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Neil Armstrong. La morte del futuro

Mentre scorrono da tutti gli schermi le immagini in bianco e nero della conquista della Luna, tra computer che oggi sarebbero delle banali calcolatrici ed errori di traduzione ieri solo imbarazzanti (oggi da licenziamento immediato), è bene inquadrare cosa si porta via l’astronauta silenzioso designato dalla Nasa ad essere “il primo uomo” su un corpo celeste diverso dalla Terra.
Essere il primo non è mai una cosa banale. Segna un’epoca (ammesso che la “primazia” si eserciti su un campo socialmente e storicamente rilevante; e certamente lo sbarco sulla Luna è stato un grandissimo avvenimento, un concentrato di obiettivi e significati).
Gli Usa l’avevano certamente concepito come l’affermazione di una supremazia nelle gara simbolicamente e tecnologicamente più importante: quella della “conquista dello spazio”, dove i sovietici – prima con la cagnetta Laika, poi con Yurii Gagarin – avevano segnato altrettante “prime volte” shokkanti per gli Usa e il capitalismo occidentale. Da questo punto di vista fu un loro indubbio successo, che cadeva però in un contesto globale di grande difficoltà. Non solo quelle economiche che portarono, solo due anni dopo, all’abbandono della parità fissa dollaro-oro e alla distruzione del sistema di Bretton Woods.
La guerra d’aggressione al Vietnam aveva demolito l’immagine positiva dell’America, e le giovani generazioni fuggivano a milioni dall’adesione passiva alla “società dei consumi”. La stessa conquista della Luna, invece di suonare semplicemente come “una vittoria Usa”, apparve come un esempio delle possibilità dell’umanità, se solo avesse messo da parte la “competizione” per agire finalmente in modo “cooperativo”, e quindi pacifico. Se era possibile arrivare sulla Luna, “doveva” essere possibile anche cambiare vita anche qui sulla terra.
Il futuro era un oceano di possiblità infinite (non era ancora percepibile in modo chiaro l’esaurimento di alcune risorse naturali non riproducibili, anche se gli scienziati del “club di Roma” erano già al lavoro): l’unico problema sembrava quello di riuscire ad operare una “sintesi pacifica” delle capacità umane, accantonando la ricerca del profitto e della ricchezza individuale. Superando “progressivamente” le divisioni in classi, ceti, caste.
Non era così nemmeno allora. E i conflitti proseguivano, anzi – come nel Vietnam – diventavano più duri e devastanti. Ma sembrava possibile. Il “progressismo interclassista” aveva dunque – se non una base sociale oggettiva o una prospettiva progettuale scientificamente fondata – uno scenario di conoscenze e obiettivi su cui poggiare in modo credibile.

Armstrong, andandosene come tutti dobbiamo fare prima o poi, ha reso lampante la “morte del futuro” che sta delineandosi in questa crisi sistemica senza fine (la luce in fondo al tunnel, come giustamente ha scritto Ipazia, la poteva vedere solo John Belushi). Il futuro dello sviluppo, addirittura su dimensione extraterrestre, appare oggi come un passato lontano. In bianco e nero. Quasi morto e sepolto, anche come mito fondativo del capitale. E il domani per centinaia di milioni di uomini è solo un altro oggi, ma più denso di rischi e portatore di maggiore povertà.
Impossibile non vedere la gioia per un “domani” che si concretizzava davanti ai nostri occhi nello sguardo e nelle parole di tutti quelli che appaiono nei vari filmati d’epoca, fossero uomini di governo, scienziati o semplici spettatori di un evento fin lì inconcepibile. Dov’è ora quella fiducia nel futuro?
L’Armstrong di cui tutti parlano oggi è un ciclista dopato. Un grande atleta che ha falsificato se stesso e s’è perso. Metafora del capitalismo in un corpo solo.

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