminabile stagione delle riforme con gli allora ministri-rettore Antonio Ruberti e Luigi Berlinguer.

Riforme che nascono dall’interno, con caratteri preminentemente culturali, impegnate a scardinare, a “mutare” dal di dentro la natura stessa dell’università attraverso un processo lento, ma pervasivo e totalizzante di insinuazione di nuovi sistemi di valori direttamente omogenei alla nuova e trasversale ideologia del mercato come nuovo regolatore dei rapporti sociali.

In essa si ridefinisce, come immanente disegno strategico, il significato stesso del suo ruolo “pubblico”, il suo ri-proporsi quindi all’interno delle regole dei nuovi statuti sociali, facendo forza su paradigmi, tanto inattaccabili quanto astratti, quali l’efficienza e l’efficacia finalizzate al perseguimento del “bene comune”.

La cosiddetta privatizzazione dell’università non si è tanto identificata con quel “mostro” paventato e denunciato dai movimenti studenteschi fin dagli anni ’80, rappresentato dall’ingresso del capitale privato nell’università, quanto piuttosto dall’adeguarsi dell’università al nuovo concetto di “bene sociale” così come è venuto a determinarsi in questi ultimi venti anni in Italia e nel resto dei paesi occidentali, cioè a farsi “azienda”, ma, bisogna necessariamente aggiungere, in una società in cui l’azienda ormai sussume tutte le qualità sociali nel suo processo di riproduzione e di crescita per riproporsi, a sua volta, come una qualità sociale, anzi, come la sintesi razionale di ogni qualità sociale.

Come in una azienda, anche nell’università, tutto deve rispondere a precisi criteri, il più elementare e deciso dei quali è un rapporto ottimale tra investimento e profitti, tra impiego di risorse e risultati..

Tutto ciò che non risponde a questo imperativo di efficienza ed efficacia, è spreco, errore, irrazionalità e diseconomia.

In questo sistema di valori la formazione, la comunicazione dei saperi, la acquisizione di esperienze e conoscenze non rivestono più alcun valore in sé, ma sono indirizzate a soddisfare le funzioni del “bene comune” incarnato dall’efficienza aziendale dell’organizzazione sociale.

Alla divinità del “mercato del lavoro” si devono sacrificare tutte le spinte formative.

Tutto ciò che non si conforma al principio del minimo investimento per il massimo rendimento, anche se si manifesta di fatto come sterminata ricchezza della libertà dei soggetti e potenzialità della cultura, si rappresenta come spreco, come “eccedenza”, come disfunzione, come perdita: l’aziendalizzazione non può che negare, in questo senso, l’università di massa.

Ma l’università, nella sua lunga storia, è sempre stata, ed in questo la sua natura, il luogo sociale dove i saperi venivano elaborati e criticati in forme pubblicamente accessibili e questa sua natura, in quanto scopo, si reificava in statuto fondativo della sua funzione sociale.

Oggi, ma dobbiamo dire, in questo ultra decennale processo di riforma, è proprio questo statuto che si è voluto attaccare e cancellare.

Venuto meno, rimosso ogni qualsiasi riferimento all’unità della conoscenza che autorizzava quella sorta di straordinaria libertà dai vincoli esterni, di cui per secoli ha felicemente goduto l’attività universitaria, gli atenei sono regrediti a unità contabili amministrative per la formazione professionale ed hanno perso l’autonomia ed anche, ed è il più grave, il piacere di praticarla.

Università e mercato del lavoro

L’autonomia nel campo dell’elaborazione e trasmissione del sapere, era, ed è sempre stata, per l’università l’espressione più piena della sua indipendenza, della sua funzione sociale, nel senso che il suo ruolo sociale si identificava esattamente nella sua autonomia.

Ora il sistema universitario, divenuto quasi esclusivamente luogo della formazione professionale, ha rinunciato a questa autonomia, si è complessivamente coniugato al sistema dei valori e delle regole della società-azienda, mutuando da questa sua integrazione le ragioni di un nuovo ruolo sociale adeguato.

Configurandosi attorno all’ideologia del new pubblic management e all’implementazione di una tecnologia didattica delle competenze lo stesso curriculum universitario è rigidamente articolato in una astrusa e complicata sequenza di unità temporali chiamate “crediti” e “debiti formativi”, incardinati attorno ad un ottuso postulato che ritiene di poter omologare la durata ed il ritmo del lavoro di apprendimento al tempo calcolabile del lavoro di fabbrica.

Si materializza allora una sorta di ossessione del “portfolio di competenze” come raccolta individuale di percorsi curricolari fatti attraverso l’acquisizione di crediti (liberi e non).

L’università diventa allora una delle agenzie formative tra le altre, e in parallelo queste agenzie formative sono pensate in competizione tra di loro. I crediti con cui riempire il portfolio dello studente possono così venire dall’università, dal volontariato, dalle scuole private che rilasciano certificati sulle competenze informatiche o linguistiche, dall’associazionismo di ogni genere e specie. Il tutto dentro un percorso formativo in cui i soggetti che vi entrano vengono disciplinati attraverso un’idea della concorrenza, dell’utilità, dell’autoimprenditorialità da incentivarsi, visto che nel mondo del lavoro si troveranno a competere con altri in un contesto di risorse sempre più scarse.

La vita universitaria ne risulta standardizzata ed appiattita dove il  giudizio dello studente sulla capacità didattica del docente si declina come banale apprezzamento di un servizio specifico da parte di un generico fruitore-consumatore, ma sempre più improntato al concetto dell’ “utilità” collegata direttamente alle sue aspettative di esito occupazionale.

Anche in questo caso il senso di efficienza e di efficacia dell’insegnamento e dei suoi contenuti, non è riferito ad un contesto culturale, ma direttamente e pragmaticamente, alla sua qualità professionalizzante e quindi alla sua possibile utilizzazione “pratica”, ponendo in essere una surrettizia capacità di distinguere a priori tra contenuti presunti utili o inutili, quindi diseconomici perché eccedenti rispetto a ciò che può essere ritenuto immediatamente necessario per conseguire un risultato previsto e determinato.

L’università qui si esaurisce, compiacendosene oltretutto, nell’identificarsi come servizio pubblico tra i servizi pubblici, integrata totalmente al rapporto domanda e offerta imposto dall’esterno.

Università pubblica, università privata e numero chiuso

Una volta stabilito e culturalmente acquisito che l’università è una “scuola professionale”, un luogo cioè dove l’individuo opera un investimento strettamente legato all’acquisizione di un esito professionale adeguato, pare banale e di buon senso comune stabilire un numero programmato di professionisti e di conseguenza stabilire un numero altrettanto adeguato di ingressi all’università, dunque non è più la struttura che plasma la sua offerta formativa a fronte di una domanda sociale di formazione e di accesso alla conoscenza, ma esattamente il contrario: è la domanda che deve adeguarsi all’offerta della struttura sottoponendosi a delle prove di selezione per l’ingresso.

All’inizio questo principio con queste precise logiche fu applicato alle facoltà di medicina, sottolineando che avvenne comunque in una fase in cui  gli investimenti pubblici nell’università erano su un trend positivo.

Oggi la cosa assume un aspetto molto più grave e pesante e le ragioni della imposizione a tappeto del numero chiuso risponde a criteri e logiche che vanno ben oltre la dimensione dei rapporti con il mercato del lavoro.

In Italia oggi è in atto un processo che tende non solo a rovesciare la natura storica dell’università pubblica, ma anche a  ridimensionare significativamente il suo ruolo ed il suo peso nel contesto sociale.

I tagli enormi, crescenti, ancora in atto, del capitolo di spesa dello Stato per l’Università prima che essere dettati da ragioni congiunturali della crisi, sono dettati da una volontà ormai evidente di colpire la dimensione pubblica di questa istituzione.

In nome dell’’ideologia dell’efficienza e dell’efficacia nonché a quelli di un’astratta idea dell’”eccellenza”   si è da tempo spostato l’interesse e l’attenzione verso le dimensioni private della formazione. Il privato, in altre parole, è meglio, più efficiente e efficace anche nel campo della formazione.

Vogliamo ricordare qui, a dimostrazione, tre casi emblematici di strutture private, ma potremmo dire “personali”, riconosciute ufficialmente come “Centri di Eccellenza”, il primo l’IMT di Lucca del quale era presidente Gaetano Quagliarello, presidente allora anche dell’associazione Magna Carta della quale era presidente onorario Marcello Pera, ex presidente del Senato, che, mentre si tagliavano ulteriori fondi all’università pubblica, ebbe un finanziamento di 80 milioni di euro dal governo nel 2004.

L’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, anch’esso finanziato da Tremonti con 100 milioni di euro ossia con quanto si spendeva allora per tutta la ricerca  universitaria in Italia. A Firenze, la creazione del SUM (Istituto Italiano di Scienze Umane diretto da Aldo Schiavone che ebbe lo stesso finanziamento e riconoscimento dell’IMT.

Ma ad ulteriore dimostrazione della strumentalità delle ragioni economiche accampate per giustificare i tagli all’università statale basta rilevare come, nell’ultimo governo Monti, mentre il ministro Profumo denunciava il taglio di 400 milioni all’università pubblica, si stanziava un incremento di 9,2 milioni di euro come contributi statali alle università private  passando da 79,5 a 88,7 milioni.

Alla Cattolica sono andati 3,3 milioni in più ( da 36,8 a 40,1 ) ed alla Bocconi è toccato un bonus di 1,4 milioni ed infine alla Luiss dove il ministro della giustizia Paola Severino ha ricoperto la carica di vice-rettore sono andati 700 mila euro in più (da 4,8 nel 2011 agli attuali 5,5 milioni)

Al taglio progressivo dei fondi occorre anche aggiungere che nel frattempo per l’università pubblica si è provveduto ad imporre degli ordinamenti nazionali rigidi (per garantire serietà ed efficacia dell’offerta!) che fissano dei rapporti numerici minimi tra docenti strutturati e numero degli studenti per attivare un corso, nel contempo, sempre giustificandosi con la mancanza di risorse, si è bloccato (o ridotto a piccole percentuali) il turnover per il personale docente con la conseguenza che, diminuendo il numero di professori e ricercatori strutturati, diminuisce anche l’offerta didattica e quindi il numero degli studenti.

Il numero programmato quindi, in queste condizioni, non potrebbe essere modificato in positivo neppure a fronte di un aumento della domanda da parte del mercato del lavoro.

Questo combinato di disposizioni restrittive non esiste invece per le università private che quindi possono nascere e svilupparsi in assoluta libertà anche attingendo nella massa degli studenti esclusi dalla struttura pubblica, pur considerando che le tasse di iscrizione, già sensibilmente alte di quest’ultima, nella privata (dati OCSE) sono mediamente tre volte e mezzo superiori.

Occorre anche considerare che in questi ultimi anni si è diffusa ( si è voluto che si diffondesse ) la credenza che le alte rette richieste dalle università private siano compensate in seguito da cospicui vantaggi sul mercato del lavoro.

Anche questo è assolutamente falso.

Un’indagine condotta a livello nazionale basate sui dati ISTAT 2007, sugli esiti professionali di laureati nel 2004, su un campione opportunamente selezionato di 45.000 laureati, mostra dei dati molto eloquenti.

Ad un anno dalla laurea la probabilità di essere occupati per chi esce dal privato è del 59% mentre sale al 62% per i laureati nel pubblico.

A tre anni dalla laurea, per il settore privato la percentuale si attesta sull’83% contro un 80% nel caso di laurea statale.

Come si vede le differenze sono assolutamente trascurabili.

Ma le politiche che la macchina da guerra neo liberista ha dispiegato nelle maglie di questo conflitto di classe, purtroppo, stanno pagando: in questi ultimi 10 anni si è registrato un calo di iscrizioni all’università pubblica delle matricole in Italia pari a 50.000 unità. Un dato estremamente grave.

E sarebbe errato addurre tale calo solo alla crisi, ai budget familiari che in molti casi non possono più permettersi di coprire le spese per le tasse universitarie dei figli.

Questo fattore è certamente presente, ma sarebbe insufficiente a spiegare il fenomeno opposto del proliferare di università private che costano come si è visto molto di più.

Numeri programmati (chiusi) legati alle dimensioni dell’offerta sempre più povera, tasse universitarie che dovrebbero o dovranno coprire le progressive diminuzioni di finanziamento dello stato, assenza di una politica di borse di studio, concorrenza delle università private, ormai stanno progressivamente, insieme, colpendo la stessa dimensione della domanda sociale di massa, disincentivandola, scoraggiandola ed agendo così direttamente sulla composizione sociale della sua base: gli studenti.

Sarebbe facile ed anche giusto qui evocare la questione dei diritti: primo fra tutti quello dell’accesso a tutti i livelli dell’istruzione.

La visione della scuola rappresentata nella Costituzione italiana, sancita alcuni anni prima rispetto all’elaborazione originaria della teoria di Friedman, su questo versante è chiara. La scuola non è solo lo strumento per imparare a “leggere, scrivere e far di conto”, ma il luogo primo e principale per la costruzione dell’eguaglianza sociale, al di fuori di qualsiasi meccanismo competitivo e di mercato. Per questo la Costituzione attribuisce allo Stato (e non al mercato) un ruolo centrale nell’istituzione e nella gestione delle scuole: questo modello di governo del sistema educativo è garanzia di pluralismo, gratuità, laicità, diffusione geografica. Senza questi elementi fondamentali il principio di eguaglianza rimarrebbe astratto e formale. Ed è per questo che la Costituzione stabilisce il divieto di finanziamento pubblico alle scuole private

Su questo piano l’università e la ricerca pubblica rappresentano i pilastri della democrazia del nostro paese, attengono alla carta dei principi generali come quello dell’educazione come diritto inalienabile dell’individuo e della collettività.

Diritti e bisogni: liberalizzazione degli accessi

Una battaglia per questi diritti, per la difesa della democrazia sarebbe una battaglia sacrosanta, ma il vero terreno dello scontro in questa dimensione sistemica non può costituirsi a partire dai diritti, ma dai bisogni, è sui bisogni che si misura tutto lo spessore e la qualità di una contrapposizione di classe.

L’università di massa non è nata sulla spinta della rivendicazione di un diritto, ma sulla spinta travolgente di un bisogno sociale di emancipazione, di accesso individuale e collettivo al sapere.

La possibilità di accedere a tutti i livelli di formazione, oltre la scuola dell’obbligo, oggi, più ancora che nel ’68, è un bisogno che si esprime come dimensione sociale di classe, che si contrappone drasticamente e drammaticamente al bisogno della classe dominante di sconfiggere e reprimere ogni forma di crescita e sviluppo dell’avversario perché, una volta superati e negati tutti i terreni della mediazione e della contrattazione la vittoria e la sconfitta si giocano solo in uno scenario di alternative totali di sistema.

Partendo da queste ultime considerazioni i campi di battaglia, gli obiettivi e le parole d’ordine di una lotta sull’università non possono che partire da questa priorità.

I temi delle disfunzioni, degli innumerevoli attacchi che il sistema universitario pubblico in Italia sono infiniti, come quindi sarebbero altrettanto infiniti gli ambiti di lotta e rivendicazione che gli studenti e la società potrebbero mettere in atto, ma se si vuole mettere in discussione e colpire il sistema  occorre prima di tutto scoperchiare la pentola, colpirlo dove pianta le radici del comando e della deregulation della domanda sociale. Il primo obbiettivo è quello di riuscire a creare le condizioni favorevoli per porre in atto il rovesciamento del rapporto tra domanda e offerta, ristabilendo il primato della prima, quindi dare corpo e strumenti di lotta all’espressione di un bisogno sociale e per far questo non si può che iniziare col far saltare il numero chiuso e riaprire gli accessi.

La riapertura di massa degli accessi porterebbe in evidenza ed all’attualità della politica tutte le contraddizioni e le coperture ideologiche di questo sistema, altrimenti praticamente inattaccabili.

La struttura dovrebbe misurarsi con la necessità di adeguarsi nell’offerta, le tasse studentesche diminuire drasticamente, visto che il monte tasse (che ancora oggi è fissato nel massimo del 20% del finanziamento ordinario anche se nell’ultimo provvedimento è riferito solo al numero degli studenti in corso escludendo i fuori corso)  sarebbe necessariamente suddiviso in un numero triplicato o quadruplicato di studenti, le scuole private si vedrebbero ridurre drasticamente il bacino di utenza, insomma, tutto potrebbe ritornare in discussione.

Allora anche l’abolizione del sistema dei crediti e dei debiti, le lauree brevi (3+2) diverrebbero immediatamente i successivi obiettivi praticabili.

Certo che l’eliminazione del numero chiuso o “programmato”, come amano spesso definirlo, come obiettivo contiene in se delle evidenti difficoltà.

Gli studenti universitari in corso, hanno già superato le prove di accesso, sono stati già selezionati.

Per molti di loro stare dall’altra parte della barricata può anche apparire in fondo un legittimo vantaggio. Per affrontare questo obiettivo occorre considerare quindi lo scenario di riferimento non per compartimenti, ma come “filiera” coerente della formazione. (Aprendo una parentesi: questo concetto di filiera è estremamente importante, soprattutto nel secondo percorso di riflessione che prima anticipavo e che riguarda il rapporto tra università, ricerca, il lavoro ed il reddito).

Ma, chiusa la parentesi, intanto considerare o per meglio dire fare i conti con la filiera in merito al numero chiuso significa dover saldare l’universitaria con la scuola e quindi con la dimensione sociale del bisogno di formazione.

Il terreno di intervento quindi è duplice, da una parte investe gli studenti a ridosso del loro potenziale ingresso agli studi superiori o già esclusi e magari costretti a dover decidere di rivolgersi all’offerta privata,  dall’altro gli studenti universitari in corso, due realtà di fatto potenzialmente contrapposte, ma che possono essere riaccomunate saldamente proprio a partire da quegli elementi e sul quel terreno  che ho cercato molto schematicamente di sviluppare in questo primo documento.

* docente università di Firenze, attivista del Collettivo “Putilov”, Firenze

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