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Contro la guerra urgono anticorpi politici e sociali

Le manifestazioni del 16 gennaio contro la condizione di “guerra permanente” che caratterizza gli scenari della competizione globale, squarciano la narrazione  tossica sugli interventi umanitari e la democrazia  e  avviano un necessario percorso di elaborazione politica delle nuove caratteristiche della lotta contro la guerra.

25 anni sono trascorsi dalla prima guerra del golfo, un periodo attraversato dall’imperversare di conflitti militari a fare da traccia  ad una transizione epocale: dal mondo unipolare, emerso dalla sconfitta dell’URSS e concentrato sul primato dell’imperialismo Usa, all’emergere, nel campo stesso del capitalismo occidentale, di un polo imperialistico europeo, a dominanza franco-tedesca, in competizione per la conquista e il controllo di propri spazi vitali, fonte energetiche in primis.

25 anni che ci consentono di valutare quanto ideologicamente falsa sia stata la rappresentazione che la fine della scontro Est/Ovest, con il tracollo del campo dei paesi socialisti, avrebbe avviato la realizzazione della” fine della storia”, con l’assunzione del formalismo liberale in campo istituzionale e dell’economia capitalistica armonicamente ricomposti in uno scenario di crescita globale.

Il saccheggio e la rapina perpetrato dall’occidente vittorioso nei confronti delle economie dei paesi socialisti, capeggiati proprio dalle potenze, Usa e Germania, guida di rispettivi poli, avrebbe dovuto fornire, a dispetto di ogni visione idilliaca, la dimensione materiale e di classe che definisce le dinamiche del processo storico. Rendendo intellegibile il cumulo di contraddizioni irrisolte che accompagna la crisi del modello sociale capitalistico, che dalla sconfitta dell’esperienza socialista nell’Est europeo, avrebbe politicamente tratto rinvigorimento, ma che comunque avrebbe agito da moltiplicatore della persistente crisi sistemica.

L’interpretazione delle vicende belliche, con il loro quasi fisiologico riprodursi, consentono allora di misurare la profondità di una crisi di sistema che nell’espressione militare ridefinisce i connotati del mondo occidentale sia delle relazioni esterne, la competizione tra poli, che di quelle interne, con il crescente controllo sociale, il restringimento degli  spazi di partecipazione popolare e di  conflitto sociale.

Una competizione inter-imperialistica che opera anche negli organismi sovranazionali ereditati dalla fine della seconda guerra mondiale e coinvolge la Nato, che da strumento di contrasto alla presenza e all’influenza del blocco socialista, fondato sull’equilibrio della deterrenza nucleare, ha mutato la sua funzione in strumento di intervento aperto, soprattutto preventivo, per salvaguardare “interessi strategici del mondo occidentale”. Una coabitazione tuttavia sempre meno armonica,  con funzione di contenimento di interessi geopolitici ed economici contrastanti, che diventano terreno di scontro in più quadranti geostrategici, giungendo ad investire i confini dell’occidente, come dimostrato dalla vicenda Ucraina.

La dinamica dei conflitti, a partire dalla prima guerra del golfo,  nell’area medio-orientale , configura una sorta di sedimentazione progressiva a cui, all’insorgere di aree di conflitto segue la combinazione con elementi territoriali, etnico-religiosi, quasi sempre foraggiati dall’esterno, che riflettono gli interessi dei poli imperialistici in competizione: Iraq. Afghanistan, Libia, Yemen, ecc. sono il teatro di conflitti con protagonisti territoriali, con una propria fisionomia,  che viene artatamente “rimpastata”, strumentalizzata e radicalizzata nello  scontro tra poli imperialistici. Un esempio su tutti: la plurisecolare divisione del mondo islamico tra sunniti e sciiti diventa la cornice ideologica e religiosa  di uno scontro ad “alleanze varabili”  per l’egemonia, con  la compresenza del polo imperialista arabo-islamico con a capo una borghesia araba alla conquista di una propria autonomia nella gestione delle fonte energetiche. 

Uno sfrangiamento  dei conflitti militari che si  rivela speculare all’intensità e al progredire della crisi, alimentando una crescita della competizione a sua volta  destinata a ripercuotersi nell’approfondimento della crisi stessa e delle sue manifestazioni belliche. La  lettura dei conflitti come parametro dell’evoluzione delle relazioni inter-imperialistiche  ci consente di misurare la distanza intervenuta nei rapporti interni al blocco militare atlantico: quanto sarebbe possibile, ad esempio, nell’attuale scenario mediorientale il lancio di una “nuova alleanza dei volenterosi”? La collaborazione “atlantica” sembra attenere prevalentemente il livello interno di contenimento degli effetti della guerra asimmetrica legati al terrorismo e alla sua gestione comunicativa, coniugando  emotività individuale e narcosi sociale, attraverso i network globali occidentali.  

Il divaricarsi delle “priorità strategiche nazionali” dei paesi interni allo stesso polo imperialista europeo è un elemento aggiuntivo della valutazione degli scenari mediorientali, che opera come contraddizione solo apparente nella definizione del polo imperialista europeo, che si conferma infatti come  costruzione gerarchica con dinamiche competitive interne. L’intervento per il controllo delle fonti di approvvigionamento energetico,  vede Francia e Italia, sulla scorta dei rispettivi trascorsi coloniali, confrontarsi nel  medesimo quadrante mediorientale,  con l’asse Parigi-Roma da mesi in tensione per la tempistica degli interventi e la gerarchica del comando militare. La mediazione raggiunta con la priorità temporale accordata all’intervento in Siria e a seguire la Libia con l’Italia capofila, in quello che si preannuncia come prossimo intervento, non mette al riparo  da successive rivendicazioni delle compagne petrolifere francesi insediate in Libia.

Le scarne e lacunose considerazioni esposte dovrebbero rendere conto del caleidoscopio politico economico e militare rappresentato dallo stato del conflitto inter-imperialistico, e l’arduo banco di prova che rappresenta per il movimento contro la guerra. La difficoltà obiettiva a misurarsi con scenari che sfuggono al semplicismo dello schieramento: quello globalmente in corso non è uno scontro tra la reazione imperialista e le forze popolari, bensì uno scontro tra “capitalismi”  nello stadio imperialista per la sopravvivenza dei rispettivi apparati di sfruttamento, una condizione resa inedita a generazioni di militanti da un cinquantennio circa di equilibrio nucleare e successivo ruolo egemonico degli USA.

Emblematica delle difficoltà di costruzione dell’opposizione alla guerra sul piano sociale e di massa   la questione dei migranti in fuga dai conflitti verso i paesi dell’Unione Europea, che da naturali alleati dei movimenti di opposizione alla guerra, divengono alibi per l’approvazione di politiche securitarie nonché oggetto della propaganda reazionaria e razzista volta ad alimentare la cultura dello scontro e del primato degli interessi nazionali, sostrato ideologico di massa del bellicismo.

Le condizioni di evidente difficoltà sociale legate alla crisi che vivono i settori popolari, una copertura pressoché totale dei mass-media a sostegno delle ragioni del modello di vita occidentale messo a repentaglio dalla barbarie terrorista-islamista, la sostanziale omogeneità degli schieramenti politici nella condivisione delle politiche belliciste e nella gestione interna del clima di insicurezza sociale, sono in estrema sintesi, le difficoltà oggettive che impediscono al movimento contro la guerra di connotarsi con un pervasività di “massa”.  Difficoltà, che a ben vedere, danno la dimensione dell’egemonia culturale e politica della classi dominanti nella vita del paese.

Allora, l’individuazione dei temi per la ricostruzione di una “massa sociale critica”, unitamente alla riconsiderazione della lotta alla guerra nello scenario del conflitto inter-imperialistico sono i due filoni di un percorso di costruzione di un’opposizione di massa alla guerra.

La centralità assegnata nelle manifestazione del 16 gennaio al crescente ruolo dell’Italia nello scenario bellico mediorientale , e la guida italiana sul fronte libico; la partecipazione alla mobilitazione del sindacato conflittuale a denunciare lo sperpero di denaro nelle politiche di riarmo a fronte del disastro dei servizi e dei bisogni di cittadini e lavoratori; la solidarietà e il sostegno alle  lotte per l’autodeterminazione palestinese e curda anche per la loro valenza “progressista e popolare” nello scenario della lotta egemonica tra poli imperialisti; sono certamente temi su cui lavorare per costruire gli anticorpi sociali e politici alla guerra, consapevoli che  la dimensione bellica in tutte le sue implicazioni è ormai un elemento strutturale della crisi sistemica e della competizione tra poli imperialisti.

* Ross@ Roma

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