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L’asse del male era petroliere

L’eliminazione fisica di Osama Bin Laden e quella politica – sicuramente più complicata – di Al Qaeda marcano un confine: esce di scena l’Islam politico “combattente” e con esso un’esplicita ipotesi di risoluzione della crisi vissuta dalla globalizzazione. Anche sul piano simbolico non si può non vedere l’assoluta contemporaneità tra questo tramonto e la “primavera araba” che scuote tutti i regimi dell’area senza alcuna concessione all’integralismo religioso (tranne forse, e non per caso, tra i “ribelli di Bengasi”).

Anni di propaganda bellica imperialista hanno reso “senso comune” una serie di categorie interpretative passate in modo subliminale della comunicazione mainstream. Chi non ricorda, una decina di ani fa, certe discussioni “a sinistra” tra chi invitava – come noi – a conoscere meglio per capire meglio prima di partire con gli schieramenti e chi, per mettere in secondo piano la propria adesione al bellicismo imperiale, sbraitava “preferisco i jeans al burka”. Come se le guerre si facessero per un capo di vestiario. Se ne ebbe un’eco anche su il manifesto, il cui direttore d’allora (oggi notista su La Stampa, non per avventura sull’altro lato della barricata) invitava a scegliere tra “bombardieri della libertà” e “kamikaze”. La debolezza attuale del sentimento pacifista contro la guerra d’aggressione alla Libia è figlia di quella confusione, elevata al cubo dall’esibita “amicizia” tra il “dittatore Gheddafi” e l’”aspirante dittatore” Berlusconi, compari di bunga bunga. Come se cacciare Gheddafi – via Francia e Gran Bretagna, più i semi-riluttanti Stati Uniti – fosse un surrogato della sempre rinviata cacciata “parlamentarista” del Cavaliere.

Su un altro lato, quello della “sinistra antagonista”, si è avuto uno smottamento politico-teorico uguale e contrario; potremmo dire “complementare”. Nello sconforto per il crollo delle possibilità concrete di trasformazione radicale dell’esistente (dopo la fine dell’Urss e del socialismo reale, la scomparsa della sinistra comunista parlamentare, il riflusso del “movimento di Seattle”, ecc), ha preso piede un’interpretazione “geostrategica” alternativa che ha riconvertito le vecchie bipartizioni (imperialismo/antimperialismo, con l’interessante apporto dei “paesi non allineati”) nelle nuove condizioni, ma senza più le classi. E qui l’islamismo radicale poteva esser scambiato per un succedaneo velenoso dell’“antimperialismo, fino ai deliri “euroasiatici” di contrapposizione agli “americani”. Un delirio, come si vede, in cui le finalità sociali della lotta politica, specie a livello globale, semplicemente scompaiono per far posto a ideologie raccogliticce o derive tipo “né destra né sinistra”.

In queste ore di notizie imprecise, manipolate con più o meno evidenza, di dubbi sensati e dietrologie “a prescindere”, ci sembra opportuno ricordare che il rapporto-chiave della storia politica degli ultimi 20 anni si è giocato sull’”asse dei petrolieri”: ovvero tra le amministrazioni Usa (soprattutto quelle repubblicane, che ne hanno rappresentato gli interessi prelevando gli uomini guida direttamente dalle “sette sorelle”: Bush padre e figlio, Dick Cheney, Condoleeza Rice, ecc) e le monarchie del Golfo, sauditi in testa. Un rapporto a lungo unitario, anche se costellato di numerosi (e sanguinosi) incidenti di percorso.

Ma che si infrange a metà degli anni ’90, quando emerge una nuova potenziale “classe dirigente” araba che decide di giocare in proprio la partita per l’egemonia in un’area strategica del pianeta:lì dove sono custoditi i due terzi delle riserve globali di idrocarburi. E’ una classe dirigente che non trova una visione alternativa al capitalismo (fin troppo semplicisticamente identificato con l’Occidente e i suoi costumi), né tanto meno al socialismo che ha contribuito a distruggere, con la guerra antisovietica in Afghanistan. Assume quindi la visione più retrograda dell’Islam per pura filiazione “naturale”: il cuore dell’”anticomunismo combattente” allevato dalla Cia era stato infatti costituito da “brigate internazionali” a guida saudita, indottrinamento wahabbita e addestramento statunitense. Perfetto, per far presa tra i Pashtun afgani; affascinante, per qualche frangia di sottoproletariato delle banlieues europee; retrogrado e passatista per la generazione araba che si è affacciata sul terzo millennio chiedendo “altro”. Forse non hanno deciso neppure loro cosa, ma di certo non il ritorno al medioevo dell’Islam originario.

Non sono cose nuovissime. Molti contributi erano già stati elaborati nel corso nel decennio alle nostre spalle. Ne riproponiamo intanto due, che ci sembrano decisamente “in tema”. Occhio alla date. Hanno la loro importanza.

 

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Bush e Bin Laden, soci d’affari e amici per la pelle

Francesco Piccioni

Quel vecchio pirata di Prescott Bush sarebbe veramente contento di vedere fino a che punto i suoi discendenti hanno assimilato il suo spirito. Lui che nel 1918 guidò un’incursione in un cimitero Apache per prendersi il teschio di Geronimo e farne il trofeo della sua società di studenti, la Skull & Bones (teschio e ossa). Lui che negli anni ’30 – e nei primi ’40 – trafficava con la Luftwaffe fino a vedere tre società di cui era azionista importante sanzionate per aver commerciato col nemico (violando il Trading with Enemy Act). Lui che pranzava quotidianamente con Allen e Foster Dulles (capo della Cia al momento dell’assassinio di John Kennedy) e che aveva convocato il capo della nazione Apache per una cerimonia di restituzione del teschio di Geronimo; finita male, perché provò ad affibbiargli un teschio qualsiasi, offendendolo a morte.

Era certamente contento del primogenito George Herbert, petroliere di scarsa fortuna ma agente della Cia in grado di scalarne la vetta (fu nominato direttore nel ’76) nonostante il non esaltante risultato dello sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba, di cui era il coordinatore. Però dimostrò di tenere alle radici texane, al petrolio e alla famiglia, chiamando le tre navi da sbarco Houston, Zapata (la sua prima e scalognata società petrolifera) e Barbara (la moglie). Deve aver sorvolato su quella strana liason del figlio, negli anni ’60, con un costruttore arabo che ogni tanto veniva in Texas e cercava di introdursi nell’alta società locale. In fondo, quel Muhammad Bin Laden lì, non durò poi molto: cadde col suo aereo mentre attraversava il cielo sopra i pozzi che così poca soddisfazione davano al suo prediletto. Era il ’68, il mondo pensava ad altro.

George W., all’inizio, deve avergli dato parecchi grattacapi. Un asino a scuola (la media del “C”, a un passo dalla bocciatura), ultimo all’esame di ammissione alle forze aeree della Guardia Nazionale (giusto per schivare il Vietnam), assiduo frequentatore di bottiglie di bourbon e piste di cocaina. Ma finalmente, anche lui, si lanciava nel business del petrolio. A metà degli anni ’70 fonda la Arbusto (bush, in spagnolo) Energy, raccogliendo come soci un po’ di amici paterni (la Cia ha molti amici). Il suo compagno di scuola e di servizio militare, James Bath, gli procura investimenti da parte di Khaled Bin Mafouz e Salem Bin Laden, il figlio maggiore di Muhammad e nuovo capo della famiglia. Personaggio notevole, il Mafouz. Banchiere della famiglia reale saudita, sposo felice di una sorella di Salem e Osama, gran capo di Relief e Blessed Relief, le due “ong” arabe accusate di essere una copertura per l’organizzazione di Osama.

George, negli affari, è sfortunato. La Arbusto fallisce, si trasforma in Bush Exploration, poi in Spectrum 7. Immancabile arriva sempre la bancarotta. Ma Salem non gli fa mai mancare il suo generoso appoggio. Il successo pare arridergli quando la Harken Energy rileva la Spectrum pagando la sua quota azionaria ben 600.000 dollari. Che corrobora con un contratto di consulenza da 120.000 dollari l’anno. In breve si mette in tasca un milione, mentre la Harken ne perde decine. Ma procura un contratto di trivellazione in mare da parte del Bahrein, battendo Amoco e Esso. E’ il ’91, la guerra del Golfo sta per scoppiare, Bush padre è il presidente; e lo sceicco locale, Khalifa, preferisce non rischiare. Del resto sono anche vecchi amici di famiglia. Khalifa, Bin Mafouz, Salem Bin Laden erano nel board della Bcci quando passavano immensi movimenti di denaro per l’affare Iran-Contra.

Del resto quando, alla fine dell’80, i repubblicani si incontrano segretamente a Parigi con i khomeinisti moderati per ritardare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e fregare così Jimmy Carter alle elezioni, George padre raggiunge di corsa il summit a bordo dell’aereo di Salem Bin Laden. George W. è sfortunato, con i suoi soci. Su quello stesso aereo, nell”88, Salem trova la morte (anche lui) mentre attraversa il cielo sopra i pozzi del Texas. La coincidenza sembra a molti eccessiva, ma l’inchiesta fu molto accurata. Le conclusioni, infatti, non furono mai rese note. Nel frattempo un altro protagonista dell’incontro di Parigi, Amiram Nir – agente del Mossad – muore in un incidente aereo. Nessun sospetto, però: cade in Messico, mica in Texas.

La sfortuna perseguita anche i giornalisti che si occupano dei Bush. Danny Casolaro sta lavorando a un libro (“Untanglig the Octopus”) che ricostruisce la rete degli scandali grandi e piccoli della presidenza paterna. Prima di finirlo, però, decide di suicidarsi “come un incapace”, racconta Steve Mizrach. Stessa sorte per James H. Hatfield, 43 anni, che è riuscito a pubblicare “A fortunate Son: George W. Bush and the making of an American President”. Una biografia non autorizzata che, nel ’99, rivela come George abbia tenuto nascoste le sue frequentazioni con la cocaina. Per la legge del contrappasso, viene trovato morto per overdose in un albergo di Springdale, Arkansas, il 18 luglio di quest’anno.

Ora tocca a Osama, naturalmente. Sodale non d’affari, ma di operazioni targate Cia. Forse gli altri 52 fratelli avranno qualcosa da obiettare. Ma, direbbe Prescott, in una guerra mondiale c’è spazio a sufficienza per risolvere le beghe tra vecchi soci.

Da “il manifesto”, 25 settembre 2001

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Al Qaeda. Da creatura della guerra fredda a competitore globale

di Sergio Cararo*

La rete di Al Qaeda è una creatura degli Usa? Se possiamo rispondere affermativamente a questa domanda, dobbiamo rispondere affermativamente anche al suo contrario che emerge dalla metamorfosi avvenuta negli anni Novanta. Gli apprendisti stregoni di Washington hanno creato in nome della guerra fredda uno dei suoi competitori globali del XXI Secolo.

E’ tempo che nella sinistra di classe e nei movimenti antimperialisti o contro la guerra, si cominci ad andare un po’ più a fondo nell’analisi di un soggetto politico globale che da dal 2001 è entrato in campo con forza. Ha ben ragione il direttore di Limes, Caracciolo, nel sostenere che fino ad oggi su Al Qaeda più che una analisi è stato fatto dell’esorcismo. Se questo è vero dal punto di vista dei think tank delle classi dirigenti, dobbiamo ammettere che anche a sinistra non si è ancora andati troppo più in là. Eppure i dati, i riscontri, i fatti, spesso sono sotto gli occhi e aspettano solo di essere connessi tra loro.

I movimenti che si battono contro una ingiusta ed illegale guerra d’occupazione in Iraq o Afghanistan, devono far crescere il loro livello di autonomia dal senso comune e dalla dietrologia. L’autonomia di una analisi critica è oggi decisiva nella lotta per l’egemonia contro l’ideologia dominante (nel suo senso più esteso).

Per evitare gli esorcismi richiamati da Caracciolo, le categorie per spiegare cosa sia oggi il blocco di forze che si esprime con Al Qaeda sono importanti.

Innanzitutto occorrerebbe invitare i nostri mediattivisti che lavorano nei giornali, nelle radio, nelle reti telematiche ad evitare semplificazioni fuorvianti come “fondamentalisti” o “integralisti” islamici. Non lo diciamo noi, lo sostengono studiosi autorevoli ancora prima che Osama Bin Laden diventasse il Goldstein del nostro “1984” quotidiano (per cui occorre manifestare odio feroce ogni volta che compare in video, proprio come avviene nel libro di Orwell).

“Definire fondamentalisti questi musulmani è arbitrario perché, secondo gli specialisti, l’aggettivo andrebbe applicato solo a certe correnti del pensiero cristiano, come il “creazionismo”, che negli Usa è noto per la sua interpretazione letterale della Bibbia” sostiene uno dei migliori orientalisti italiani, lo scomparso Pier Giovanni Donini “Il concetto di fondamentalismo islamico è comunque un’utile scorciatoia per classificare una tendenza fondata sulla convinzione che le difficoltà attuali si possano risolvere con un ritorno all’applicazione dei principi originari dell’Islam” (1).

Dello stesso avviso è il noto orientalista inglese Bernard Lewis oggi pluri-intervistato dalla stampa guerrafondaia. “La parola “fondamentalismo” – vorrei ricordare – è di origine americana e protestante, dunque cristiana, come il termine “integralismo”, che talvolta gli fa concorrenza, è a sua volta derivato da un contesto francese e cattolico” (2)

Dunque, quando sentiremo qualche nostro compagno parlare di fondamentalisti o integralisti islamici, siamo autorizzati a dargli uno scappellotto per sottolineare come stia utilizzando una categoria impropria e presa a prestito dall’arsenale ideologico statunitense.

Donini ci ricorda però che l’Islam è allo stesso tempo religione e società (Din wa daula, “Fede e Stato”), per cui il ritorno ai principi dell’Islam contiene anche una idea dello Stato, cioè ha una dimensione politica e non solo religiosa.

Rimanendo sulle categorie interpretative, è importante sottolineare le conclusioni di un interessante saggio di Oliver Roy, secondo cui il fenomeno Al Qaeda , come le sue incarnazioni precedenti ha innanzitutto un carattere transnazionale; “I suoi legami con il Medio Oriente sono solo contingenti…Si tende a sopravvalutare il carattere islamico di Al Qaeda , trascurando la sua dimensione globale, anti-imperialista e terzomondista” (3).

Questa valutazione di Oliver Roy – che condividiamo solo in parte – ci permette di aprire una riflessione ad ampio raggio di carattere storico e di analisi della natura sociale (o di classe) del blocco di forze noto al pubblico come Al Qaeda .

La prima Al Qaeda, creatura degli Usa

Se dovessimo rispondere ad una domanda semplice come quella che afferma che Al Qaeda è una “creatura della CIA”, potremmo rispondere affermativamente. Questo tranquillizzerebbe un bel po’ la coscienza di tanti attivisti in cerca di certezze. Ma questa chiave di lettura appartiene in gran parte al passato e non coglie la dinamica degli eventi, né le trasformazioni della realtà e dei soggetti in campo.

Se qualcuno ci rammentasse che le fortune di Osama Bin Laden e dei suoi uomini nascono nelle strette relazioni con l’establishment Usa (addirittura con la famiglia Bush), che Al Qaeda nasce nella fase cruciale della guerra fredda come aspetto del conflitto globale tra Usa e URSS in Afghanistan e nel Medio Oriente, dovremmo rispondere che sì, effettivamente il Jihad di Osama Bin Laden viene creato, testato e sostenuto dagli Stati Uniti (qualcuno rammenta un Brzezinski con il turbante che ne festeggia il suo esordio in Pakistan in funzione antisovietica in Afghanistan) (4)

In realtà questo progetto di utilizzare l’Islam contro il comunismo o le forze progressiste è un’idea che risale agli anni della lotta contro il progetto panarabista di Nasser e dei partiti Baath (in Siria e Iraq). Secondo Majid Karshenas“I Fratelli Musulmani, che intendono resuscitare il Califfato islamico, pur essendosi radicati in tutto il mondo arabo, non sono in grado di guidare le lotte della popolazione. Lo sviluppo del nazionalismo, e in particolare, l’idea nasseriana in Egitto, sono le ragioni per cui questo movimento rimane isolato” (5).

Il nazionalismo arabo era dunque riuscito a marginalizzare i gruppi e le correnti religiose avendo un’idea più ampia e progressiva, ma con la sconfitta del nasserismo e le divisioni nell’esperienza del Baath, le organizzazioni religiose riacquisteranno peso ed influenza potendo contare anche sugli ingenti finanziamenti dei petrodollari della monarchia saudita alleata con gli Usa.

Dagli anni Ottanta in poi, gli Usa daranno infatti semaforo verde ad una sorta di proiezione globale dell’Arabia Saudita che per venti anni finanzierà in ogni angolo della guerra fredda gruppi islamici combattenti o l’apertura di scuole islamiche e moschee come strumenti di penetrazione di una sorta di “ascari” dell’impero statunitense. Clamorosi i casi della guerra in Jugoslavia (Bosnia, Kossovo) o della Cecenia.

Ma è proprio la fine della guerra fredda a cambiare completamente la mappa del mondo e dei rapporti di forza che ne avevano retto gli equilibri per quarantacinque anni dopo la Seconda Guerra Mondiale. La fotografia della realtà che ci presentano i compagni o gli studiosi che ritengono ancora Al Qaeda la longa manu della CIA, è dunque una fotografia sbiadita, ferma nel passato e inadeguata a spiegare le evoluzioni della storia.

Risentimenti e nuove ambizioni del mondo arabo-islamico

Con gli anni Novanta, la dissoluzione dell’URSS e la prima guerra contro l’Iraq, è infatti cambiato il mondo. Sono cambiate le relazioni tra Stati Uniti ed Europa, si è avviata l’escalation della Cina e sono cambiate anche le relazioni tra Stati Uniti e il mondo islamico.

Ci sono almeno tre avvenimenti che, negli anni Novanta, fanno precipitare le ottime relazioni tra il mondo arabo islamico e l’imperialismo Usa uscito come egemone dalla fine della guerra fredda.

1)      Le conseguenze della prima guerra contro l’Iraq nel 1991. Gli Stati Uniti rimangono nel Golfo anche dopo la fine della guerra con un sistema di basi militari permanenti. La monarchia saudita aveva assicurato che dopo la guerra se ne sarebbero andati, ma così non è. Questo “tradimento”, insieme alla permanenza di truppe americane sulla terra santa della Mecca, provoca tra le nuove generazioni saudite un risentimento crescente contro gli Usa e la subalternità delle classi dominanti arabe

2)      Il colpo di stato in Algeria che all’inizio del 1992 impedisce agli islamici del FIS di andare al governo dopo aver vinto regolarmente le elezioni. Il colpo di stato dei militari algerini ottiene il sostegno di tutte le potenze occidentali, ma sbaracca pesantemente ogni illusione nelle organizzazioni islamiche sui processi democratici come tappa per arrivare al potere

3)      L’inizio del “Grande Gioco” per il controllo delle risorse in Asia centrale, soprattutto nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche. Il nesso tra questo teatro di competizione senza esclusione di colpi e la situazione in Afghanistan è strettissimo. “Il crollo dell’URSS aveva rimescolato le carte del gioco a tre Usa-Pakistan-Arabia Saudita” scrive Lucio Caracciolo “Washington vuole chiudere la partita per dedicarsi ai nuovi programmi geostrategici ed economici in Asia Centrale…Nel triangolo in movimento si inserisce Osama Bin Laden”(6)

Si affaccia una nuova borghesia “islamica”

Dunque, il risentimento contro gli Usa per l’intrusione permanente in Arabia Saudita e nel Golfo e la subalternità delle monarchie arabe, la disillusione sugli strumenti democratici dopo il colpo di stato in Algeria e il “Grande Gioco” in Asia Centrale, forniscono la materia prima  alle ambizioni di una nuova generazione politica ed economica nel mondo arabo-islamico.

Ma chi è questa nuova generazione? “Troppo spesso descritte esclusivamente come tradizionali e conservatrici, le società arabe e musulmane sono comunque cambiate in questo quarto di secolo” scrive un autorevole osservatore come Alberto Negri “Non si spiega altrimenti il fatto che i jihadisti coinvolti nelle operazioni di Al Qaeda siano borghesi istruiti con basi tecniche e scientifiche secolari… Il terrorismo islamico, come molti suoi predecessori in Occidente, è un’attività borghese” (7).

L’analisi di classe di Alberto Negri su Al Qaeda trova conferma anche in altri osservatori. “Analizzando i capi carismatici dei nuovi gruppi terroristici si nota immediatamente il fatto che la provenienza non è la stessa delle risorse umane terroristiche precedenti” scrive un analista di problemi militari e strategici. “Essi sono i rampolli dell’èlite civile e militare musulmana, provenienti dalle università non solo religiose formatisi durante la guerra contro l’URSS in Afghanistan, spesso rifiutati dai propri paesi perché possibili oppositori politici” (8)

Analoga la diagnosi avanzata da Eugenio Scalfari all’indomani degli attentati di Londra, quando più di qualcuno ha cominciato ad aguzzare le idee dopo anni di idiozie diffuse da Magdi Allam su La Repubblica (e oggi diffuse dal Corriere che anche per questo sta perdendo lettori). “Chi li guida?” si chiede Scalfari “I capi appartengono ad un ceto sociale decisamente più elevato. Un embrione di classe dirigente. Credenti nella fede ma anche animati da un progetto (utopistico) e da un sentimento (terribilmente reale). Il progetto è il Califfato”. (9)

Dalla subalternità alla competizione con gli Usa

Ma come è nato questa “embrione di classe dirigente” nel mondo arabo-islamico? E di quali mezzi dispone?

Per rispondere, dobbiamo porci le stesse domande che si sono posti centinaia di “rampolli” delle èlite nei paesi arabi e islamici a metà degli anni Novanta, quando – almeno secondo Ahmed Rashid – Osama Bin Laden riunì intorno a se i veterani della guerra afgana, “disgustati dalla vittoria statunitense contro l’Iraq e dalle èlite al governo nei paesi arabi che avevano permesso la permanenza delle truppe statunitensi nel Golfo” (10).

Si tratta della crème delle nuove generazioni delle petromonarchie del Golfo, ma anche di egiziani, algerini, giordani, pakistani. Hanno combattuto in Afghanistan ma anche in Bosnia e nella prima guerra in Cecenia e spesso lo hanno fatto con istruttori statunitensi, da cui hanno imparato molti trucchi della “guerra sporca”.

Sono istruiti perché in molti casi hanno studiato nelle università Usa o nei college inglesi. Sono ricchi perché la Jihad Corporation ha ricevuto direttamente tra i 300 e i 500 milioni di dollari, ma possono mettere le mani anche dentro i 230 miliardi di dollari delle istituzioni finanziarie islamiche calcolati da Ibrahim Warde (11). Non solo, le petromonarchie arabo-islamiche hanno circa 1.800 miliardi di dollari investiti negli Stati Uniti e in Europa. Un loro spostamento provocherebbe danni significativi (nel caso degli Usa, devastanti) sulle economie dei paesi occidentali. La tentazione si è affacciata più volte in diversi ambiti del mondo arabo. (12).

Analogamente, uno dei primi documenti di Osama Bin Laden (23 agosto 1996) esplicitava l’appello a “riprendere tutto il petrolio nelle mani nell’Islam” e a ritenere la presenza degli Usa nel Golfo come “il più grande pericolo che minaccia le più grandi riserve di petrolio del mondo”. Per queste ragioni, i popoli sarebbero stati costretti alla Jihad armata contro gli occupanti.

Una parte di questa èlite realizza una delle principali e più riuscite operazioni di omogeneizzazione culturale del mondo arabo-islamico, dando vita alla televisione Al Jazeera. E’ uno strumento di altissima qualità che per la prima volta mostra alla popolazione quanto avviene in tutto il Medio Oriente fino all’Asia Centrale ridando – per la prima volta – identità e protagonismo ad un mondo vissuto dentro la subalternità coloniale e post coloniale.

Un’altra parte sceglie di passare all’azione con un progetto politico ben preciso. Ritiene di poter essere classe dirigente, ha ingenti mezzi finanziari, controlla gran parte delle riserve petrolifere del mondo, ma non ha alcun peso politico internazionale né sul teatro regionale del “Grande Medio Oriente”. Ad opporsi a questa ambizione sono soprattutto gli Stati Uniti e la subalternità delle monarchie o delle dinastie al governo nel mondo arabo-islamico.

Questo blocco di potere conosce bene l’Occidente. Lo ha frequentato, ci ha studiato, ci ha vissuto. Spesso ne conosce le leadership (vedi i rapporti tra il clan Bush e il clan Bin Laden) e ne conosce i punti deboli. Maneggia adeguatamente le comunicazioni di massa, oggi terreno fondamentale di ogni guerra globale. “Al Qaeda, o le sue diramazioni più o meno indipendenti, è anche un animale politico. L’attentato di Madrid ha mostrato una capacità logistica e di elaborazione strategica che si sperava non avesse”, segnala ancora Alberto Negri. “Colpendo la Spagna fino ad influenzarne il voto, Al Qaeda porta nel campo nemico lo stesso genere di sfida che gli americani hanno lanciato in Medio Oriente attaccando l’Iraq: il tentativo di cambiare il regime del nemico”. (13)

E’ dentro queste ambizioni globali che è nato l’attacco dell’11 settembre 2001 negli Usa e quelli successivi di Madrid e Londra. In quest’ultimo caso, è stato fin troppo evidente il messaggio. E’ stato come bussare (con violenza) alla porta del vertice del G8 affermando che, alla prossima riunione, dovrà essere invitato anche il nuovo blocco di potere (il “Califfato”) sorto in questi anni nel mondo arabo-islamico. In caso contrario il “pressing” continuerà sia nei teatri di guerra che nelle metropoli delle grandi potenze occidentali.

Il blocco di potere che si esprime attraverso Al Qaeda è dunque un nuovo possibile competitore globale contro l’egemonia degli Usa ma anche contro le ambizioni neo-coloniali delle potenze europee. Oggi lo scontro appare feroce, ma niente esclude che tra i soggetti in campo si possa raggiungere un accordo, sia perché sono mossi dagli stessi interessi di classe ma soprattutto in presenza di una forte difficoltà dell’imperialismo fino ad oggi egemone ossia gli Stati Uniti. La natura di classe ed il progetto politico di Al Qaeda non ne fanno dunque un compagno di strada per chi lotta per la liberazione sociale e per l’autodeterminazione dei popoli. Sembra un dettaglio… ma non lo è. Conoscere i nostri nemici è fondamentale, anche quando si combattono tra di loro.

NOTE:

(1)   Pier Giovanni Donini. “Là dove la politica diventa religione”, in Storia e Dossier, nr.52 giugno 1991

(2)   Intervista a Bernard Lewis in “L’Histoire, nr.141, febbraio 1991

(3)   Oliver Roy in Le Monde Diplomatique, settembre 2004

(4)   Nafez Mossadeq Ahmed. “Guerra alla verità”, p.66

(5)   Majid Karshenas. “L’Islam radicale e la specificità iraniana”

(6)   Lucio Caracciolo. “Il sogno di Osama”, Limes nr. 1 del 2004

(7)   Alberto Negri. “Viaggio nella Jihad Corporation”, in Sole 24 Ore del 3 agosto 2005

(8)   Leandro Abeille “Terrorismo, Iperterrorismo e TerGuerra” in Pagine Difesa 15 luglio 2005

(9)   Eugenio Scalfari. “Il partito della morte e dell’orgoglio”, la Repubblica del 10 luglio 2005

(10) Ahmed Rashid. “Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale”p.165

(11) “Tutti gli affari condotti in nome di Allah”, Affari e Finanza, 24 settembre 2001

(12) “Riprendiamoci i soldi. Intervista a Said Al-Martan, CorrierEconomia, 14 gennaio 2002

(13) “Al Qaeda, obiettivo destabilizzazione”, in Sole 24 Ore del 20 marzo 2004

* redazione di Contropiano.

Questo articolo è uscito su Contropiano n. 3/2005 (luglio-settembre)


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