Menu

Capitano cercasi

Bossi ha concentrato tutta l’attenzione su di sé, ingigantendo così la difficoltà in cui questo partito locale è incagliato. Non può scaricare Berlusconi prima di aver contrattato una funzione almeno soddisfacente in un’altra configurazione politica; non può rimanere ancora attaccato al satiro di Arcore senza dilapidare il consenso abilmente costruito in 20 anni. Non può dunque rappresentare alcuna ipotesi di ampio respiro di “ristrutturazione” del paese, perché il suo orizzonte – sia culturale che di interessi – non va oltre il chiuso delle valli, il perimetro angusto dei capannoni o delle boite artigiane. E in una crisi globale “piccolo” non è più “bello”, al massimo consolatorio e con un certo profumo di “caratteristico”. Di passatista, insomma.

Ma ad una base delusa e spaventata dall’odore di sconfitta imminente ha dovuto promettere che “questo ciclo politico è chiuso”. Con Berlusconi non si andrà più. Se poi questo accadrà a ottobre o un po’ più in là, dipenderà da tante variabili che – oggi più di prima – sfuggono al controllo e persino alla comprensione della Lega. Intanto si buttano lì delle condizioni (fine della guerra contro la Libia per risparmiare soldi, riforma fiscale subito, quattro ministeri al Nord) semplicemente inapplicabili. Argomenti o scuse per rompere, tra qualche mese.

 

Ma proprio l’economia è il problema. La minaccia di “fare subito la manovra da 40 miliardi” è una bomba messa sotto i fragili equilibri di governo ben più robusta dei petardi bagnati della Lega. Non solo non accoglie le pressanti richieste di “allentare i cordoni della borsa”, ma promette di stringerli fino a strozzare qualunque velleità di fare campagna elettorale col deficit spending. Un calcio alla sedia su cui barcollava l’impiccando.

La “politica del rigore” – spiega Tremonti – “non è temporanea, non è conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, ma è invece la politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire”. Il ministro si è così fatto immediatamente forte della minaccia di Moody’s di tagliare il rating sul debito pubblico italiano, che spalancherebbe le porte alla speculazione finanziaria in cerca di sangue fresco. E tutti sanno – nel centrodestra come nel centrosinistra – che la politica monetaria e fiscale non sono più nella disponibilità dei governi nazionali. La vicenda della Grecia – dove Bce e Fmi stanno in queste ore imponendo non solo una serie di “misure economiche”, ma persino la formula di governo più adatta a gestirle – parla a ogni paese dell’Europa: i governi nazionali hanno lo stesso grado di autonomia di una regione o un comune. Il Belgio, del resto. È da oltre un anno senza un governo nazionale, ma nessuno se n’è accorto: tutto continua come prima, persino la repressione delle manifestazioni di protesta (a proposito: chi è che dà l’ordine di caricare la piazza?).

Tremonti è per ora il terminale riconosciuto dal “vertice”, sia esso collocato a Bruxelles o a Francoforte.

 

Se è così – e non c’è spazio per i dubbi – il problema della politica italiana è trovare un configurazione in grado di garantire l’obbedienza ai diktat comunitari o internazionali mantenendo al contempo un grado rassicurante di consenso sociale. Una ruolo che Berlusconi e la Lega non possono più, manifestamente, ricoprire; ma che per ora non ha trovato una nuova squadra di interpreti.

L’appoggio a Tremonti di Confindustria e persino della segretario generale della Cgil; l’apparente imbizzarimento improvviso dei complici di Cisl e Uil; il silenzio minaccioso dei democristiani dentro il Pdl; la stessa “assise sul lavoro” del Pd che ha di fatto garantito il “pieno rispetto” di tutti i vincoli posti dalla Ue; sono tutti segnali di assestamento della classe politica “più seria” su una linea che – a livello internazionale – non vuol sentir parlare di “alternative” o “ricontrattazione delle regole fondamentali” dell’Unione.

Ma non è un assestamento pacifico e senza contraddizioni. La querula presidente di Confindustria, che pretende la botte piena del “rigore nei conti pubblici” e il marito ubriaco della “riforma fiscale”, riassume in pieno esigenze al momento inconciliabili. Tanto più in un momento in cui l’indispensabile “ricambio politico” deve essere realizzato senza una crisi di legislatura (stesso parlamento, altra politica e altro governo) e in assenza di consenso generale su una nuova legge elettorale.

E’ questa fragilità della classe dominante a tenere ancora in vita “il tappo”. Che guadagna tempo, non speranze.

 

 

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *