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Costituzione sotto il tiro delle banche e dei Trattati Europei (prima parte)

“Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (…) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”

 “I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.

“I sistemi politici e costituzionali del sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo.”

Sono questi alcuni stralci del Report della banca d'affari statunitense, JP Morgan del 28 maggio 2013.

Che un gigante della finanza globale tra le protagoniste dei progetti della finanza creativa e quindi della crisi dei subprime, formalmente denunciata nel 2012 dal governo federale americano come responsabile della crisi, produca un documento in cui chieda ai governi riforme strutturali improntate all’austerity, purtroppo non fa più notizia. Ma che addirittura si spinga ad indicare ai governi nazionali d’Europa, per sopravvivere alla crisi del debito, di liberarsi al più presto delle costituzioni antifasciste  e delle tutele garantite ai lavoratori, costituisce un cambio di passo di rilevante importanza.

Le parole della Jp Morgan esprimono chiaramente il livello di ingerenza delle banche d'affari nelle politiche dei governi nazionali e quanto questi ultimi si siano fatti portatori ed esecutori degli interessi di quell' elite oligarchico finanziaria autoproclamatasi al governo dell'Europa. In realtà le indicazioni della banca d'affari statunitensi rimandano a interrogativi ben più ampi e complessi.

La configurazione dei trattati europei è compatibile con la nostra Costituzione?

Come si conciliano quei diritti fondamentali contenuti nella nostra Carta Costituzionale con le modifiche recentemente apportate in ossequio ad accordi in sede europea, e in particolare col nuovo testo dell'articolo 81 che impone l'obbligo del pareggio in bilancio?

La cessione della sovranità nazionale in favore dell'Unione europea per quanto attiene le politiche di bilancio è coerente con il dettato costituzionale?

Per rispondere a questi interrogativi è necessario indagare la filosofia contenuta nella Costituzione e quella che, invece, ha ispirato i Trattati europei, ed analizzare, anche dal punto di vista giuridico, se tale contrasto è componibile o, al contrario, determina, per usare le parole di Vladimiro Giacchè, un "conflitto inevitabile".

A tal proposito, due libri ci forniscono un interessante chiave di lettura: si tratta di "Euro e (o) democrazia costituzionale" di Luciano Barra Caracciolo, e del recente "Costituzione italiana e trattati europei. Il conflitto inevitabile" di Vladimiro Giacchè.

 

Lo spirito della Costituzione del 48.

La Costituzione italiana del 1948 si colloca all’interno del costituzionalismo del secondo dopoguerra, espressione di quella cultura democratica europea che, dopo l’esperienza autoritaria e totalitaria del nazifascismo, riafferma la validità dei principi democratici, nella consapevolezza che la democrazia non si esaurisca solo nel diritto di voto riconosciuto a tutti ma richieda anche una eguaglianza di chances  ed una “pari dignità sociale” di tutti i cittadini.

Ma le Costituzioni democratiche sorte sulle ceneri della seconda guerra mondiale, e quindi anche la nostra, costituiscono anche il punto di mediazione nel conflitto capitale-lavoro o, meglio ancora, il punto di mediazione possibile in quel determinato periodo storico. Un equilibrio complessivamente onorevole e dignitoso per i ceti sociali meno abbienti.

Nel compromesso costituzionale fondato sui valori condivisi dell'unità nazionale e dell'antifascismo, raggiunto tra le principali componenti politiche che concorsero alla stesura della Costituzione, si afferma l'idea che quel capitalismo sfrenato, nel quale lo Stato deve astenersi da qualsivoglia intervento nella regolazione dell'attività economica, deve cedere il passo, per varie vicende storiche, economiche e sociali, ad un capitalismo di tipo interventista "costretto" ad accordare parecchie concessioni sul versante dei diritti sociali e del diritto del lavoro.

Dagli anni quaranta in poi si è delineato, quindi, a partire dalle Costituzioni, quel "modello sociale europeo" nel quale convergevano culture e prassi politiche differenti: dai partiti socialdemocratici, alle formazioni cristiano sociali, fino alle culture e ai partiti che si rifacevano alla dottrina comunista.

Come evidenziato da Luciano Gallino in "Il colpo di Stato di banche e governi", l'espressione "modello sociale europeo", se pur con differenti gradazioni nell'ambito dei diversi paesi, rispondeva ad un progetto ben preciso: quello per cui la società, nella sua interezza, si faceva carico di garantire ad ogni individuo, indipendentemente dal censo e dai mezzi economici, protezione e sicurezza economica.

Stiamo parlando di un sistema di diritto al lavoro e del lavoro, di pensioni pubbliche non lontane dall'ultima retribuzione, del diritto all'istruzione, di un sistema sanitario nazionale accessibile a tutti, di varie forme di sostegno al reddito nel caso di disoccupazione, invalidità o povertà.

Una lettura sistematica ed organica degli articoli contenuti nella nostra Carta Costituzionale ci permette appunto di rinvenire nel testo il recepimento di quel modello e di cogliere quei principi ispiratori che informano la Costituzione, riconoscendo la  centralità da essa accordata al lavoro.

Punto di partenza non può che essere rappresentato da quella norma programmatica contenuta nell'articolo 3, comma 2, della Costituzione, in base alla quale "E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

L'uguaglianza formale di cui al comma 1 ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche , di condizioni personali e sociali") trova specificazione nell'uguaglianza sostanziale di cui al sopra menzionato comma 2, ove, non a caso, il legislatore ha posto l'accento sulla necessità della partecipazione dei lavoratori e non genericamente dei cittadini all'organizzazione politica  ed economica del paese.

Questo articolo deve poi esser messo in correlazione con l'articolo 1 "L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro"  e con l'articolo 4 il quale, laddove prevede che "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto", rende di fatto operante l'articolo 1 e ne costituisce diretta applicazione.

Al riguardo si segnala che la giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che proprio dall'articolo 4 si ricava che il diritto al lavoro pone in capo allo Stato non solo il divieto di creare o lasciar sussistere nell’ordinamento norme che pongono limiti discriminatori a tale libertà, ovvero che direttamente o indirettamente la rinneghino, ma anche l’obbligo d’indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri, e dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni che consentano l’impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro.

Come evidenzia Luciano Barra Caracciolo, l'affermazione del diritto al lavoro si configura, quindi, come obbligo per lo Stato di perseguire politiche di pieno impiego, collegando questo stesso obbligo agli strumenti di politica economico-industriale dettati nella c.d. Costituzione economica.

Il programma insito nella Costituzione è ben rappresentato dall' intervento svolto durante i lavori dell'Assemblea costituente, in merito all'articolo 4 della Costituzione, dall'On. Lelio Basso, il quale  ribadisce l'obbiettivo del pieno impiego come impegno programmatico che deve informare la legislazione ed il nesso inscindibile tra la realizzazione del diritto al lavoro e la democrazia costituzionale.

Secondo l'On Basso " Vogliamo fare la Repubblica e lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per la propria opera, per la propria partecipazione effettiva alla vita di tutti. E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta nell'interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana". (…) Il senso profondo di questi articoli, nell'armonia complessa della Costituzione, dove tutto ha un suo significato, e dove ogni parte si integra con le altre parti sta proprio in questo:che finchè questi articoli non saranno veri, non sarà vero il resto; finchè non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garntita a tutti la libertà; finchè non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia".

Parole chiare, semplici e dirette che indicano il modello di società che la Carta costituzionale persegue, ma segnano anche la profonda distanza tra la cultura politico  giuridica che ispirava i padri costituenti e quella di chi oggi, nel nostro Paese, vorrebbe assurgere al ruolo di "riformatore" della Costituzione.

 

I diritti sociali quali criteri guida per dare attuazione ai principi fondamentali

Ai principi fondamentali (articoli 1-12) che indicano i fini irrinunciabili cui deve tendere la Costituzione,  si accompagnano, poi, quei principi programmatici che individuano le linee di intervento necessarie per rendere effettivo il perseguimento dei fini fondamentali.

Stiamo parlando di quelle norme della Costituzione economica che fanno riferimento al diritto alla retribuzione, al riposo e alle ferie retribuite (art 36), alla parità di trattamento nel lavoro (art 37), alla adeguatezza dell'assistenza sociale e pensionistica (art 38), alla libertà sindacale e al diritto di sciopero (art 39 e 40), al coordinamento dell'attività economica pubblica e privata per indirizzarla a fini sociali (art 41)  che, insieme al diritto alla salute (art. 32), al diritto all'istruzione e alla formazione professionale (art 33 e 35), compongono l'architrave del nostro sistema di welfare.

Questo tipo di diritti, oggi pesantemente attaccati dalle politiche dell'Unione Europea, assumono particolare rilevanza nella Carta Costituzionale sotto due diversi profili.

In primo luogo, per la connessione che intercorre tra gli stessi e il principio democratico, poichè l'affermazione di tali diritti rende effettiva e concreta quella partecipazione alla vita politico economica e sociale del paese ribadita nei principi fondamentali della Carta costituzionale.

Per dirla con le parole di Barra Caracciolo, i diritti sociali "portano ad un avanzamento della democrazia nel senso dell'aspirazione ad includervi l'intera comunità sociale"-

Ne consegue che la degradazione dei diritti sociali comporta automaticamente uno svilimento della democrazia.

In secondo luogo, nella trama costituzionale, affinchè tali diritti trovino concreta realizzazione occorre che vi siano strutture pubbliche poste a presidio degli stessi.

La sussistenza di tali strutture è quindi condizione necessaria per garantire l'attuazione di tali diritti.

Il drastico ridimensionamento della presenza dello Stato e quindi delle strutture pubbliche sul territorio, in ossequio alla spending review di matrice europeista, è quindi lo strumento attraverso il quale si colpiscono quei diritti trasformandoli da diritti protetti in diritti finanziariamente condizionati dalla possibilità reale ed obiettiva di disporre delle risorse necessarie.

L'austerità imposta al settore pubblico è, dunque, lo strumento per realizzare l'obbiettivo di fondo delle politiche dell'UE: mettere sul mercato i sistemi di protezione sociale e i servizi pubblici erogati oltre che dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni, dirottando quell'immensa massa di capitali dalla gestione pubblica a quella privata.

Un progetto politico economico che Gallino definisce un vero e proprio colpo di Stato, nel quale il mondo della finanza e i governi nazionali utilizzano la crisi quale strumento per ridisegnare gli assetti sociali e per instaurare una forma di governo delle persone che esautori completamente le Costituzioni nate dopo il secondo conflitto mondiale.

Si configura una emergenza politica, sociale e democratica.

(segue)

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