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Ragioni e risvolti di un voto. Appunti per una discussione ampia

Vorrei specificare in premessa a queste righe che lo scopo delle riflessioni a caldo (non a caso definite nel titolo “appunti”) che propongo, a proposito di un voto che tutti i commentatori internazionali – perlomeno i più qualificati – concordemente definiscono “storico”, è quello di aprire una discussione seria nel nostro Paese sulle cause e sulle conseguenze che la vittoria di Donald Trump propone al dibattito. Un discussione che sia caratterizzata da uno spettro di lungo periodo e problematizzata, lontana da manicheismo, slogan e parole vuote o prive di qualsiasi significato pregnante.

IL CONTESTO

Siamo nel pieno di anni importanti, che finiranno sui libri di storia, nei quali grandi sconvolgimenti riempiono le cronache quotidiane. Anni caratterizzati da una rapida evoluzione delle dinamiche internazionali in modo sempre più imprevedibile a priori, che puntualmente (anche se ognuna con una propria e specifica intensità) demoliscono una volta per tutte la narrazione della “fine della storia”, la retorica che si è sviluppata con l’apertura del Muro di Berlino del 1989, quella che elevava alla sfera della naturalità i rapporti sociali, economici e politici del mondo capitalistico occidentale. Siamo in ben altra situazione: dalla crisi economica epocale che si è sviluppata negli USA nel biennio 2007/2008, sono successe molte cose,  dal contagio dell’eurozona che ha alimentato un processo di integrazione europea fondato sul predominio del capitale tedesco a discapito dei Paesi cosiddetti “PIIGS”, all’escalation militare imperialistica che ha devastato il nord Africa e il Medio Oriente (alimentata da una spirale terroristiche che affonda nelle stesse sciagurate e folli politiche imperialistiche degli USA degli anni scorsi) e ha aperto un conflitto nel cuore dell’Europa (Ucraina), alla frantumazione di un’ Unione Europea impermeabile a qualsiasi tipo di riforma sostanziale della sua natura, culminata nella uscita della Gran Bretagna dalla UE attraverso un referendum popolare, fino alla elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America. Dicevano che la crisi economica era superata e così non è stato. Dicevano che il processo di integrazione europea era irreversibile e così non è stato. Hanno ripetuto fino a poche ore fa che la vittoria della Clinton era nei fatti e così non è stato.

Ha ragione chi ha evidenziato che gli sconfitti dal voto di ieri sono prima di tutto i sondaggisti: in realtà, è da tanti anni che questi profeti delle dinamiche del mondo vengono sbugiardati dai fatti. Con essi, quella che viene sconfitta è proprio la retorica della fine della storia. Ad averla rimessa in moto è stata la crisi economica nata in America e trasmessa poi al resto del mondo.

E’ proprio a quella crisi che si deve guardare per comprendere qualcosa in più del voto di ieri: la presidenza Obama, che – soprattutto nel secondo mandato ricevuto – aveva generato forti speranze di superamento dello strapotere della finanza e della speculazione finanziaria, non solo non ha raggiunto l’obiettivo di traghettare il Paese fuori dalla palude della crisi, ma non è nemmeno riuscita a contenere lo strapotere dei monopoli economici e dei mercati finanziari. Sebbene gli Usa vantino una disoccupazione stimata al 4,9%, è bene sapere che le misure adottate in questi anni non solo non sono state indirizzate all’economia reale e al superamento della miseria in cui larghe fasce della popolazione versano (nemmeno sul versante del Welfare si è fatto meglio, visto che la riforma sanitaria – tra i punti qualificanti del programma di Obama – è rimasta al palo) ma hanno al più mascherato una situazione sociale di povertà, attraverso misure assistenziali. Una parte significativa del voto popolare, di protesta contro l’ordine delle cose costituito, si è riversato sulla candidatura del miliardario Donald Trump. Non è sorprendente, tanto meno quando nello schieramento “democratico” la candidatura avanzata è quella di un’ esponente organica di quell’ordine costituito che ha generato i disastri a livello mondiale che tutti conosciamo. Anche in America si manifesta un fenomeno populista che, pur non avanzando critiche radicali dirette al cuore delle contraddizioni capitalistiche e un alternativa di sistema, raduna il malcontento verso lo statu quo e i gruppi dominanti. E’ un populismo diverso da una nazione all’altra, connotato specificamente da un contesto del tutto peculiare (basterebbe questo a dare la giusta centralità a quella dimensione nazionale che in modo superficiale e semplicistico viene liquidata).

Parallelamente la Federal Reserve, attraverso politiche monetarie espansive consistenti in massiccio riversamento di dollari nell’economia e azzeramento dei tassi d’interesse, ha ingrassato speculatori internazionali e generato bolle speculative prima o dopo pronte a esplodere. E’ quella che Laurence Summers – guarda caso già consigliere economico di Bill Clinton – ha definito “stagnazione secolare” riprendendo la teoria elaborata da Alvin Hansen per la quale, a fronte di bassi tassi d’interesse e misure anticicliche, non si riscontrano risultati diversi da una palude stagnante. Summers aggiunge che non si intravedono fattori esterni capaci di invertire la tendenza, tranne una guerra.

Ed è proprio qui che si combina il secondo elemento, oltre a quello sociale ed economico, da tenere in considerazione nel voto americano: la guerra. La ripresa e l’intensificazione di politiche neocoloniali da parte degli USA e del codazzo di Stati europei membri NATO, dimostrano quanto la guerra rimanga il principale fattore di controtendenza nella crisi capitalistica. Chi voglia mettere in discussione il legame che esiste tra crisi capitalistica e guerra compie un errore di analisi enorme.

La guerra ha rappresentato e rappresenta l’elemento determinante della dialettica politica americana: lo scontro in atto nell’establishment USA e NATO e quello tra una posizione più oltranzista, incarnata politicamente dalla Clinton, più propensa ad una “resa dei conti” diretta con l’asse strategico tra le grandi potenze che hanno già ridisegnato gli equilibri del mondo, cioè  quello tra la Russia e la Cina, ed una più “moderata”, più propensa ad una politica di rottura di questo asse privilegiato, dell’alleanza dei BRICS e dei loro Paesi alleati, attraverso la politica del divide et impera, solleticando gli interessi particolari di alcuni Stati operando una politica di contenimento, anche attraverso guerre regionali e iniziative destabilizzanti di legittimi governi, ma non spinta al punto da portare ad un conflitto di dimensioni globali e senza precedenti per effetti, se non forse nei casi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. E’ questa la posta in gioco strategica alla base della contesa negli Stati Uniti che da anni caratterizza la dialettica dei gruppi dirigenti di quel Paese.

CHI HA VINTO E CHI HA PERSO

Sembra aver prevalso nella battaglia elettorale questa seconda, più “moderata”, opzione politica. Sembra strano definire “moderata” la proposta politica di cui è portatore un personaggio come Trump, e tuttavia già dalle prime dichiarazioni del neoeletto presidente è possibile trovare un riscontro preciso: “Voglio dire al popolo del mondo che cercheremo il dialogo, non il conflitto, partnership non confronto e tratteremo in modo equo con le altre nazioni del mondo”.

Sono parole, certamente, e avremo modo di verificarle con i fatti. Ma con gli stessi fatti abbiamo invece potuto definire Hillary Clinton come la principale esponente della proposta politica più oltranzista: non bastassero le email desegretate da Wikileaks per convincersene, basti pensare al suo diretto coinvolgimento – nelle vesti di segretario di Stato – nel sovvertimento di stati sovrani del Nord Africa, del Medio Oriente, dell’America Latina, dell’Ucraina, ecc. Non fosse ancora sufficiente questo, le dichiarazioni sul suo impegno nelle vesti auspicate di presidente degli USA per la rimozione di Assad dalla guida della Siria (e quindi un ulteriore e probabilmente decisivo contraccolpo nelle relazioni con la Russia) dovrebbero essere finalmente sufficienti a farcene una ragione.

Quel che succederà è incerto: se infatti Trump appare assai mite nei confronti della Federazione Russa, lo stesso non si può dire nei confronti della Repubblica Popolare Cinese, potenza contro cui le invettive si sono sprecate nel corso della campagna elettorale del candidato repubblicano. E, a bene vedere, il cambiamento nelle relazioni con la Russia sarà funzionale proprio alla politica di isolamento e accerchiamento del vero principale competitor del primato egemonico mondiale degli USA: la Cina.

Ma è qui che si inserisce il ruolo della soggettività, quella che può cambiare e incidere sull’oggettività dei processi.

CONCLUSIONI: CHE FARE

Il voto USA, in buona sostanza, ci consegna il ritratto di una società impermeabile ad ogni impulso democratico, immersa in uno scontro tra élite di potere senza esclusione di colpi (ne sa qualcosa l’ex candidato democratico Sanders, fatto fuori dai vertici del suo stesso partito). Le nuove dinamiche internazionali si presentano difficilmente ipotizzabili con margini di certezza, e tuttavia in questa situazione sarà, come sempre, l’agire storico a determinare il futuro. E’ interesse dei popoli, della pace e di una nuova fase delle relazioni internazionali che l’operazione di divisione dell’asse russo-cinese non riesca. Il contrappeso svolto da quest’asse e dai suoi Paesi alleati è riconosciuto da tutti i più grandi e influenti partiti comunisti o rivoluzionari del mondo e questo asse ha le potenzialità concrete per segnerà di sè i prossimi anni.

Se è vero che il livello delle dinamiche in atto e dei grandi sconvolgimenti di oggi è quello internazionale, anche l’azione dei comunisti e della sinistra di classe deve essere tale: è, pertanto, un nostro compito preciso quello di lavorare al rafforzamento della cooperazione tra gli Stati che operano per un multipolarismo, di rafforzare l’azione unitaria internazionale dei comunisti, specie a livello continentale europeo (che sarà il terreno di prossime evoluzioni ed appuntamenti di portata storica, soprattutto per quanto attiene il destino della UE e dell’euro). Il nostro compito in Italia è quello di evidenziare la degenerazione politica che accompagna il declino degli USA come potenza mondiale, ponendo con sempre più energia la questione dell’uscita dell’Italia dalla NATO (Alleanza militare che ordinava lo schieramento delle proprie truppe contro la Russia in Lettonia, in difesa dei “propri confini”, mentre era in atto un periodo di sostanziale “vacanza politica” con un interregno di Obama e nel bel mezzo di una tornata elettorale decisiva), la fine della sudditanza all’egemonia USA. Impedire che il giusto malcontento nei confronti della UE si riversi nelle fila del populismo di destra e lavorare per il superamento della UE, rilanciando la questione della sovranità dei popoli sulle proprie vite, difendendo le Costituzioni nazionali antifasciste e lanciando un’idea di Europa continentale (dal Portogallo alla Russia), volta alla cooperazione internazionale tra gli Stati, libera dalla NATO e compatibile con i diritti e le libertà contenute nelle Costituzioni nazionali. Porre all’ordine del giorno la questione di nuovi rapporti internazionali per il nostro Paese e per il continente europeo tutto, informati alla cooperazione internazionale, alla pace e alla pari dignità tra i popoli.

La fine dell’unilateralismo filoatlantico e l’apertura a relazioni internazionali a tutto campo, specie con la Cina e i suoi alleati è per il nostro Paese non solo una scelta opportuna, economicamente vantaggiosa, ma strategica per conseguire la costruzione di un mondo nuovo, finalmente multipolare.

* segretario nazionale della FGCI

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