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La Resistenza contro il fascismo: l’indispensabile memoria dell’estate 1944

Il ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema, avvenuta il 12 agosto del 1944, si è svolto mentre appare in corso una vera e propria offensiva di recupero del fascismo, non solo da parte dei gruppi che inneggiano al ventennio, ostentano simboli nazisti, rifugiano la loro ignoranza in incredibili celebrazioni.

Il recupero del fascismo si verifica a ben altri livelli, da parte delle stesse forze di governo, attraverso le espressioni di razzismo, sopraffazione, dominio di classe e di genere, arroganza del potere che riempiono le nostre cronache quotidiane.

Il clima che si respira è quello di un allentamento sul piano culturale, di presa di distanza dai fondamenti dell’antifascismo, delle ragioni profonde sulla base delle quali nacque la nostra Repubblica.

Sono stati anni di duri attacchi reazionari da questo punto di vista: attacchi al Parlamento, al sistema costituzionale, di delegittimazione della democrazia.

Occorre combattere contro l’apparente ineluttabilità di un progressivo degrado.

Siamo di fronte ad una scelta, da rinnovare per le generazioni anziane, da attuare per le giovani generazioni: si tratta di opporre la Resistenza al fascismo.

Come scrive Claudio Pavone nel suo fondamentale testo del 1991: “ Eventi grandi, eccezionali, catastrofici pongono i popoli e gli uomini davanti a drastiche opzioni e fanno quasi di colpo prendere coscienza di verità che operavano senza essere ben riconosciute o la cui piena conoscenza era riservata a pochi”.

Ebbene oggi si presenta uno di questi passaggi della storia.

 Da questo punto di vista la memoria deve rappresentare uno strumento indispensabile per compiere appieno le scelte necessarie.

Per queste ragioni rinnoviamo il ricordo di ciò che accadde nell’estate 1944, settantaquattro anni fa, nella fase più difficile e anche più epica di quel grande moto popolare che fu la Resistenza.

Una memoria che dobbiamo fare in modo che assuma il tratto di una  vera e propria ripresa di identità per le nuove generazioni:

 

1)      SANT’ANNA DI STAZZEMA e le altre stragi compiute dai nazifascisti nella zona della linea gotica

All’inizio dell’agosto 1944 Sant’Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco come “zona bianca”, ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione, in quell’estate, aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all’alba del 12 agosto 1944, tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide[10], gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi, restarono nelle loro case.

In poco più di mezza giornata vennero uccisi centinaia di civili di cui solo 350 poterono essere in seguito identificate; tra le vittime 65 erano bambini minori di 10 anni di età. Dai documenti tedeschi peraltro non è facile ricostruire con precisione gli eventi: in data 12 agosto 1944, il comando della 14ª Armata tedesca comunicò l’effettuazione con pieno successo di una “operazione contro le bande” da parte di reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS nella “zona 183”, dove si trova il territorio del comune di S. Anna di Stazzema; l’ufficio informazioni del comando tedesco affermò che nell’operazione 270 “banditi” erano stati uccisi, 68 presi prigionieri e 208 “uomini sospetti” assegnati al lavoro coatto. Una successiva comunicazione dello stesso ufficio in data 13 agosto precisò che “altri 353 civili sospettati di connivenza con le bande” erano stati catturati, di cui 209 trasferiti nel campo di raccolta di Lucca[13].

I nazistifascisti rastrellarono i civili, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra, bombe a mano, colpi di rivoltella e altre modalità di stampo terroristico. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni(23 luglio-12 agosto 1944). Gravemente ferita, la rinvenne agonizzante la sorella maggiore Cesira (Medaglia d’Oro al Merito Civile) miracolosamente superstite, tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell’ospedale di Valdicastello. Infine, incendi appiccati a più riprese causarono ulteriori danni a cose e persone.

Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico): come è emerso dalle indagini della procura militare di La Spezia, infatti, si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

La ricostruzione degli avvenimenti, l’attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l’Eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare della Spezia, conclusosi nel 2005 con la condanna all’ergastolo per dieci SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie alpubblico ministero Marco de Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant’Anna. Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi-Gaddi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi armadio della Vergogna, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra.

Prima dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, nel giugno dello stesso anno, SS tedesche, affiancate da reparti della X MAS, massacrarono 72 persone a Forno. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spinsero nel comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca,nel comune di Fivizzano . Nel giro di cinque giorni uccisero oltre 340 persone, mitragliate, impiccate, financo bruciate con i lanciafiamme.

Nella prima metà di settembre, con il massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portarono avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido furono fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), mentre a Bergiola i nazisti fecero 72 vittime.

2)      MARZABOTTO

Dopo l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema avvenuta il 12 agosto 1944, gli eccidi nazisti contro i civili sembravano essersi momentaneamente fermati. Ma il feldmaresciallo Albert Kesselring aveva scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa e voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che l’appoggiavano. Già in precedenza Marzabotto aveva subito delle rappresaglie, ma mai così gravi come quella dell’autunno 1944.

Capo dell’operazione fu nominato il maggiore Walter Reder, comandante del 16º battaglione esplorante corazzato (Panzeraufklärungsabteilung) della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. La mattina del 29 settembre, prima di muovere all’attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wehrmacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. «Quindi – ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi – dalle frazioni di Pànico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all’assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole», e fecero terra bruciata di tutto e di tutti.

Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 197 vittime, di 29 famiglie diverse tra le quali 52 bambini. Fu l’inizio della strage: ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. La violenza dell’eccidio fu inusitata: alla fine dell’inverno fu ritrovato sotto la neve il corpo decapitato del parroco Giovanni Fornasini.

Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, dopo sei giorni di violenze, il numero delle vittime civili si presentava spaventoso: circa 770 morti. Le voci che immediatamente cominciarono a circolare relative all’eccidio furono negate dalle autorità fasciste della zona e dalla stampa locale (Il Resto del Carlino), indicandole come diffamatorie; solo dopo la Liberazione lentamente cominciò a delinearsi l’entità del massacro.

 

3)      LE REPUBBLICHE PARTIGIANE

Il ricordo di quella tragica e insieme gloriosa estate del 1944 non sarebbe completo se non si a

La diffusione ed estensione del raggio d’azione delle formazioni partigiane, connesse alla rapida avanzata alleata, autorizzarono nella tarda primavera del 1944 a immaginare imminente la Liberazione.

Gli organismi alla guida del movimento clandestino ipotizzarono dunque un percorso insurrezionale che anticipasse e accompagnasse l’arrivo degli angloamericani legittimando militarmente e politicamente la Resistenza.

Viene quindi dato impulso alla lotta, al fine di superare i limiti di una guerriglia concentrata su colpi di mano e sabotaggi e di pianificare un’offensiva di rilievo strategico.

Secondo una direttiva del Corpo Volontari della Libertà del 25 Giugno, tale ciclo operativo deve mirare all’occupazione di paesi e vallate da cui portare attacchi sempre più intensi contro tedeschi e fascisti e deve mobilitare le popolazioni a sostegno della guerriglia.

Tra giugno, avvio dell’espansione partigiana estiva, e settembre, inizio del ciclo dei grandi rastrellamenti, la rete dei presidi della Guardia Nazionale Repubblicana si sgretola, sia per la pressione delle bande partigiane che per la debolezza strutturale della Repubblica Sociale.

Dalla Valsesia all’Appenino emiliano e a quello ligure – piacentino, dalle vallate cuneesi a quelle friulane, le porzioni di territorio liberato via, via aumentavano.

Non si trattava del dispiegamento di un piano organico, quanto piuttosto dell’espressione della forza e della specifica dinamica della guerriglia in determinate aree.

In una prima fase, tra il giugno e il luglio 1944, si conseguì il risultato di un irrobustimento dell’organizzazione militare e si tentò una sperimentazione d’interventi amministrativi ed economici.

Con l’eccezione di Montefiorino, la liberazione dei territori non produsse però zone dal confine chiaramente segnato e militarmente presidiato.

E i provvedimenti di carattere politico, economico, amministrativo facevano capo essenzialmente al comando partigiano, salvo un tentativo a Montefiorino d’istituzione di organi civili, come invece sarebbe accaduto nei mesi successivi.

Quando alcune delle prime esperienze si erano già concluse sotto il contrattacco tedesco e fasciste, altre aree conobbero, infatti, il fenomeno delle Repubbliche libere, dalla Carnia all’Ossola, dall’imperiese alle Langhe e all’Alto Monferrato.

Si estese così, durante l’estate, una spinta propulsiva che si estese fino ai mesi invernali.

Si trattò della seconda fase di questa vicenda che si arricchì di esperimenti di governo di maggiore respiro.

Con il termine “zone libere” si pone in evidenza non solo il presidio militare del territorio, ma anche la realizzazione in esso d’interventi di carattere amministrativo e politico.

Nei territori liberati i comandi militari, infatti, istituirono immediatamente i Comitati di Liberazione Nazionale, talvolta sottoposti anche a verifica elettorale.

I Comitati di Liberazione Nazionale rappresentarono l’elemento di legittimazione delle giunte popolari comunali, che in alcune zone seguirono (Carnia, Alta Monferrato), in altre invece anticiparono (Ossola) la creazione di organismi di governo dell’intera zona.

Oltre all’aspetto della difesa, di competenza dei comandi militari (predominanti nei casi della Valsesia e di Montefiorino) fu la questione dell’approvvigionamento (prezzi, requisizioni, scambi) ad assorbire i maggiori sforzi delle Giunte, che pressoché ovunque si trovarono ad amministrare territorio a economia di sussistenza.

Si trattò di un nodo dirimente del rapporto tra partigiani e popolazioni che assunse sfumature differenti a seconda che le derrate dovessero essere importate (Carnia, Ossola) oppure esportate (in alcune zone del Piemonte).

Significativamente, però, tra le più frequenti misure che furono adottate nelle differenti zone, vi furono il rialzo dei prezzi, così da garantire maggiori utili ai produttori, e la regolamentazione dell’appropriazione di risorse agricole da parte delle formazioni.

Segno evidente della volontà, ma anche della necessità, di contemperare i crescenti bisogni logistici del partigianato con le esigenze essenziali degli abitanti senza infrangere gli importanti vincoli comunitari.

Ciononostante non mancarono i casi in cui si tentarono interventi più complessi come in campo scolastico con l’elaborazione di un articolato progetto di riforma presentato nell’Ossola dal ministro Gisella Floreanini (poi deputata comunista all’Assemblea Costituente) e in campo fiscale, con l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva come avvenne in Carnia, dove si registrarono i provvedimenti socialmente più avanzati.

Pur in condizioni di estrema precarietà l’esperienza delle zone libere e specialmente delle loro espressioni più compiute come nel caso della Carnia e dell’Ossola rivelarono la maturità raggiunta dal movimento partigiano.

Dunque non si trattò soltanto di un fenomeno connesso alla trasformazione delle bande in esercito partigiano, ma anche del manifestarsi di una accresciuta consapevolezza dei contenuti politici e sociali della lotta armata e della traduzione concreta di questa in principi di rinnovamento della democrazia.

In questo senso appare dunque legittimo usare il termine di “Repubbliche partigiane”.

Un termine questo di “Repubbliche Partigiane” importante in due direzioni:

1)      Per dimostrare che il movimento partigiano era in grado di cercare, e trovare, in se stesso e nel rapporto con l’ambiente fisico e sociale circostante le ragioni della propria azione e del proprio radicamento;

2)      Per prefigurare un’idea di democrazia così forte da impedire il pericolo di un ritorno all’Italia del notabilitato precedente al fascismo oppure, addirittura, dell’instaurazione alla fine della guerra di un nuovo regime “monarchico – fascista” addolcito di tipo salazarista.

Ragioni trovate e pericoli scampati grazie proprio all’esaltante esperienza delle “Repubbliche Partigiane” e della forza ritrovata dalle popolazioni, capaci di superare le grandi stragi che – pure – caratterizzarono quello stesso periodo storico.

L’Italia si ritrovò così la strada della democrazia repubblicana: una strada da non smarrire adesso, nella difficile temperie che stiamo attraversando.

Si tratta, ancora una volta, di difendere e portare avanti i valori di fondo della Resistenza.

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1 Commento


  • Bernardino Marconi

    Non dimenticare mai i valori della resistenza ma adoperarsi perché il suo valore continui nelle generazioni future con la difesa della nostra costituzione dell’antifascismo militante e vigilare e condannare ogni tentativo di conciliazione con chi si è schierato dalla parte nemica, ma anche vigilare e soffocare sul nascere ogni forma più o meno celata di fascismo.

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