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Il decreto salva-Riva

Ma la situazione dell’azienda si è fatta più grave e quindi l’intervento di salvaguardia ha assunto, nonostante le intenzioni amichevoli, caratteristiche più “invasive”. Non si tratta insomma né di un “esproprio”, né di una limitazione delle prerogative della proprietà privata; ma di una compassionevole “sospensione” per evitarle il suicidio.

Proprio per questo il decreto fotografa la miserevole condizione dell’imprenditoria italiana, incapace di sostenersi con le proprie forze (e intelligenze) ma sempre pronta a sbraitare contro “l’ingerenza del potere pubblico”. Il caso Ilva è quindi paradigmatico di una condizione generale.

Vediamo le caratteristiche principali del decreto e soppesiamo poi le reazioni industriali.

Il commissariamento durerà 12 mesi, rinnovabile fino a un massimo di 36 mesi, poi il controllo tornerà alla proprietà (se esisterà ancora). Del resto l’azienda è stata dichiarata – e lo è anche effettivamente – “di interesse strategico”. La bozza del decreto legge che era entrata in Consiglio dei ministri prevedeva invece una durata massima di 36 mesi, senza necessità di rinnovo. I berlusconiani si sono battuti per l’attenuazione.

Il commissario è Enrico Bondi, che già il governo precedente aveva nominato amministratore unico, sostituendo un management fin lì capeggiato addirittura da un prefetto, Bruno Ferrante (a dimostrazione che già prima la situazione societaria era tutt’altro che “normale”). Non si può insomma dire che sia stato operato un cambiamento reale, o addirittura “ostile” alla proprietà.

Il decreto dispone anche il dissequestro degli 8 miliardi bloccati dalla magistratura nei giorni scorsi. Una misura fatta nel nome dell’”operatività finanziaria dell’azienda”, che già lamentava problemi di pagamento delle forniture, blocco delle carte di credito in mano ai dirigenti, ecc. Il governo ha insomma “restituito” all’azienda 8 miliardi che la proprietà (i Riva) avevano “imboscato” per investirli in giochi finanziari invece che nella bonifica degli impianti. E che i magistrati tarantini avevano giustamente posto sotto sequestro. Qui il regalo del governo all’azienda è clamorosamente evidente.

Bene. Per cosa protestano gli industriali, capitanati ovviamente dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi?

«Se non saremo capaci di dare un’impostazione che rispetti i diritti della proprietà e tutto quello che è connesso a un’attività manifatturiera di questo tipo, sarà poi difficile richiamare in Italia ulteriori investimenti esteri e impossibile svolgere attività siderurgiche: temo che tutto ciò possa allargarsi a macchia d’olio, ad altri settori come la chimica». Perché in gioco c’è «la possibilità per il futuro di fare industria pesante e complessa nel nostro Paese».

Ancora peggio Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, l’associazione (quasi familiare) che riunisce i pochissimi industriali italiani del settore: con questo decreto si «crea un pericolosissimo precedente» per «tutta la media e grande impresa nazionale, perché vale per tutti i siti di interesse nazionale, che fino a oggi sono tutte le fabbriche con più di 200 addetti, vale a dire tutta la media e grande impresa nazionale. Ognuna di queste fabbriche da oggi rischia di essere commissariata non per decisione di un Giudice, ma soltanto per contestazioni di violazione di norme ambientali effettuata da un Pm inaudita altera parte».

In queste due reazioni c’è tutta la miseria di una categoria che non somiglia nemmeno troppo a quella dell’industriale europeo. Anzi, c’è quasi una confessione collettiva: “così facciamo tutti”.

In pratica si dice: il diritto di proprietà deve essere prevalente su ogni altra considerazione, legge compresa. Non è insomma accettabile che una fabbrica sia commissariata «soltanto per contestazioni di violazione di norme ambientali», perché questo creerebbe un’incertezza sulla “libertà di impresa” tale da allontanare gli investitori stranieri.

Qui c’è intanto una menzogna sui fatti: in questo periodo gli “investitori stranieri” stanno comprando aziende italiane a rotta di collo, a prezzi stracciati, senza alcun timore né di essere espropriati né, tantomeno, di non poter far fronte al terribile “costo del lavoro”. Giocano consapevolmente e freddamente sull’incapacità degli imprenditori italici e sulla loro notoria voglia di disfarsi delle complicazioni del manifatturiero, tentati come sono da business più veloci e fin qui redditizi (finanza, immobiliare, ecc). Semmai, qualche timore per gli investitori stranieri deriva dall’inveterata abitudine dell’impresa italiana a farsi strada con appalti non trasparenti, fino alla contiguità con l’economia sommersa o apertamente mafiosa; e quindi con ampie zone di territorio in cui, come si usa dire, la “certezza della legalità” è messa in discussione dall’alto, dai gruppi dominanti, non certo dalla conflittualità sociale o dalla “permissività” della magistratura.

Tolta la menzogna dunque, resta solo la pretesa di agire senza alcuna “responsabilità sociale”; né verso i dipendenti, né verso il territorio, né verso lo Stato. Nel caso dell’Ilva – così come in quello dell’Eternit o di molte altre imprese – si vede come un’industria che rifiuta ogni regola possa creare disastri più grandi dei profitti. Danni ambientali che si traducono in mortalità crescente, certamente. Ma anche in costi economici (spese sanitarie, bonifiche parziali, ammortizzatori sociali, ecc) che vengono disinvoltamente scaricati sul “pubblico”, contribuendo così ad aumentare quel “debito sovrano” che gli stessi industriali, sui loro giornali, indicano come l’unica causa di tanta crisi.

Questo è il quadro. “Imprenditori” di tal fatta non possono, non sanno, non concepiscono altra “libertà” che il proprio gretto interesse.

E quindi solo l’esproprio definitivo, senza alcun indennizzo, può essere una misura appropriata. Certo, questo è possibile solo in un altro mondo, rimesso con i piedi per terra.

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1 Commento


  • almanzor

    Segnalo l’esauriente disamina di Marcello de Cecco sulla gestione dei Riva, paradigmatica di buona parte dell’industria italiana, uscita su Affari & Finanza del 3 giugno.

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