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Ucraina e Russia di fronte alla Rivoluzione sovietica

Della serie “Facciamola finita con il primitivismo, riappropriamoci della scienza”, pubblichiamo questa parte de La Rivoluzione bolscevica, 1917-1923, relativa all’autodeterminazione dell’Ucraina. Ringraziamo Monia Guidi per averci segnalato e inviato il testo. Ci sembra possa aiutare tutti i nostri lettori, e non solo, a districarsi meglio nel tentativo di comprendere l’evoluzione delle società e della nazionalità dell’Est europeo.

Sicuramente meglio di quanto non aiutino a fare i media mainstream o anche molti generosi improvvisatori alle prese con una “analisi della composizione di classe” che quasi mai guarda alla stratificazione delle figure sociali, ma si accontenta delle autorappresentazioni di soggettività marginali.

Buona lettura.

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In Ucraina i contadini costituivano non soltanto la vasta maggioranza della popolazione, ma anche la sola classe che avesse dietro di sé una lunga tradizione. Le loro rivendicazioni sociali ed economiche – base costante di ogni nazionalismo contadino – erano dirette contro i proprietari terrieri (polacchi per la maggior parte, ad ovest del Dnepr, e russi altrove) e contro i mercanti e gli usurai (quasi esclusivamente ebrei). La religione ortodossa li univa alla Chiesa russa, accentuando il loro distacco sia dagli ebrei che dai cattolici polacchi. Il nazionalismo ucraino era perciò, in sostanza, più antisemitico e antipolacco che antirusso. Nel XVII secolo, quel capo cosacco che sarebbe poi divenuto uno degli eroi nazionali più popolari, Bogdan Chmel’nickij, aveva guidato i contadini ucraini (sebbene fosse egli stesso d’origine polacca) contro i loro padroni polacchi, e aveva compiuto atto d’omaggio a Mosca. I contadini ucraini, o piccoli-russi, erano consapevoli di ciò che li distingueva dai grandi-russi, ma si riconoscevano russi in senso lato, anche per l’evidente affinità della lingua. La supremazia politica di Mosca o di Pietrogrado poteva dar luogo a risentimenti in una nazione la cui capitale era più antica di Mosca e di Pietrogrado. Ma questa capitale, Kiev, era essa stessa una capitale russa. Un nazionalismo ucraino che si fosse fondato anzitutto e soprattutto su un sentimento di ostilità alla Russia non avrebbe incontrato molto favore tra i contadini.

Per quanto riguarda il proletariato, la situazione era complicata dal fatto che un proletariato propriamente ucraino non esisteva. I nuovi centri industriali, la cui importanza era venuta rapidamente crescendo alla svolta del secolo, erano popolati per la maggior parte da immigrati venuti dal Nord; Char’kov, la maggiore città industriale ucraina, era anch’essa quasi esclusivamente gran-russa. Industria da una parte, amministrazione e libere professioni dall’altra, continuavano dunque a conferire una fisionomia prevalentemente gran-russa alla cultura urbana dell’Ucraina. Nel 1917 gli effetti di questa situazione si fecero sentire in modo particolare. La forza dei bolscevichi, in tutta la Russia, riposava sulla popolazione urbana e sugli operai dell’industria; ora, in Ucraina, questi gruppi erano non soltanto numericamente deboli (appena 750.000 voti nelle elezioni del novembre 1917 per l’assemblea costituente), ma prevalentemente gran-russi: ne derivò al bolscevismo ucraino il doppio svantaggio d’essere un movimento prevalentemente “straniero” oltre che prevalentemente urbano. Ma questo fatto, che la linea divisoria tra le nazionalità coincidesse con quella tra popolazione urbana e popolazione rurale, fu causa d’imbarazzo anche per i nazionalisti, e non soltanto per i bolscevichi.

Il movimento nazionale ucraino, fino alla rivoluzione, non aveva incontrato molto favore né tra i contadini né tra gli operai delle industrie: i suoi aderenti si reclutavano in una ristretta cerchia di intellettuali – professori d’università, preti, maestri di scuola – e i suoi promotori risiedevano per la maggior parte oltre la frontiera austriaca, tra la popolazione ucraina della Galizia orientale. In questa forma ristretta e organizzata, il nazionalismo ucraino non era più diretto contro il grande proprietario polacco o contro il mercante ebreo, ma contro il burocrate russo. Anche qui, tuttavia, bisogna fare alcune distinzioni. I primi campioni del movimento erano stati mossi dall’odio contro gli zar più che da un’ostilità contro i gran-russi in quanto tali: erano stati rivoluzionari non meno che nazionalisti, e avevano portato – come disse un governatore-generale russo degli anni ‘80 – le opere di Ševčenko (il poeta nazionale ucraino) in una tasca e quelle di Marx nell’altra, sebbene le loro tradizioni, e lo sfondo contadino contro il quale si muovevano, li avvicinassero piuttosto ai populisti e agli anarchici che ai marxisti. L’incremento della prosperità economica da una parte, l’esempio straniero dall’altra, condussero gradualmente a un distacco di quel movimento della causa della rivoluzione sociale. I primi anni del XX secolo videro qui, come altrove in Russia, lo sviluppo d’una intelligencija che si ispirava agli ideali della democrazia liberale; e questi ideali si combinarono assai presto con i motivi del movimento nazionalista ucraino. Ma quest’ultimo era troppo ristretto, troppo isolato dalle masse e quindi troppo inefficace dal punto di vista politico, per formare il nucleo d’una classe dirigente locale; incapace di porsi scopi sociali e rivoluzionari che risvegliassero l’interesse delle masse, esso dovette limitarsi a una campagna contro l’oppressione politica e culturale di Mosca. Tale oppressione era tutt’altro che irrilevante: basti ricordare il bando contro la letteratura e i giornali ucraini, imposto negli anni ‘70, attenuato nel 1905, e pienamente rimesso in vigore nel 1914. Ma restrizioni di questo genere significavano poco o niente per il contadino, e niente affatto per l’operaio gran-russo; sicché il movimento, in mancanza d’un solido appoggio in patria, dovette cercare aiuti all’estero, rivolgendosi successivamente agli austriaci, ai francesi, ai tedeschi e, finalmente, ai polacchi: ciò che finì di screditare un movimento nazionalista i cui fautori si mostravano così pronti a vendersi allo straniero. Dietro questi motivi di debolezza ideale, c’era poi il crudo fatto della dipendenza dell’Ucraina dal mercato russo, e dell’importanza economica che l’Ucraina stessa aveva ed avrebbe continuato ad avere per qualsiasi stato russo. L’Ucraina comprendeva un quinto dell’intera popolazione della Russia zarista; le sue terre erano le più fertili della Russia, e le sue industrie tra le più moderne; le maestranze di queste industrie, come pure i loro quadri, erano prevalentemente gran-russe; il suo carbone e il suo acciaio, in attesa d’un migliore sfruttamento delle risorse degli Urali, restavano indispensabili per l’industria russa nel suo insieme. Così, se dopo la rivoluzione le rivendicazioni ucraine fossero state altrettanto nette e decise di quelle polacche e finlandesi, molto più difficile sarebbe stato conciliarle con la realtà dei fatti economici. Ma è giusto riconoscere che, già in sé stesse, le rivendicazioni dell’Ucraina non ebbero niente di comparabile con quelle della Polonia e della Finlandia. Trockij, più tardi, parlò con ironia della scarsa disposizione della Russia borghese di Kerenskij a “riconoscere l’autonomia”del grano ucraino, del carbone del Don e del ferro di Krivoj Rog”. Ma l’interdipendenza tra Ucraina e Russia industriale era un fatto concreto, che trascendeva ogni forma di organizzazione sociale o politica.

Il rudimentale movimento nazionalista ucraino ricevette un forte impulso dalla rivoluzione di febbraio. Esso si giovò, in questa occasione, della guida di tre uomini: Hruševskij, un dotto professore la cui Storia d’Ucraina fornì la base culturale e storica del movimento; Vinničenko, un intellettuale rivoluzionario che aveva avuto qualche parte negli eventi del 1905; e Petljura, un autodidatta che aveva tentato diversi mestieri tra cui, più recentemente, il giornalismo. I primi due erano sinceri nazionalisti, il terzo un energico avventuriero. Nel marzo 1917 si costituì, sotto la persidenza di Hruševskij, una “Rada” (o Soviet, cioè Consiglio) centrale ucraina, che raggruppava socialrivoluzionari, socialdemocratici, socialfederalisti (gruppo radicale ucraino) e membri delle minoranze nazionali. Questa Rada, per quanto formalmente riconosciuta dal Congresso nazionale ucraino, non aveva un vero e proprio carattere rappresentativo, e al principio, in conformità col carattere principalmente culturale e sociale del movimento, non esercitò né pretese di esercitare alcuna funzione politica. Ma poi, gradualmente, avendo portato a circa seicento il numero dei suoi membri, essa riuscì ad affermarsi come una specie di assemblea nazionale, e il 13 giugno 1917, dopo vani tentativi di negoziati col Governo Provvisorio di Pietrogrado, emise un decreto ( il “Primo decreto generale”) che dichiarava l’Ucraina “repubblica autonoma” (ma “senza separazione dalla Russia e senza uscita dallo stato russo”), e istituì un “Segretariato Generale”, diretto da Vinničenko, che assunse presto forma e funzioni di governo nazionale. Il Governo Provvisorio di Pietrogrado, che s’era valso fin lì d’una tattica dilatoria, si decise a riconoscere parzialmente, e a denti stretti, la fondatezza delle rivendicazioni ucraine, pur insistendo sul fatto che la decisione ultima sarebbe spettata alla futura Assemblea Costituente. Ma questa ammissione dipese dalla debolezza del Governo Provvisorio piuttosto che dalla problematica autorità della Rada e del suo Segretariato Generale.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il collasso dell’autorità centrale favorì le rivendicazioni indipendentiste. Il 7/20 novembre 1917 la Rada proclamò la “Repubblica Popolare Ucraina”, sebbene il relativo decreto (il “Terzo decreto generale”) confermasse la già enunciata intenzione di “non separarsi dalla Repubblica Russa e salvaguardare la sua unità “, aiutandola a “divenire una federazione di popoli liberi eguali”. Il Segretariato Generale divenne allora un regolare governo, con Vinničenko come primo ministro e Petljura come Segretario per gli Affari Militari. Ma, data la politica adottata dal governo sovietico nella questione delle nazionalità, ciò non comportò subito una rottura tra Kiev e Pietrogrado, le cui relazioni si mantennero abbastanza buone per qualche tempo ancora. In pratica, del resto, il processo di separazione non era stato spinto molto lontano: ancora il 29 novembre/12 dicembre 1917 la Rada chiedeva alla Banca di Stato a Pietrogrado fondi per il pagamento dei ferrovieri, e solo un mese più tardi, la sua richiesta non avendo avuto effetto, si decise a stampare banconote proprie.

Screzi gravi, però, si produssero assai presto in un altro campo. L’estate del 1917 aveva visto la formazione di Soviet in diverse parti dell’Ucraina e nella stessa Kiev, dove entrarono in funzione separatamente, un Soviet dei Deputati degli Operai e un Soviet dei Soldati. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre questi due soviet si fusero, e l’incoraggiamento che ricevettero a questo proposito dal governo sovietico di Pietrogrado fu interpretato come un tentativo di minare l’autorità della Rada. Da parte sua, il governo sovietico poté imputare alla Rada la situazione militare creatasi in Ucraina con la formazione di un esercito antibolscevico riunito sul Don dai generali “bianchi” Kornilov e Kaledin (quest’ultimo era ataman dei cosacchi del Don). La Rada, infatti, non soltanto stava cercando di creare un esercito separato richiamando in patria tutte le unità ucraine ( e contribuendo, così, sia ad aumentare la disorganizzazione sui vari fronti, sia a complicare le operazioni di smobilitazione), ma mentre disarmava le unità sovietiche e della Guardia Rossa in territorio ucraino, e mentre rifiutava il passaggio sullo stesso territorio a forze sovietiche che potessero formare un fronte contro i “bianchi”, consentiva invece il passaggio di forze cosacche dirette verso il Don per raggiungervivi Kaledin. Il 4/7 dicembre 1917, essendo ormai in grado (grazie all’armistizio concluso due giorni prima con le potenze centrali a Brest-Litovsk)di procedere agli opportuni spostamenti di truppe, il governo sovietico inviò alla Rada – e rese subito pubblica – una lunga dichiarazione in cui si cominciava col riconoscere, in base al principio dell’autodecisione, la “Repubblica Popolare Ucraina”, ma si accusava la Rada di perseguire “già da lungo tempo una equivoca politica borghese che si traduce nel rifiuto di riconoscere i Soviet e il potere sovietico in Ucraina”. La comunicazione perseguiva quindi sul tono di un ultimatum: la Rada avrebbe dovuto immediatamente abbandonare la suddetta politica, e “prestare assistenza alle armate rivoluzionarie nella loro lotta contro la sollevazione controrivoluzionaria dei Cadetti e di Kaledin”; se a queste richieste non si fosse soddisfatto entro quarantotto ore, la Rada sarebbe stata considerata “in stato di guerra aperta contro il potere sovietico in Russia e in Ucraina”. Era questa, dunque, la situazione politico-militare. Ma, dietro di essa, c’era anche lo spettro della fame su Mosca e su Pietrogrado, e l’urgente necessità di grano ucraino. “Se volete pane, gridate “Abbasso la Rada”, scrisse Radek sulla “Pravda”.

Le minacce di Pietrogrado produssero un effetto ben prevedibile sul movimento nazionale ucraino, il quale, di fronte alla superiore potenza russa, aveva sempre naturalmente teso a porsi sotto protezione straniera. Una missione militare francese guidata dal generale Tabouis si trovava a Kiev già da qualche tempo, e già da qualche tempo – sebbene non possa dirsi esattamente da quando – dovevano essere in corso dei tentativi per indurre la Rada a “ricostituire una forza di resistenza e restare fedele agli Alleati”. A tali sforzi, comunque, è fatto riferimento in quella che sembra essere stata la prima comunicazione formale del Tabouis a Vinničenko. Tale comunicazione è datata 5/18 dicembre 1918 – il giorno dopo l’ultimatum di Pietrogrado – e contiene una richiesta di particolari sull’aiuto finanziario e tecnico” che la Repubblica Ucraina avrebbe desiderato ricevere dalla Francia. Il fatto d’un accordo franco-ucraino fu presto risaputo a Pietrogrado, dove il 15/28 dicembre Stalin pubblicò sulla “Pravda” il testo “intercettato” d’un telegramma che la missione francese avrebbe spedito alla Rada. A Kiev, il generale Tabouis annunciò la propria nomina a inviato della Repubblica Francese presso il governo della Repubblica Ucraina, e il 29 dicembre/11 gennaio informò Vinničenko che la Francia avrebbe appoggiato la Repubblica ucraina con tutte le proprie forze materiali e morali. Una dichiarazione analoga fu fatta all’incirca nello stesso tempo dal rappresentante britannico a Kiev.

Da parte bolscevica, in conseguenza dell’ultimatum del 4/17 dicembre, si rendeva necessario il rapido allestimento d’una qualche altra forma d’autorità che potesse sostituire la Rada una volta che i rapporti con quest’ultima fossero stati interrotti. Il giorno prima dell’ultimatum s’era aperto a Kiev un Congresso Generale Ucraino dei Deputati degli Operai, dei Soldati e dei Contadini. In vista di questo congresso, il locale partito bolscevico aveva tenuto una conferenza e deciso di mutare il proprio nome in quello di “Partito Operaio Socialdemocratico Russo (bolscevico) della Socialdemocrazia d’Ucraina”. Questa ibrida e nebulosa designazione costituiva evidentemente un tentativo di restaurare l’unità del partito mediante una concessione al sentimento nazionale ucraino; ma ciò non tolse che i bolscevichi, al Congresso, si trovassero in forte inferiorità rispetto ai fautori della Rada. Se tuttavia, quando la Rada rispose in modo tutt’altro che soddisfacente all’ultimatum, le ostilità non scoppiarono subito, ciò fu dovuto in parte al fatto che né da una parte né dall’altra si voleva davvero la guerra e in parte al fatto che il governo sovietico aveva ormai trovato un modo migliore di controllare la situazione. Ritiratisi da Kiev – dove l’autorità della Rada s’era dimostrata ancora salda – a Char’kov, i bolscevichi ucraini vi indissero, l’11/24 dicembre 1917, un nuovo Congresso Generale Ucraino dei Soviet; e due giorni dopo un “Comitato Esecutivo Centrale d’Ucraina” eletto dal Congresso, telegrafò al governo di Pietrogrado d’aver “assunto i pieni poteri in Ucraina”. Il comitato in questione si componeva principalmente di bolscevichi, fiancheggiati da alcuni SR (NdR. socialisti rivoluzionari) di sinistra.

Da quel momento in poi, il governo sovietico perseguì apertamente una doppia politica. Da una parte, infatti, esso salutò la nuova autorità costituita dal comitato come “il genuino governo della Repubblica Popolare Ucraina” e l’assicurò d’ogni suo possibile appoggio, sia “nella lotta per la pace” che “nel trasferimento di tutte le terre, fabbriche, officine e banche al popolo lavoratore d’Ucraina”; e d’altra parte continuò per diversi intermediari, a negoziare con la Rada, risolvendosi persino (per non far sorgere gravi dubbi sulla sincerità dell’attaccamento bolscevico alla causa dell’autodecisione) a riconoscere per valide le credenziali della delegazione inviata dalla Rada stessa alla conferenza della pace a Brest-Litovsk. Ma intanto, come ammise francamente Vinničenko, “la vasta maggioranza della popolazione andava voltandosi contro di noi”: la zona d’influenza della Rada andava infatti restringendosi rapidamente, a misura che le forze del movimento nazionalista si sbandavano o passavano ai bolscevichi. Il 9/22 gennaio 1918 la Rada emetteva un “Quarto Decreto Generale”, proclamando la Repubblica Ucraina “stato sovrano, libero e indipendente del popolo ucraino”; e l’indipendenza di tale stato veniva riconosciuta dieci giorni più tardi dal governo tedesco. Ma, mentre ci si trastullava con queste formalità, armate sovietiche andavano circondando Kiev, che fu presa il 26 gennaio/8 febbraio 1918. La Rada fu rovesciata; e pochi giorni dopo il nuovo governo sovietico ucraino prendeva il suo posto.

La storia, tuttavia, non finì lì. Il governo sovietico ucraino durò meno di tre settimane, durante le quali non fece molto per propiziarsi la popolazione e per cancellare l’impressione di agire per conto d’una “forza straniera esterna”. Nel momento in cui la Rada veniva cacciata da Kiev, i suoi delegati partecipavano alla firma del trattato di pace con la Germania a Brest-Listovsk; e il 12 febbraio 1918, seguendo la regola ormai tradizionale di cercare aiuti stranieri contro la Russia, i delegati stessi sollecitarono l’intervento della Germania. Armate tedesche invasero rapidamente l’Ucraina, e il 2 marzo i bolscevichi dovettero abbandonare Kiev alle forze della Rada capeggiate da Petljura. Ma né la cerimonia religiosa di resa di grazie indetta da Petljura, né l’eloquenza di Hruševskij, che tornò a Kiev come Presidente della Rada, poterono cancellare l”amara verità” ammessa da Vinničenko, che la Rada doveva la sua restaurazione ai “cannoni pesanti tedeschi”. Né la Rada profittò molto a lungo della propria compiacenza: alla fine d’aprile essa fu sprezzantemente estromessa e sostituita da un governo fantoccio di pura creazione tedesca, con a capo lo hetman Skoropadskij.

Il nuovo regime era anzitutto un regime militare di comodo per la Germania; ma nella misura in cui poté avere un qualche significato politico, esso rappresentò gli interessi dei grandi e medi proprietari, la cui produzione costituiva per le autorità d’occupazione tedesche l’ultima speranza di rifornire i vuoti granai della Germania.

Fu dunque un regime francamente reazionario, che offrì poco ai nazionalisti ucraini e nulla affatto a chi chiedeva riforme sociali. Tutto ciò non impedì la continuazione di negoziati di pace tra le autorità del regime stesso e il governo sovietico, per il quale era del tutto indifferente, da ogni punto di vista, trattare con una Rada sostenuta dai tedeschi o con un hetman ugualmente sostenuto dai tedeschi.

Del tutto inconclusivi, questi negoziati si protrassero per tutta l’estate del 1918. La poca disposizione dei bolscevichi a riprendere la guerra contro i tedeschi in Ucraina fu una delle ragioni per cui la sinistra SR accentuò il proprio distacco dai bolscevichi stessi al V Congresso Panrusso dei Soviet a Mosca. L’assassinio del generale tedesco Eichhorn, in Ucraina, fu, come quello di Mirbach, un tentativo non riuscito di pregiudicare le relazioni sovietiche con la Germania.

L’autorità di Skoropadskij sull’Ucraina durò fino la collasso militare tedesco del novembre 1918. E allora si ripeté la storia dell’inverno precedente. Elementi della vecchia Rada tornarono a Kiev e vi stabilirono un “Direttorato Ucraino” sotto la presidenza di Vinničenko. Petljura, che aspirava chiaramente a una dittatura personale, si fece nominare comandante in capo e invocò nuovamente l’aiuto francese. Ma il generale d’Anselm, comandante delle forze francesi a Odessa, non aveva altro da offrire, praticamente, che buone parole; e anche queste ultime furono meno incoraggianti delle promesse fatte dal generale Tabouis l’anno prima. Il solo tratto nuovo della situazione fu il proclama d’annessione alla Repubblica ucraina, ora che l’autorità delle potenze centrali era crollata, della cosiddetta “Ucraina Occidentale”, cioè dell’ex provincia austriaca della Galizia orientale. Una nuova causa di discordia venne così a crearsi tra l’Ucraina e la Polonia.

Che i bolscevichi, in territorio ucraino,non potessero contare su un appoggio organizzato, è dimostrato da questo fatto: che neppure nel caos creato dalla caduta del potere tedesco e dalla fuga di Skoropadskij essi furono in grado di impadronirsi direttamente del potere. La loro tattica, tuttavia, fu questa volta più audace. Pochi giorni dopo il collasso della Germania, un “Governo Provvisorio Ucraino degli Operai e dei Contadini” fu costituito a Kursk, alla frontiera settentrionale, sotto la presidenza di Pjatakov. Il 29 novembre 1918 tale governo pubblicò un manifesto in cui s’annunciava il trasferimento delle terre ai contadini e delle fabbriche alle “ masse lavoratrici ucraine”; a Char’kov, al principio di dicembre, il potere fu assunto da un Soviet, dopo uno sciopero generale di tre giorni; e le armate bolsceviche cominciarono allora la loro avanzata verso il sud. Alle proteste del “Direttorato”, il 6 gennaio 1919, Čičerin rispose declinando ogni responsabilità per l’azione del governo di Pjatakov, e affermando che le armate di quest’ultimo erano “completamente indipendenti”. Dieci giorni più tardi il “Direttorato” dichiarò guerra a Mosca (a malgrado, sembra, dell’opposizione di Vinničenko, che poco dopo si dimise). Ma ciò non ritardò affatto l’avanzata delle truppe sovietiche, le quali, raggiunta Char’kov, puntarono decisamente verso Kiev, che rioccuparono nel febbraio 1919. L’accoglienza della popolazione, a quanto afferma lo stesso Vinničenko, fu entusiasta. I membri dell’espulso “Direttorato” cercarono allora di perorare la propria causa a Parigi, presso la conferenza della pace, ma si urtarono all’indifferenza di uomini di stato a cui la causa della Polonia, o quella dei generali “bianchi” impegnatisi a ricostituire l’impero russo, stava molto più a cuore di quella del nazionalismo ucraino.  

La capitale dell’Ucraina sovietica venne stabilità a Char’kov, suo più importante centro industriale; e Pjatakov (il quale, sebbene ucraino di nascita, sembra nutrisse scarse simpatie per la causa dell’indipendenza ucraina) fu sostituito a capo del governo sovietico ucraino da Rakovskij. Il 10 marzo 1919 il III Congresso Generale Ucraino dei Soviet approvò una costituzione della Repubblica Sovietica Socialista Ucraina che non differì per alcun particolare importante dal suo prototipo, la costituzione della RSFSR. A parte questa identità delle due costituzioni, la debolezza della SSR ucraina come repubblica indipendente ci è rivelata dalla composizione del presidium di quello stesso congresso che approvò la costituzione in questione: Rakovsikij, Pjatakov, Bubnov e Kviring erano tutti noti bolscevichi, ma le loro credenziali come portavoce della nazione ucraina lasciavano alquanto a desiderare. Frattanto, le condizioni esterne erano tutt’altro che favorevoli. I combattimenti ancora continuavano a ovest, dove le truppe di Petljura in ritirata si dettero a feroci massacri contro la numerosa popolazione ebraica. Nell’Ucraina orientale un capo contadino di notevoli capacità, l’anarchico Nestor Machno, aveva organizzato fin dal 1918 un gruppo di partigiani per la guerriglia contro Skoropadskij: questo gruppo, divenuto movimento di liberazione, contava ormai diverse migliaia di armati che controllavano ora questo ora quel territorio, e combattevano ora per i bolscevichi, ora contro di loro. Truppe tedesche, in sacche, occupavano ancora diverse regioni, e distaccamenti francesi erano sbarcati sulla costa del Mar Nero e in Crimea. Nel luglio “l’esercito di volontari” di Denikin, sostenuto dagli Alleati, cominciò ad avanzare verso nord. L’esercito rosso dovette ritirarsi, e nel settembre Kiev fu nuovamente ripresa dalle forze controrivoluzionarie: prima da quelle di Petljura, e poi da quelle dello stesso Denikin. La disorganizzazione era ormai completa. Carestia, tifo e altre malattie epidemiche imperversarono sul paese. Diversi capi militari indipendenti – tra cui Machno fu il più importante, ma non il più temibile – scorrazzavano nelle province alla testa di unità che variavano, per carattere, dal reparto regolare alla semplice accozzaglia di banditi. A ciò s’aggiungevaa la dura oppressione delle forze d’occupazione di Denikin, che fecero presto dimenticare ai contadini lo scontento provocato dall’amministrazione sovietica.

La sconfitta di Denikin, nel dicembre 1919, portò alla rioccupazione di Kiev da parte dell’esercito rosso. Un “Comitato Militare Rivoluzionario” di cinque membri, tre dei quali bolscevichi, fu costituito in base a un decreto firmato da Rakovskij nella sua qualità di Presidente del Sovnarkom (Ndr. Consiglio dei Commissari del Popolo) ucraino; e per la terza volta si ripeté il tentativo di consolidare il regime sovietico in Ucraina. Nel febbraio 1920 l’autorità sovietica si trovò ristabilita nei centri maggiori; ma non per questo il periodo dei torbidi poté considerarsi finito. Nel dicembre 1919 lo sconfitto Petljura, sbaragliato dai bolscevichi, ignorato dagli Alleati a Parigi, sprezzato da Denikin, s’era rivolto al solo paese da cui potesse ormai sperare un appoggio morale e materiale: la Polonia. E la Polonia, contraria alla riannessione dell’Ucraina alla Russia sia sotto i bolscevichi che sotto Denikin, trovò in Petljura l’ultimo disponibile campione del separatismo ucraino: un campione subito disposto, peraltro, ad abbandonare le rivendicazioni ucraine sulla Galizia orientale, in cambio d’una nuova Ucraina satellite d’un nuovo impero polacco, della quale egli sarebbe divenutoo il dittatore. L’accordo concluso in questo senso, il 2 dicembre 1919, tra Petljura e il governo polacco, segnò la bancarotta finale del nazionalismo borghese ucraino, dato che i rudimentali sentimenti nazionalistici dei contadini ucraini si fondavano principalmente sull’avversione ai grandi proprietari polacchi. Esso costò però all’Ucraina una nuova invasione: da parte, questa volta, di armate polacche, che nel maggio-giugno 1920 occuparono Kiev per circa sei settimane. Scacciati anche i polacchi, l’Ucraina non ebbe a subire altre invasioni per due decenni. Per ristabilire l’ordine nella maggior parte del paese ci volle quasi un anno, e combattimenti sporadici con i partigiani durarono fino all’agosto 1921, quando Machno riparò in Romania con gli ultimi resti delle sue bande. Rimasto alla fine incontrastato possessore del paese, il regime sovietico poté offrire alla popolazione ucraina non soltanto una pace duratura, ma un governo certo più tollerabile di quanti altri essa avesse sperimentato in quei tragici anni.

L’Ucraina sovietica venne dunque alla luce dopo un parto molto laborioso. Il diritto di autodecisione e di secessione era stato ufficialmente richiesto e ottenuto. Ma mentre in Finlandia la classe dirigente borghese era stata forte abbastanza per farsi riconoscere come rappresentante della nazione finlandese, in Ucraina la rivoluzione era stata spinta più avanti, e la borghesia eliminata in favore d’una “dittatura delle masse oppresse e sfruttate del proletariato e dei contadini poveri” (l’espressione ricorre nel primo articolo della costituzione ucraina) che divenne così la depositaria dell’indipendenza nazionale ucraina. Che Pietrogrado fosse interessata fin dal principio a una tale soluzione è ovvio; ma l’analisi degli avvenimenti mostra che anche il nazionalismo borghese ucraino era stato preso in considerazione, e scartato solo quando ebbe dato ampie prove della sua assoluta inefficienza: privo di qualsiasi appoggio tra gli operai, esso non era riuscito a guadagnarsi neppure i contadini, e ciò – come fu francamente e ripetutamente ammesso da Vinničenko, il più onesto dei suoi capi – per non aver voluto sostenere né la causa della rivoluzione sociale né quella più modesta d’una qualche riforma di rilievo. Questa sua intrinseca debolezza lo portava poi, necessariamente, a una costante dipendenza da interessi stranieri, e fin dove questa dipendenza potesse giungere fu mostrato dall’accordo che Petljura concluse nel 1920 con i polacchi, e cioè con i nemici tradizionali del contadino ucraino.

La borghesia ucraina s’era dimostrata ancora più incapace di quella gran-russa sul piano della rivoluzione borghese, e il suo fallimento lasciava una successione aperta. Tra i pretendenti, i soli a esibire qualche titolo valido furono appunto i bolscevichi, e la rapida disintegrazione delle forze che cercarono di opporsi ad essi mostra come i bolscevichi stessi fossero considerati dalla popolazione, se non altro, come il minore dei mali. A malgrado di ciò, la soluzione del problema nazionale non fu semplice. Al principio del 1918, e poi di nuovo al principio del 1919, il governo sovietico s’era trovato a dover scegliere tra due sole soluzioni possibili: incorporazione diretta dell’Ucraina nell’unità sovietica russa, o creazione – nel tentativo di soddisfare le aspirazioni nazionali – di una separata unità sovietica ucraina. La seconda soluzione era dettata dai principi altamente proclamati prima della rivoluzione e dal fermo convincimento di Lenin che il modo più sicuro di promuovere l’unione finale fosse di consentire, intanto, a una dispersione su larga scala in nome dell’autodecisione. L’azione personale di Lenin in questo senso, per quanto riguarda l’Ucraina, è ampiamente documentata. Quando, dopo la disfatta di Denikin nel dicembre 1919, l’autorità sovietica stava per essere ristabilita per la terza volta in Ucraina, una speciale conferenza del partito fu indetta a Mosca per esaminare una mozione preparata da Lenin, e approvata dal Comitato Centrale, in cui era principalmente questione dell’atteggiamento dell’amministrazione sovietica nei confronti della questione nazionale ucraina e dei contadini ucraini. Denunciando gli “artificiosi tentativi di relegare in un posto secondario la lingua ucraina” la mozione affermava la necessità che tutti i funzionari e gli impiegati dell’amministrazione in questione conoscessero l’ucraino; essa consigliava d’altra parte che le grandi proprietà venissero ripartite tra i contadini, che il numero dei sovchozy venisse limitato “allo stretto necessario”, e che la requisizione del grano si facesse “solo in misura strettamente limitata”. Ma, alla conferenza, questa mozione incontrò una rigida opposizione da parte dei dirigenti bolscevichi d’Ucraina. Rakovskij affermò che l’ordine sovietico avrebbe dovuto riposare proprio sulla creazione su vasta scala di sovchoz; Bubnov, che faceva parte anche lui del Sovanrkom ucraino, dichiarò che esigere la conoscenza della lingua locale da parte dei funzionari sovietici significava esagerare l’importanza del nazionalismo ucraino; e Bubnov, Manuil’skij e altri protestarono contro ogni compromesso con i Borot’bisti, partito contadino ucraino di tipo SR che avrebbe desiderato un’alleanza con i bolscevichi. La mozione di Lenin fu approvata dalla maggioranza, e nel marzo 1920 i Borot’bisti furono ammessi al partito comunista; ma l’opposizione dei dirigenti locali continuò a farsi sentire, rendendo più complicata e difficoltosa l’applicazione della linea politica del artito in Ucraina.

Non sarebbe giusto, tuttavia, imputare queste difficoltà alla cecità o all’ostinazione di pochi uomini. Le aspirazioni nazionali ucraine non potevano trovar soddisfazione in un regime borghese; ma quando i bolscevichi, istituita la SSR (NdR. Repubblica Socialista Sovietica) ucraina, annunciarono la transizione dalla rivoluzione borghese a quella proletaria, il problema nazionale ucraino venne a presentarsi in una forma nuova e quasi ugualmente inestricabile. Era un punto essenziale della dottrina sovietica che, sul cammino della rivoluzione, le funzioni di guida spettassero al proletariato, e che i contadini dovessero seguire; ma in Ucraina, in mancanza d’un proletariato locale, il contenuto nazionale della rivoluzione sociale restava artificioso o addirittura fittizio. Per l’intellettuale borghese ucraino il nuovo regime aveva anzitutto questo difetto, che i suoi capi erano in prevalenza gran-russi, per mentalità ed educazione se non per nascita: e questa non era una difficoltà che potesse esser superata in breve tempo. L’adesione al nuovo regime di alcuni ex nazionalisti (come il veterano Hruševskij, che nel 1923 tornò a Kiev per assumervi la presidenza della nuova Accademia Ucraina delle Scienze) non poté velare che leggermente la struttura fondamentalmente gran-russa del regime stesso. Per il contadino, d’altra parte, il torto del nuovo regime era d’essere un regime di abitanti della città. Questa difficoltà s’attenuò nel periodo di riconciliazione con i contadini simboleggiato dalla NEP; ma più tardi, quando la pressione del proletariato sui contadini si rifece sentire, lo scontento dei contadini stessi tornò a coincidere con quello degli intellettuali, dimostrando una volta di più come il problema nazionale ucraino divenisse grave nella misura stessa in cui acquistava contenuto sociale ed economico.

Edward Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923, Giulio Einaudi Editore, 1964 (A hystory of Soviet Russia. The Bolshevik Revolution 1917-1923, 1950), pp. 282-299.

 

 

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