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Primarie di chi?

Usciamo dal cicaleccio dominante e occupiamoci di analizzarle dal punto di vista “di classe”: chi rappresenta oggi il Pd? Soprattutto: chi sono quei 3 milioni che sono andati a votare per due volte in una settimana? E infine: cosa pensano possa scaturire da un candidato premier o dall’altro? Abbiamo già scritto molte volte che chiunque avesse vinto il “programma di governo” sarebbe stato lo stesso: l’agenda Monti, con il Fiscal compact e il pareggio di bilancio obbligatorio, quindi ancora tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e dismissioni ed eventualmente nuove tasse. La stessa “carta di intenti” siglata dai cinque competitor, Vendola compreso, rappresenta in questo senso una conferma e un vincolo poco “trattabile” in futuro. Non tanto o solo dentro la “coalizione” o il Pd “allargato a Sel”, quanto in Europa. Hollande insegna che le promesse elettorali di “revisione dei trattati” hanno una scadenza massima di 15 giorni dopo il voto. Poi vengono seppellite dopo il primo vertice. Sia Bersani che Renzi, su questo punto, non avevano lasciato spazio a illusioni. Il “profumo di sinistra” lo ha sentito solo Vendola.

Fissati i paletti “macro”, occupiamoci del fenomeno primarie nei suoi limiti.
L’attuale Pd è un partito “popolare” e interclassista soprattutto nelle regioni un tempo “rosse”. Dove l’egemonia politico-programmatica è stata da sempre conquistata dagli “amministratori” (consiglieri comunali, regionali, provinciali, gestori di cooperative più o meno immense, amministratori di municipalizzate, ecc). Un controllo totale compensato da un welfare da record europeo, che giustificava quindi ampiamente il “consenso operaio” – e contadino – oltre che di tutto il lavoro dipendente. Roba d’altri tempi…

Altrove non è così. Come fa notare Aldo Cazzullo, oggi sul Corriere, “Da decenni gli operai lombardi e veneti votano Lega, le casalinghe e i disoccupati del Sud stanno con Berlusconi, mentre ora studenti e precari guardano a Grillo. Il Pd – proprio come il Ps di Hollande, non a caso il leader europeo con cui Bersani si trova meglio – è un partito innanzitutto di ceto medio dipendente, insegnanti, funzionari pubblici, pensionati, borghesia intellettuale, oltre che di emiliani e toscani; gente non proprio entusiasta della patrimoniale che apre la lista delle promesse di Bersani”.

Una fotografia tagliata con l’accetta, con molte zone inesplorate, ma sostanzialmente vera; che spiega anche molto dei consensi a Renzi nelle zone “rosse”. È quella fetta di “popolo progressista” che vive ancora decentemente, anche se le ombre sul futuro – specie dei figli – appaiono con forza ben al di qua dell’orizzonte. È la porzione che ancora vede nella Cgil una difesa affidabile e una presenza importante. E non a caso proprio i corpi intermedi residui (Cgil, Arci, ecc) hanno costituito l’ossatura del consenso a Bersani (come nel primo turno, al Sud, a Vendola).

In questo senso, la vittoria di Bersani è la vittoria delle “organizzazioni sociali” sulla mobilitazione mediatica, che spingeva come un sol uomo per l’attor giovane di Firenze. È la vittoria degli interessi sociali rappresentati sugli umori, le paure e gli interessi nascosti, in un miscuglio non nuovo ma sempre ritornante nelle crisi sistemiche.

Sul piano sociale, prima ancora che politico, questa differenza va colta nelle sue conseguenze: il perdurare della recessione logora senza pietà il mondo degli interessi rappresentati. Riforma delle pensioni, mercato del lavoro, art. 18, tagli, riduzione degli ammortizzatori sociali; ma anche caduta dei redditi e dei consumi, quindi crisi del commercio al dettaglio e degli artigiani, ecc.

La parte di popolo socialmente non rappresentata lo è anche sul piano politico. Grillo ne intercetta una parte, a sua volta solleticando gli umori e le paure, mentre resta vacante l’organizzazione di questi interessi. Che sarebbe in primo luogo un compito politico-sindacale, ma la Cgil non ha cultura politica né soluzioni plausibili per assolverlo; mentre il sindacalismo conflittuale ha ancora problemi di estensione, diffusione, nonché di “quadri” in quantità e qualità adeguata allo sforzo. I “movimentismi” sempre emergenti segnalano il problema, quasi mai ne costituiscono o individuano la soluzione; ma restano una risorsa essenziale per qualsiasi ripresa diretta di parola da parte di questa parte di popolo.

In questo scenario, che dominerà i mesi da qui alle elezioni meno decisive che si siano mai viste in Italia, il Pd rischia contemporaneamente un logoramento del suo blocco sociale e l’attirarsi di tutte le ostilità sollevate dall’azione del governo Monti. È la preccupazione nientemeno che de Il Sole24Ore, che con Stefano Folli sottolinea come “il Pd, oggi, appare solo, troppo solo, in mezzo alla scena politica. […] l’ultima fase delle primarie, più che il processo di selezione del candidato di schieramento, ha dato l’idea, in alcuni momenti, di un confronto ‘presidenziale’ […] fra due candidati dello stesso partito”. Ovvio il desiderio di un polo ufficialmente presentabile come allo stesso tempo “moderato” e “responsabile” che riempia il vuoto altrimenti occupabile dai populismi reazionari fin qui tenuti sotto controllo (Lega, destra fascista, parti dello stesso Pdl). Insomma, è il desiderio di avere due “poli” ufficialmente alternativi ma praticamente interscambiabili.

Resta da rispondere all’ultima delle domande iniziali: (quei tre milioni di persone) cosa pensano possa scaturire da un candidato premier o dall’altro?

Pensano naturalmente di poter essere ancora tutelati, magari sacrificando qualche altro pezzo del proprio status, nella speranza che la stramaledetta “ripresa” si faccia viva entro i prossimi anni. Sperano, soprattutto. L’idea – espressa apertamente soltanto dai vendoliani e da parte dei protagonisti di “Cambiare si può” – è che si possa davvero condizionare il Pd, spingendolo poi a governare “ricontrattando” gli accordi e i vincoli europei. Nonostante (o dimenticando) il precedente di Hollande, comunque elettoralmente ben più robusto e “programmaticamente” determinato di quanto non sarà mai il Pd.

È un’idea malsana che sempre ritorna. La manifestazione di un “principio speranza”, non di una strategia politica. Una pia illusione, dopo venti anni di illusioni. Tafazzi.

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