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Malumori costituenti

In questo vuoto relativo ogni soggetto organizzato prova a mettere paletti, marcare confini, guadagnare spazio, delineare gli equilibri futuri per lui più vantaggiosi.

Gli imprenditori, da sempre, sono i primi a muoversi in questa direzione. Ma stavolta hanno un problema serio, all’interno, che rischia di renderne l’azione molto poco lucida.

Sul fronte del governo, della “politica” propriamente detta, sono in posizione ottima. Berlusconi ha le valigie in mano ed è pronto a fare tutto quanto gli vien chiesto – da chiunque – pur di restare a palazzo Chigi il tempo necessario a cavar fuori dal cappello una legge che lo metta definitivamente al riparo (insieme alle sue società) dall’azione dei magistrati. L’opposizione democratica, al di là degli slanci retorici “popolari” (come il voto dichiarato ai referendum), si sbraccia all’inverosimile per far capire alle imprese che tutelerà i loro interessi assai meglio di come non abbiano fatto i berluscones (anche se sembra difficile competere in negatività con Maurizio Sacconi).

Vogliono subito una riforma fiscale. E potrebbero ottenerla facilmente se i conti pubblici non fossero già così disastrati (un debito al 120% del Pil) da non poter tollerare riduzioni di entrate non sostituite con tagli. Il limite, qui, è chiarissimo. Dal primo gennaio di quest’anno è l’Unione europea a sorvegliare i bilanci nazionali; e all’Italia è richiesta una manovra da 45 miliardi di euro, da articolare tra giugno e dicembre, in due tranche. Il solo taglio dell’Irap sul lavoro dipendente – una misura che restituisce soldi soltanto alle aziende – produce un ulteriore ammanco di 12-14 miliardi.

L’idea di Tremonti, il vero bersaglio delle pressioni congiunte di berlusconiani e leghisti, è quella di spostare la tassazione dal reddito personale “alle cose”; ovvero ai consumi, aumentando l’Iva. Non proprio una misura in grado di “scuotere” l’economia, specie se non accompagnata da riduzioni del prelievo anche sul lavoro dipendente. Cosa che, a sua volta, apre altri ammanchi nelle entrate dello Stato. Su questo fronte l’unica idea che trova consensi – cattolici, peraltro – è l’introduzione del “quoziente familiare” come parte fondamentale dell’intervento più generale sull’Irpef; ma, anche qui, un solo punto percentuale in meno sui redditi fino a 28.000 euro annui costerebbe 6-7 miliardi.

Lavorando di lima e scalpello (specie sulla spesa sociale, a partire dalla sanità), però, non c’è dubbio che “i tecnici” di via XX Settembre riusciranno a trovare di che soddisfare – almeno in parte – gli appetiti delle imprese.

 

Le quali fanno però sempre più fatica a trovare un atteggiamento condiviso sulla contrattazione e quindi sulla stessa continuità della loro associazione, Confindustria.

Qui gli strappi creati dal “modello Marchionne”, ribaditi e rilanciati con le esternazioni americane dell’a.d. della Fiat, sembrano più difficilmente componibili. Il tentativo di “trovare la quadra” fatto da Alberto Bombassei (“i contratti aziendali che abbiano il consenso della maggioranza dei dipendenti possono prevalere sui contratti nazionali”) ha creato più problemi che soluzioni. Le aziende che effettivamente discutono anche un contratto aziendale sono appena il 2%. Colpa del nanismo delle imprese italiane, oltre che dell’obiettiva difficoltà di “sindacalizzarle”. Il contratto nazionale di categoria, dunque, ha una funzione “unificante” le condizioni di partenza della competitività tra imprese, oltre che delle condizioni di lavoro e salariali dei dipendenti. Strappare questa tela significa “balcanizzare” le relazioni industriali. In primo luogo differenziando imprese che possono delocalizzare (le multinazionali come Fiat e poche altre) e quelle che non possono proprio farlo; poi tra quelle che hanno una presenza sindacale “vera” all’interno e le altre che ne sono prive; e così via.

Ma se questo è vero, è chiara anche la strada che Confindustria – Bombassei docet – prova a seguire: sfruttare l’effetto “sfondamento” generato da Marchionne e costruire un nuovo sistema di relazioni basato sulla “deroga” e su un sindacato “aziendale” nel senso più stretto del termine: un’appendice dell’ufficio personale (là dove l’impresa ha dimensioni tali da prevederlo) o più banalmente un “caporale”.

In questa corsa alla strutturazione di equilibri sociali e istituzionali diversi – che vuol passare il più possibile inosservata all’ombra del ben più “attenzionato” crollo della stagione berlusconiana – per far pesare interessi opposti si deve certamente agire fin da subito all’interno dei posti di lavoro, ma non basta più. Spagna e Grecia, dopo la “primavera araba”, mostrano la strada che va percorsa: portare un popolo sotto i palazzi della “politica politicante”, contrapporre le necessità vitali alla pura pratica dello scambio di favori. In una parola: conquistare la politica disarcionando i maneggioni.

L’occasione c’è, a breve termine: il varo della manovra economica di “lacrime e sangue”, da qui alla fine di giugno. E’ l’ora di cominciare a farsi sentire.

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