Menu

Conquistiamo il futuro, riprendiamoci l’università e la scuola pubbliche!

Contro il governo del “cambiamento”

Il 30 novembre Mobilitazione nazionale! Riprendiamoci la Scuola e l’Università! Tutti davanti al MIUR!

Dopo aver maldestramente tentato di mettere mano ad una mirabolante manovra economica che avrebbe avuto il compito di risolvere il problema dell’occupazione a suon di reddito di sussistenza e pensioni anticipate, ma finendo poi per ritrattare di fronte agli alto-là dell’UE; dopo aver annunciato l’avvento della Dignità nel lavoro con un decreto che reintroduce fittiziamente la deregolamentazione dei voucher; dopo aver annunciato con dichiarazioni magniloquenti e sproloqui di cattivo gusto che si sarebbero chiuse le frontiere ai migranti, quando in realtà le aveva già chiuse il precedente governo a trazione PD, il governo del cambiamento si è deciso a cambiare anche il mondo dell’istruzione e della ricerca.

Il cambiamento è veramente radicale e si incardina su più momenti: cambiamento dell’Alternanza Scuola-Lavoro così contestata dagli studenti e da (coscienziosi) docenti; potenziamento dell’autonomia scolastica regionale su pressione delle regioni Veneto, Piemonte e Lombardia; decreto Scuole Sicure, e, ultimo ma non ultimo, l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Ma in cosa consisterebbe questo cambiamento?

L’Alternanza Scuola-Lavoro ha sicuramente cambiato una cosa: il nome! Ora si chiama “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”. Prevede, è vero, un dimezzamento delle ore per i licei e gli istituti professionali (rispettivamente da 200 a 100 e da 400 a 200), ma conserva la disparità tra entrambi, cioè conserva, legittima e rafforza un sistema gerarchico perfettamente in linea con la gerarchia sociale. Ma il nome nuovo non è affatto casuale. Alternanza Scuola-Lavoro era troppo diretto: fin dal nome faceva capire che sì, lo studente è futuro lavoratore, dimenticandosi che sarà futuro lavoratore alienato (ovvero “sfruttato”). Il nuovo nome, invece, è più dolce e generico. Ed è pure contraddittorio: dichiara di avere come scopo quello di far acquisire agli studenti delle capacità generiche, astratte (“trasversali”), indeterminate (altrove le chiamano “soft skills”) che molto cozza con l’orientamento verso una determinata professione pur annunciato nell’espressione “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”.

Qual è il modello? Innanzitutto, prevede fin dall’inizio una divisione netta tra licei e istituti professionali, una gerarchia precisa. In secondo luogo, li unifica sotto il dogma della “competenza trasversale”, che è il nome utilizzato nel mondo della formazione per ciò che viene chiamato nel mondo del lavoro: flessibilità. Quanto meno il lavoratore è qualificato, tanto più è sfruttabile ed effettivamente sfruttato. Ed è questo il modello di forza lavoro più funzionale a un sistema come quello italiano che, stando molto indietro ai regimi capitalistici del centro-nord Europa, punta a sopravvivere alla competizione globale attraverso lo sfruttamento di forza lavoro a basso costo piuttosto che con l’innovazione tecnologica.

Alla faccia del cambiamento!

Ci stanno solo dicendo che fin dalla scuola i ragazzi devono essere abili a lavorare per mansioni che richiedono poca abilità, cioè per quei settori attualmente trainanti in Italia (ristorazione, turismo, logistica). Ecco dov’è l’orientamento: nelle scarse abilità con cui si intende indirizzare gli studenti nel mondo del lavoro, costringendoli verso settori poco qualificati! Insomma: a scuola si è già lavoratori, non solo perché si lavora già effettivamente in quelle ore di alternanza, ma anche perché si acquista una mentalità e una disposizione allo sfruttamento intensivo ed estensivo. Il che sarà ancora maggiore per gli istituti tecnico-professionali, da sempre frequentati dalle classi meno agiate.

E così, l’effetto finale è, duplice: da un lato, la gerarchizzazione tra studenti, o meglio, una progressiva differenziazione classista dell’istruzione scolastica; dall’altro lato, la progressiva affermazione di una didattica delle competenze funzionale al mercato del lavoro e all’economia d’impresa che va a sostituire una didattica culturale, pedagogica e formativa in senso critico. Effetto unitario è quello di agire sulle menti delle nuove generazioni, per formarle ad uso e consumo del capitalismo nelle forme che oggi questo assume, e ciò diventa una necessità improrogabile per gestire la crisi.

Andiamo oltre. Il potenziamento dell’autonomia scolastica regionale permetterà alle Regioni di gestire in maniera più autonoma i fondi e i percorsi di istruzione all’interno delle scuole. Un’innovazione? Ma non lo si era già fatto con il Preside-manager? D’altronde, si tratta semplicemente dell’estensione al mondo della scuola di quanto già avviene nel mondo universitario ormai da decenni: l’autonomizzazione delle università che possono modellare i propri percorsi formativi a seconda delle proprie esigenze. Contestualmente al taglio dei fondi per l’istruzione, l’università e la ricerca (e pure su questo si prosegue con ulteriori tagli di decine di milioni di euro), queste esigenze diventano sempre più economiche e non formative, ma ora le Università (e si ipotizza anche le scuole gestite dalle Regioni) hanno l’autonomia di andarsi a vendere sul mercato. Proprio come la forza lavoro.

Cosa vendono? Vendono i propri corsi, vendono i propri percorsi di ricerca, sempre più tarati alle esigenze dei mercati per raccattare quei fondi che lo Stato non dà più. Insomma: la privatizzazione segue tanto la via del taglio diretto, quanto la via indiretta dell’imposizione di logiche imprenditoriali anche in mondi fino ad allora esenti da quella logica. Qual è la conseguenza? Non è difficile capire che Università più integrate in settori produttivi come quelle del Nord abbiano avuto, e abbiano tuttora, maggiore capacità di vendersi al migliore offerente, mentre quelle del Sud stiano sempre più arrancando. E così il disavanzo si accumula, fino a che si può parlare, anche qui, di una vera e propria gerarchia tra Università di Serie A, prevalentemente concentrate al Nord, e Università di Serie B, in prevalenza al Sud. Probabilmente le Università non sono bastate: ora anche la scuola deve essere del tutto adeguata, nel funzionamento e nella prestazione effettivamente concessa, alle esigenze del mercato.

Non è un segreto, poi, che uno dei cavalli di battaglia della Lega è da sempre l’autonomia fiscale “differenziata” sul piano regionale . Provvedimento che favorirebbe, manco a dirlo, le regioni più ricche del Nord, in cui la Lega è purtroppo ben radicata, a partire da Veneto e Lombardia, a cui si aggiungerebbe l’Emilia Romagna. Con questo provvedimento la Lega risponderebbe alla richiesta di settori dei ceti imprenditoriali e delle classi dirigenti di queste regioni di consolidare il primato economico e produttivo favorendo la loro integrazione nel mercato europeo. Concedendo l’“autonomia differenziata”, lo Stato dovrebbe quindi arrangiarsi con il residuo delle tasse rimaste per gestire il paese, dalle Forze armate alla sanità, dall’istruzione scolastica all’economia.

Si andrebbe definendo in questo modo una spaccatura economica e sociale già in corso tra il Nord e il Sud del paese, tra due aree economiche interne, l’una destinata a trainare l’economia italiana nel mercato europeo integrato, l’altra abbandonata a se stessa, come serbatoio di forza lavoro non occupata, esercito industriale e intellettuale di riserva, destinato a impieghi precari a basso reddito oppure all’emigrazione in aree economiche più sviluppate. Già abbiamo scritto precedentemente che consideriamo urgente porre oggi con decisione e chiarezza d’analisi la “questione meridionale” nelle dinamiche dello sviluppo capitalistico e delle disuguaglianze riguardanti il processo di aggregazione dell’Unione Europea e la differenziazione interna a quest’area tra paesi del “centro” e paesi di “periferia”. Se non altro perché oggi il Sud dell’Italia, l’estremo Sud dell’Europa, si costituisce come periferia interna di un paese già periferico all’interno della catena imperialista europea: un’area potenzialmente esplosiva in termini sociali, esclusa per necessità strutturali dalle dinamiche di sviluppo capitalistico e d’integrazione nel mercato europeo, a tal punto da poter costituire forse la punta più avanzata nel nostro paese di un processo “euromediterraneo” di rottura della catena imperialista europea.

Passiamo ora all’altro grandissimo, straordinario, rivoluzionario cambiamento del governo di Salvini: l’abolizione del valore legale della laurea. Secondo i sostenitori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio (quindi padroni, leghisti, radicali, in sostanza le élite), l’uguaglianza formale del titolo di studio nasconde una disuguaglianza nella preparazione degli studenti. Questo starebbe provocando problemi nella pubblica amministrazione, dove persone meno preparate avrebbero la stessa possibilità di vincere i concorsi di quelle più preparate.

Ammesso che ciò sia vero, non passa in mente ai nostri riformatori di risolvere la disuguaglianza sostanziale nell’offerta formativa pubblica. D’altronde la stanno fomentando in tutti gli altri modi suddetti. Né tantomeno passa loro in mente di chiedersi: ma come fanno persone meno preparate a vincere concorsi in cui concorrono con persone più preparate? Ad ogni modo, come il miglior matadores, si taglia la testa al toro: si elimina l’uguaglianza formale.

Così, il compito dello Stato dovrebbe essere solo quello di stilare una graduatoria delle università migliori in modo che quando lo Stato ha bisogno di personale per le sue amministrazioni, assuma i suoi funzionari non basandosi sui punteggi del voto conseguito con la laurea, che finora ha reso uguali tutti i candidati con i rispettivi atenei, ma in relazione alla università di provenienza. Insomma un laureato alla Bocconi o al Politecnico di Milano dovrebbe valere di più di un laureato dell’università di Napoli o di qualsiasi altra città del Sud.

Per dirla con il giornale della Confindustria ciò significa “lasciare che il mercato faccia da regolatore del valore della laurea nella sostanza e non nella forma. In pratica la nuova parola d’ordine sarebbe più concorrenza tra gli atenei con quelli più virtuosi – perché hanno i docenti e le strutture migliori e spendono meglio i fondi a disposizione – che diventerebbero i più ambiti dagli studenti per laurearsi e dalle imprese per assumere”. Straordinario. Tutti sanno che si sta creando un sistema gerarchizzato tra atenei di serie A e di serie B, tra studenti che possono permettersi di spostarsi o di pagare rette altissime per studiare dove avranno più speranze di trovare un lavoro, e studenti che rimarranno nei loro territori e finiranno per lavorare per mansioni dequalificate.

Insomma. Stiamo punto e a capo. Ma adesso il non plus ultra: Scuole Sicure. Cioè più polizia nelle scuole. Perché la sicurezza è la pistola e non un tetto sicuro. Ad ogni modo, non credere che questa manovra abbia la finalità malcelata di bloccare con la forza qualsiasi ulteriore forma di protesta a queste manovre di promozione pubblica dell’imbecillità universale, è altrettanto da imbecilli. Ma vien da chiedersi se poi ce ne sarà così bisogno visto che, in prospettiva, si stanno espropriando gli studenti di qualsiasi strumento per comprendere criticamente il mondo di merda in cui vivono ed in cui li sta destinando a sopravvivere, pardon, a vivacchiare.

Cambiare tutto per non cambiare nulla. Cambiare la superfice per nascondere che non si sta cambiando la sostanza è un vecchio mantra delle classi dominanti. Il Principe di Salina lo sapeva. Lo sanno il Principe Matteo Salvini e il suo subordinato Cavalier Luigi Di Maio. Anche loro sanno bene che in questa società lo Stato è al servizio del privato, e sta semplicemente perfezionando sempre di più come la propria organizzazione possa essere funzionale alle esigenze del debole mercato capitalistico italiano.

Se questo è il governo cambiamento allora lo è soltanto per i padroni e le classi dirigenti di questo paese. Non certo per i milioni di giovani precari, disoccupati, sfruttati di questo paese.

Per tutte queste ragioni sosteniamo con forza il presidio del prossimo 30 novembre a Roma: contro il governo giallo-verde del “cambiamento”, contro l’abolizione del valore legale del titolo di studio, contro l’università-azienda e l’università di élite, contro l’alternanza scuola-lavoro, contro precarietà e sfruttamento!

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *