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Su “Enigma Pasolini”, di Angela Molteni

Il brano costituisce la prefazione all’e-book (2009) che può essere scaricato gratuitamente cliccando QUI

Se, come chiosano Lo Bianco e Rizza, il cuore del pasoliniano “Petrolio” sta tutto “nella denuncia della ramificazione criminale del potere economico in Italia” (“Profondo nero” pag. 254) va ricordato come quel modo d’incarnarlo perpetuava ed esasperava vizi e illegalità del sistema fatte proprie anche da Enrico Mattei, il Bonocore del canovaccio pasoliniano. Quest’uomo sparigliando equilibri economici nazionali e internazionali finì vittima di strutture di dominio più solide di quelle che stava costruendo per l’Eni e per sé, strutture che non digerivano affatto la sua lesa maestà. 

Ma Mattei era assetato di potere personale? Pare lo fosse, alla stregua di chiunque prenda alloggio nelle stanze dei bottoni. Fresco di conflitto mondiale e operazioni di partigianato Mattei non disdegnava i colpi di mano e iniziò a usare ogni strumento per conseguire i propri fini. Fu dipinto come ribelle e autoritario, certamente fu un uomo acuto e scaltro nel ritagliarsi un ruolo e imporre nuove regole ai padroni mondiali dell’oro nero.

Se non riuscì a proseguire l’uso spregiudicato del potere, che lo faceva gran corruttore della politica utilizzando i partiti che “si pagano come le corse dei taxi”, probabilmente  fu solo perché il suo aereo venne trasformato nella ‘palla di fuoco’ apparsa nel cielo di Bascapè 
nell’ottobre del 1962. Incidente così descritto da un unico testimone che presto con denaro sonante venne dissuaso dal riconfermare quella versione. Dava fastidio l’ingegner Mattei e venne eliminato tanto che molti anni dopo Amintore Fanfani, che d’autoritarismo e doppiogiochismo se ne intendeva, ammise come quell’attentato poteva considerarsi il primo gesto terroristico del Belpaese. 

L’autoritarismo fatto sistema di potere soffoca presto i begl’ideali della Liberazione che riscattano gli anni della dittatura fascista. E poi c’erano partigiani e partigiani, il Johnny di Fenoglio pur badogliano era ben altra cosa da Pacciardi e Cefis. Per decenni, fra Guerra Fredda e lavori sporchi di strutture quali Gladio che supportano ingerenze statunitensi, la vita politica italiana viaggia sul terreno della “legalità illegale”. Uomini come il Cefis-Troya romanzato in “Petrolio” incarnano un volto di quei progetti che all’inizio degli anni Settanta sostituiscono i tentativi di golpe palese, alla greca con militari e carri armati, con un più morbido golpe bianco che, dopo aver creato i presupposti per un totale controllo dell’economia, asserviva 
l’informazione. La coppia Scalfari e Turani nel libro-dossier del 1974 “Razza padrona”,  una delle rare inchieste giornalistiche di denuncia, ne narra le conseguenze. Qui riportiamo solo qualche passo invitando chi ci legge ad approcciare l’intero libro.

“C’era perfetta intesa fra Fanfani e Cefis. Il quale ultimo, di suo, ci aggiungeva il fatto che, avendo ormai puntato tutte le carte del suo gioco su una Montedison privata e “privatistica” aspirava a riprendere quella tradizionale leadership dell’imprenditorato che il gruppo di Foro Bonaparte aveva avuto in tutto il periodo tra il 1946 e il 1963. Qualora l’operazione fosse riuscita, i vantaggi politici per Cefis sarebbero stati notevolissimi…” (pag. 422).

“In quelle condizioni, mentre tutti gli imprenditori sia pubblici che privati tiravano i remi in barca e cercavano di diminuire gli impegni (nel frattempo la Banca d’Italia aveva contingentato il credito e imposto regole di crescente austerità bancaria), la Montedison produsse una di quelle operazioni-lampo per le quali Cefis rimane un insuperato campione: nel giro di pochi mesi, anzi di poche settimane, profittando della generale incertezza s’impadronì della stampa italiana. I modi coi quali 
l’operazione fu condotta sono degni d’essere ricordati. La passività delle forze politiche, anzi la generale connivenza, testimoniano, se mai ce ne fosse stato bisogno, del grado di decomposizione cui era arrivato il sistema…” (pag. 434).

“Con l’acquisto del “Corriere della sera” il piano di conquista della stampa si conclude. Nel frattempo infatti la Montedison era anche entrata in possesso, coi consueti prestanome in questo caso domiciliati all’estero, della maggioranza azionaria del quotidiano parafascista “Il Tempo”…. A questo punto il quadro della scuderia giornalistica del presidente della Montedison è il seguente. A Torino la “Gazzetta del Popolo” dopo essere servita a spaventare Agnelli, è stata abbandonata e non si sa che fine farà. A Milano il “Corriere” è al 100 per cento di proprietà di Rizzoli il quale l’ha comprato utilizzando un finanziamento senza interesse fornitogli dalle banche della Montedison… A Milano, tramite Caprotti, la Montedison controlla il “Tempo illustrato”. Sempre la Montedison controlla “Il Giornale”… La situazione di Roma è stata già descritta. I due grossi quotidiani di Bologna (“Resto del Carlino”) e di Firenze (“La Nazione”) sono di proprietà di Attilio Monti e con essi il “Giornale d’Italia” di Roma. Anche di Monti sono noti gli intimi legami con Foro Bonaparte…” (pag. 452).

In quella fase a sinistra, mentre il riformismo d’impronta socialista è ormai annacquato da oltre un decennio di governo e sottogoverno, il disegno riformista del Pci viene piegato alle improduttive alchimie del compromesso storico, e tramonta l’irreale sogno “rivoluzionario” dei gruppi extraparlamentari e di quelli armati. Ciò che resta negli anni Ottanta e Novanta punterà a spartire fette di potere locale e nazionale o riproporre avvilenti autoreferenzialità.

Pasolini, finché è lasciato in vita, racconta e denuncia tali fenomeni. È costretto a prendere atto delle trasformazioni antropologiche degli italiani, delle belle bandiere lasciate cadere, della evaporazione di quella ruralità trovata vent’anni prima nelle borgate romane. Ormai gli amati sottoproletari sono diventati biechi strumenti dell’omologazione che compera corpi e anime. Senza ideologia né passione ogni cosa tende a diventare eguale, si rincorre individualisticamente l’arricchimento, qualche ex ragazzo di vita di Donna Olimpia finisce a far gruppo con gli egoismi criminali della banda della Magliana funzionali solo al sistema. Le disillusioni del poeta sono squillanti proprio in alcuni passi di “Petrolio” sui “miseri cittadini presi nell’orbita dell’angoscia…” (pag. 501) eguali al qualunquismo merceologico che ha amalgamato l’universo giovanile narcotizzato da modelli preconfezionati.

Quanto l’edonismo fine a se stesso sia una conseguenza di quello che è stato uno sviluppo malato, portatore non d’un progresso sostenuto da valori, ma d’una folle corsa consumistica divenuta identità sociale, è da tempo sotto gli occhi di tutti. L’enorme diffusione del parassitismo e del clientelismo cresciuti a dismisura, diventano il frutto degenere di trasformazioni forzate in un’economia vissuta non come naturale passaggio dal sistema rurale a quello industriale bensì come  squilibrata imposizione che abbandona a sé la campagna per sostenere un boom industriale dal fiato corto. Boom che si consuma in tempo breve per annullarsi (e annullare le capacità produttive del Paese) a vantaggio d’un terziario mellifluo, inefficiente e dedito a sprechi. Scrivono ancora Scalfari e Turani in “Razza padrona”: “… i gruppi parassitari, gli impieghi improduttivi del reddito, le rendite, lo stato inefficiente e ladro, la classe politica incolta e provinciale” (pag. 415).

Nei famosi articoli su un “Corriere della sera” non ancora cefisizzato – che il borghese illuminato Ottone gli pubblica e continua ad accettare anche quando le mani della Montedison finiscono su via Solforino – Pasolini attacca il Palazzo degli intrighi e delle ipocrisie in cui alloggiano potentati cattolici e laici, alleati palesi (i liberali di Malagodi e i socialisti di De Martino) oppure occulti come i missini di Nencioni. E ancora il Vaticano affarista di Marcinkus e gli uomini di Cosa Nostra dentro e fuori partiti e Istituzioni. Mentre la maggioranza dei “cervelli” intellettuali italici, banchettando su quei deschi, assiste silenziosa o canta le lodi del sistema.

Nelle stragi grandi e piccine con cui si governa, che vengono commissionate ai manovali del crimine politici e non, ci possono stare anche esecuzioni affidate a inaffidabili. L’<anarchico> Bertoli, bombarolo alla Questura di Milano, è un omicida arruffone più che un agente dei Servizi. In tanti casi il Palazzo non è così ineffabile come ama apparire. Perciò non c’è da meravigliarsi se i massacratori di Pasolini siano balordi di periferia come i conoscenti di Pelosi. I fratelli Borsellino, frequentatori d’una marginale sede missina nei pressi di Casalbruciato, sono fascisti di poco conto se paragonati a Giuseppucci e Abbruciati prossimi al giro degli stragisti Fioravanti e Carminati. Se i killer furono scelti fra costoro senza che si utilizzassero armi, tutto ciò aveva lo scopo di rendere verosimile l’omicidio fra omosessuali. Se invece si trattò di una sorta di Armata Brancaleone fuori dal set, lo potrebbe affermare soltanto Pelosi che da gran bugiardo sicuramente trascinerà l’informazione nella tomba.

È comunque un particolare secondario per lo sviluppo degli eventi perché della tragica fine del poeta interessa conoscere più i mandanti degli esecutori. E concentrarsi sulle ragioni d’un delitto preparato da tempo dalla campagna d’odio che – come sottolinea nelle sue recenti riflessioni Angela Molteni, curatrice di quel pozzo di note pasoliniane che è Pasolini.net – “si manifestava in molti ambienti e non solo da parte dei fascisti”.

Una campagna che riuniva perbenismo clerico-fascista e radical-chic anche di vedute “progressiste” e che fece comprendere alle menti assassine come ormai l’intellettuale fosse isolato. E detestato da diversi notabili e da taluna intellighenzia del Pci. Il partito nel quale ancora si riconosceva. Accuse come quella rivoltagli da Maurizio Ferrara sulla presunta arte “estetizzante” nascondevano ben altri rancori per le denunce della fase corsara con cui infliggeva “a fondo” molto più ficcanti del lirismo critico de Alla bandiera rossa” (…Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi: tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, ridiventa straccio, e il più bravo ti sventoli). 
Neppure certa extra sinistra amava Pasolini, forse perché era stato il cantore dell’ambiguo sottoproletariato anziché dell’operaio-massa e questo lo rendeva “disorganico” ai crismi del vetero marxismo-leninismo.

La sinistra rimase sgomenta per l’orrendo scempio dell’Idroscalo ma da tempo aveva lasciato solo il poeta a condurre battaglie contro un sistema che lui decriptava secondo codici “corsari” – una di queste è appunto l’individuazione del Nuovo fascismo ch’era un tutt’uno con 
l’antifascismo – tesi incomprensibile al manicheismo dell’ortodossia politica. Così nel tempo si è consumata la “mummificazione” di Pasolini di cui parla sempre la Molteni ed è apparso il “santino” conosciuto nelle celebrazioni del trentennale della morte che è stato riproposto da qualche dirigente ex comunista, ormai non più giovane comunista, di cui Pasolini aveva sponsorizzato l’esordio politico. 

La puntuale denuncia psichica, culturale, di costume sull’uso coercitivo del sesso nei rapporti di potere, che si esalta nelle condizioni d’oppressione e mancanza di libertà, è stata colta solo parzialmente quale metafora e denuncia della realtà. Molti la leggevano unicamente come 
l’ossessione del diverso la cui sessualità è turbata dalla condizione impostagli fra l’altro dal ruolo di uomo pubblico. Per tacere dell’imprintig cattolico della sua formazione. Su questa corda le polemiche di Nello Ajello attorno a “… l’immenso repertorio di sconcezze…” presenti in “Petrolio”, cui mirabilmente rispondeva il De Melis, seguivano quelle sul più osteggiato dei film pasoliniani “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, contestato anche a sinistra dal conformismo bacchettone e sessuofobico.

L’ambientamento storico della trama nel triste periodo della Repubblica Sociale è una metafora della società oppressiva e funge da diretto trait-d’union col mondo contemporaneo dove la familiarità con violenza e sopraffazione rende complici vittime e carnefici. L’identificazione del sesso come rapporto di potere diventa gesto meccanico e parabola di morte. E quel palcoscenico che riflette la faccia d’una società sconvolta e oppressiva ne costituisce una lucidissima ricostruzione.

Nell’imbarbarimento dei valori civili che l’Italia edonistica divulgava creando il substrato del qualunquismo ebete e fascistoide che ora ci affligge, la pratica della violenza legata al sesso, di cui lo stesso omicidio dell’intellettuale avrebbe dovuto mostrare il tragico epilogo, segnava 
all’epoca altri episodi inquietanti. Sono gli stupri politici rivolti ad artisti militanti come Franca Rame e semplici ragazze alla maniera di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Seviziate da fascisti, ispirati nel primo caso da militari di apparati dello Stato (la Divisione Pastrengo del generale Dalla Chiesa), nel secondo aiutati dalle conoscenze di famiglie della Roma bene che offrono protezione ai rampolli dopo i misfatti. Quelle violenze avevano il valore simbolico di infliggere alle donne in tumulto contro il maschilismo del sistema, oltre alla punizione, una sorta di freno per l’alzata di testa e la voglia di cambiare. Alla stregua delle bombe nelle piazze, si cercava d’incutere terrore a chi metteva di traverso la passionalità della propria esistenza al dipanarsi del disegno dell’<eversione democratica> che prendeva il posto di quella apertamente golpista. Pasolini capiva e denunciava perciò si ordinava d’ucciderlo. 

Gli ostacoli a indagini che andassero oltre la montatura del ragazzetto di vita Pelosi sono stati mille e molte denunce giornalistiche, opere e saggi di riflessione l’hanno evidenziato. 
L’intellettuale non conobbe la P2 di Gelli, che sostituì quella di Cefis-Troya, per il ritiro di 
quest’ultimo dopo che il padrino Fanfani s’era bruciato col Referendum sul divorzio. Ma il disegno autoritario senza golpe proseguiva con altri attori: Craxi e il Caf e gli epigoni della Seconda Repubblica così eguale alla Prima, i cui nomi il poeta non poteva fare ma che rientravano apertamente nel panorama del “fascismo del fronte antifascista”. Complice (ah, la subordinazione della vittima al carnefice) o muta è stata la sinistra del cedimento e 
dell’impotenza che ha (parzialmente) perpetuato sopravvivenze individuali favorendo la decomposizione delle organizzazioni politiche e praticando l’eutanasia dei ceti operai a nome dei quali per anni ha continuato a parlare.

Qualcuno ha detto, e mi perdoni se non lo cito perché rammento l’essenza del concetto e non l’autore, che “per fare un regime non sono necessari colpo di Stato e dittatura, basta la connivenza dell’opposizione”. Questo Cefis-Troya non riuscì ad attuarlo, ma i suoi odierni epigoni sì.

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